Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XXII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXII.
Belisario si fa giuoco delle macchine condotte dai Gotti. Sua mirabile agilità nel trarre d’arco. Vitige dalla porta Salaria passa alla Prenestina. — La mole d’Adriano ostinatamente assalita con vie più ostinazione resiste.
I. Nel decimottavo giorno dell’assedio intorno allo spuntare del sole i Gotti capitanati da Vitige procederono contro le mura. E per verità i Romani tutti si rimasero sbigottiti dall’insolito spettacolo in mirando avvicinarsi le arieti e le torri. Belisario in cambio alla vista del costoro esercito procedente con quell’apparato sogghignava, e faceva comando ai soldati che si moderassero, e dessero principio alla pugna sol quando ne avrebbero da lui il segno: la cagione poi del suo riso a tutti occulta in allora fecesi col tempo avvenire manifesta. I Romani pertanto a quel suo facetamente prendersene giuoco il censuravano e nomavanlo temerario, mal tolleranti la di lui noncuranza all’inoltrare de’ Gotti. Se non che venuti questi vicino della fossa, primo il duce imperiale togliene di mira colla sua faretra uno armato di lorica ed alla testa della schiera, trafiggendolo sì mortalmente nel collo che videlo a cadere supino; laonde tutto il popolo tenendo ciò di ottimo presagio manda fortissime ed inudite grida: avventata poscia dal duce una seconda freccia coll’eguale successo maggiori grida sursero dalle mura, gli imperiali credendosi già vittoriosi del nemico. In questa Belisario dato il segno a tutte le truppe, ordina di por mano agli archi inculcando loro di ferire principalmente i buoi, de’ quali ben presto fatto un generale scempio, i Gotti più non poterono spigner oltre le torri, ed arrenarono mancanti d’arte e di consiglio a mezzo l’impresa. E tanto fu assai chè ognuno confessasse l’ottimo provvedimento del duce vietando intraporre ostacolo al proceder di coloro per ancora lontani, e addivenisse palese la cagione del ghignar suo, vo’ dire la goffaggine de’ barbari, i quali con tanta sconsigliatezza eransi dati a sperare che condurrebbero i buoi sino appiè di quel muro. Andata come scrivea la bisogna alla porta Belisaria, Vitige, rispintone, vi lasciò un forte corpo di truppe, dando allo schieramento molta profondità, e fe’ comando ai capi di non muovere contro la cinta ma di lanciare, fermi in quell’ordinanza, strali sopra de’ merli, affinchè Belisario non avesse mezzo di aiutare i suoi alle prese in altra parte, dov’egli stesso andrebbe a tentare un più forte colpo. Avviossi in effetto con grande caterva di armati ad un luogo vicino alla porta Prenestina, chiamato dai Romani Vivario, meglio prestandosi colà il muro ad una espugnazione; al qual uopo eranvi già pronte e torri ed arieti con altre macchine, e copia di scale.
II. Il nemico intanto assalì eziandio la porta Aurelia come prendo a narrare. Fuori di essa, un tiro di pietra dalle mura, s’erge la tomba di Adriano Augusto, opera veramente stupenda e meritevole di ricordanza. La sua costruzione è tutta di marmo Pario, i cui pezzi connettonsi perfettamente tra loro, avvegnachè nelle commettiture nulla abbiavi da collegarli insieme. Eguali ne sono i quattro lati, ognuno lungo un trar di pietra e sovrastante in altezza le mura della città; bellissime statue poi del prefato marmo, rappresentanti uomini e cavalli, dannole compimento1. E siccome cotanta mole avea sembianza d’un fortilizio contro Roma gli antichi la unirono alle mura edificando due bracci che da quelle venissero fino a lei; assomiglia quindi a torre altissima destinata a proteggere la vicina porta. Il quale propugnacolo addivenuto in allora assai opportuno, Belisario aveane fidata la difesa a Constantino commettendogli parimente la salvezza del muro contiguo presidiato da pochissima truppa; imperocchè il fiume trascorrendovi da vicino parea guarentirlo abbastanza da ogni molestia. Egli adunque fermo nel pensiero che nulla da colà si tenterebbe aveavi collocato debolissimo presidio per accrescere il numero de’ combattenti laddove il bisogno era di gran lunga maggiore; e per verità molto scarseggiava di militi, computandosi que’ rinchiusi in Roma al principio di questo assedio non eccedenti, se pur v’arrivavano, il numero di cinquemila. Constantino avuto dagli esploratori che i barbari accingevansi a valicare il Tevere, pien di timore per l’antedetto muro, pronto vi accorse con altri pochi tolti dalla custodia della porta e del tumulo. I Gotti in effetto lui assente fecero impeto contro la porta Aurelia e la mole di Adriano non con macchina di sorta, sì bene con immensa quantità di scale e frecce, persuasi che riuscirebbero di tal guisa a ridurre più facilmente il nemico in angustie, e ad impadronirsi a bell’agio del fievolissimo corpo di guardia ivi rimaso. Ora con questo divisamento, portando a riparo della persona scudi non minori delle gerre persiane, vi procedevan sotto, e quantunque già vicini ai nemici non erano per anche da loro veduti la mercè d’un portico unito al tempio dell’apostolo Pietro. Tale eglino con improviso impeto investirono le mura impedendo a un tempo che l’inimico traesse vantaggio dalla cosiddetta balista, macchina solo atta a lanciare strali da lunge, o dalle frecce, le quali trovando invincibile resistenza negli scudi non recavano danno alcuno agli assalitori. Oltredichè fermissimi nella impresa avventavano dardi a furia contro de’ merli, ed erano già per appoggiare al muro le scale, riusciti quasi a cingere i difensori della mole, essendo che dato buon fine a quella impresa incontanente sarebbonsi condotti da ambo i lati alle spalle loro. I Romani disperando salvezza dal numero caddero per poco in ispavento, quindi tutti unanimemente messe in pezzi molte delle più grandi statue, ed alzatine con ambe le mani gli enormi sassi precipitavanli su le nemiche teste. Rinculavano gli altri offesi da questa nuova arma, ed al lento indietreggiar loro gli assediati ormai superiori nel conflitto principiarono, ricuperato il perduto coraggio, e con grida ognora più forti e cogli archi e col gittare delle pietre a rispignere vie più gli assalitori. Posta mano da ultimo eziandio alle macchine incussero in quegli animi grave terrore, costringendoli ben presto a terminare il combattimento. In questa era di ritorno Constantino glorioso di avere sbigottito e messo di leggieri in fuga quanti eransi accinti a valicare il fiume nella speranza, al tutto vana, di rinvenire il muro ad esso vicino spoglio di truppa; tanto e non più ebbe a soffrire dai Gotti la porta Aurelia.
Note
- ↑ Adriano ad imitazione di Augusto, il quale eresse per sè e pe’ suoi un mausoleo veramente stupendo sulla riva sinistra del Tevere, altro ne costruì per uso proprio, sulla destra dello stesso fiume, nei giardini di Domizia. Questo componevasi d’una base quadrata avente dugento cinquantatrè piedi per lato, e d’una ritonda mole nel suo mezzo di amplissima circonferenza, essendone il diametro anche presentemente di cento ottantotto piedi, avvegnachè minore assai di quello datole all’epoca della prima sua costruzione. Nel basamento ornato di festoni leggevansi i nomi degli imperatori ivi sepolti. La sua porta posta nel lato rimpetto al ponte (ora di nuovo aperta) metteva ad una via a spira conducente alle camere sepolcrali, ed anche alla sommità dell’edifizio. Sui quattro angoli del basamento poi eranvi gruppi di statue virili co’ loro cavalli dappresso; altre statue decoravanne similmente il cornicione, e a giudicare del merito di esse basta rammentarsi che il regno di Adriano segnò un’epoca distintissima per la romana scultura, e che il celebre Fauno dei Barberini, ora in Baviera, trovato sotto il pontefice Urbano VIII, è uno di que’ capolavori scagliati dai Romani contro de’ Gotti. Questo mausoleo rimase intatto sino all’epoca d’Onorio, o in quel torno; quindi senza danno delle sue decorazioni cominciò a servire di difesa alla città, e solo nel decimo secolo da Crescenzio nobile romano fu convertito compiutamente in fortezza, donde ebbe il nome di Castrum Crescentii.