Istoria della città di Benevento dalla sua origine fino al 1894/Parte II/Capitolo IV
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CAPITOLO IV.
Romoaldo, dopo la morte del suo illustre genitore, si mantenne del tutto indipendente dal re longobardo, e solo, a render durevole il buono accordo con esso, gli mandò liberi la moglie Rodalinda e il figlio, e dopo non molto tempo diede in moglie al suo primonato la figlia di Bertarido, Vigilanda. Romoaldo regnò ancora sedici anni (671-687) e diede prova di essere dotato della stessa energia di carattere che rese grande il suo padre Grimoaldo. Egli trasse profitto dalle sventure che travagliavano l’impero greco sotto Costantino per la irruzione degli Arabi, che tennero stretta di assedio la stessa Costantinopoli per il corso di sette anni; e, a rivalersi delle perdite subite nella gloriosa campagna contro l’imperadore Costante, invase l’un dopo l’altro tutti i possedimenti greci dell’Italia meridionale, e gli venne dato di conquistarne la massima parte. Laonde Taranto, Brindisi, e quasi tutte le città dell’antica Calabria, non mai soggiogate dai longobardi, furono aggiunte al ducato precisamente nel tempo (677) in cui l’imperadore conchiuse quella stabile pace che, a detta degli stessi scrittori greci, addusse la quiete anche nelle parti occidentali dell’Impero. Ma il governo di questo duca più che per le gesta militari è celebrato per la restaurazione della religione cattolica, e por avere ricostituito il vescovado di Benevento, al quale non erasi provveduto da che la città era stata conquistata.
Benché i longobardi di Benevento avessero da tempo abbracciata la religione cattolica, pur tuttavia molti di essi professavano ancora l’idolatria. Nella contrada del territorio beneventano, che si dice Piana della Cappella, sorgeva un albero che dai longobardi era reputato sacro, da cui pendeva un cuoio di animale. E il suolo su cui stendeva i rami un tal albero, che la massima parte degli scrittori ritengono essere stato un gran noce, fu da essi denominato luogo del voto, perchè ivi aveano costarne i longobardi di sciogliere i lor voti. Essi traevano colà montati su agili corridori, e con la lancia ne toglievano un pezzetto, che trangugiavano avidamente. Ma Barbato vescovo di Benevento, nativo di un villaggio del comune di Cerreto, che distava forse quindici miglia da Benevento, (Ovidio de Luciis, Ciarlante, de Meo) traendo profitto dell’assenza del duca Romoaldo, andò a svellere quell’albero sin dalle radici, da non lasciarvi alcuna traccia, e così mise fine ai riti gentileschi dei longobardi di Benevento. E, a memoria forse di un tal fatto, nel luogo ove, secondo la tradizione, sorgeva il famoso noce, fu eretta col volgere del tempo una cappella dal titolo di S. Maria del Voto, di cui additaci tuttora le vestigia allo studioso delle patrie tradizioni.
S. Barbato resse la chiesa di Benevento anni 18 e mesi 11, e passò di vita di anni 80 nel 19 febbraio del 664, e in tale giorno, come rilevasi dal martirologio, se ne celebra la festa, ed è anche mentovato nel martirologio Cassinese, e nei calendarii Capuani. Egli fece i suoi studii e si ordinò prete in Benevento, ove, giovane ancora, venne in molta fama come sacro oratore, e convertì molti idolatri al cristianesimo. Poscia nominato curato della Chiesa di S. Basilio della terra di Morcone, tolse con molto zelo a riprendere quella popolazione dei suoi vizii, per cui, acquistatosi l’odio di molti, fu segno a grave calunnia e richiamato in Benevento; ove, venuta in chiaro la sua innocenza, seppe in poco giro di tempo tirare a sè l’animo di tutti: e di ciò si valse accortamente per comporre in pace le civili dissezioni, e stornare i cittadini da qualsiasi pratica superstiziosa.
Però ad onta che fosse scomparso l’albero sacro, che forniva materia all’idolatria dei longobardi, pur tuttavia molti distinti cittadini, non osando in pubblico professarsi idolatri, custodivano celatamente nelle loro case una vipera d’oro, oggetto del loro culto, e lo stesso duca Romoaldo, in una delle più recondite sale del suo palagio, adorava un drago d’oro, alato, con due teste, e con ai lati due sfingi di diaspro e taluni simulacri di basalto, cavati dal tempio d’Iside in Benevento. E innanzi a un tal nume, collocato su un rialto addobbato a foggia di altare, Romoaldo, seguito dai suoi gasindi, solea intonare preghiere bizzarre che arieggiavano l’adorazione degli egizii non solo di tutti gli oggetti materiali che in qualunque modo si rendano utili al mondo, ma benanche dei mostri più perniciosi, i quali, convertiti in simboli mitici del bene e del male, ricordavano altresì la poetica inclinazione dei greci a divinizzare, abbellite da vaghe raffigurazioni, le umane passioni, e con esse il misticismo più oscuro, congiunto alle aberrazioni di nuove dottrine. (Balbiani, La Vergine longobarda).
S. Barbato, come seppe di tali profanazioni, ne provò gran dolore, specialmente per la dissimulazione del duca, e quindi facendo suo pro della lontananza di lui, e favorito ne’ suoi disegni dalla duchessa Teodorata, sua discepola e cattolica ferventissima, penetrò nelle remote stanze ov’era l’altare del mostro alato, e, dato di piglio ad una scure, che era ivi, vibrò con essa più colpi sull’idolo precipitandolo dal suo piedistallo, e quindi ne convertì il prezioso metallo in un calice e in una patena, destinati al sacrificio della messa. E non si rimase a questo, ma, dopo alcuni giorni, fattosi innanzi al giovine Romoaldo, reduce da una sua spedizione, con guardo corrucciato e voce tuonante è fama che lo riprendesse de’ suoi errori, ammonendolo che, perseverando in essi, potea attirarsi sul capo la maledizione di Dio, e si ritiene che quegli, compreso da misterioso timore, gli promettesse che in cose di religione non si sarebbe nell’avvenire mai più dilungato dai suoi consigli. E infatti non trascorse molto tempo che fu eliminato in tutti gli ordini della cittadinanza il culto degli idoli, e si additava con raccapriccio il luogo ove sorgea l’annoso noce al quale i cittadini aveano apposto il nome di albero sacro.
Ma intanto da un tal fatto prese origine l’antichissima leggenda che, fino quasi ai nostri giorni, diede campo a molti bizzarri ingegni di propagare dovunque, massime nel popolino, la falsa credenza che sotto il famoso noce di Benevento convenivano da diverse contrade la notte di ogni sabato le streghe ai loro misteriosi convegni.
Ed è naturale che essendosi divulgata nel secolo XVI e nel seguente la credenza che un uomo potesse far patto con gli spiriti dell’inferno ed acquistare in tal modo una facoltà soprannaturale (Cantù), si fosse favoleggiato che nel luogo ove la tradizione pose l’antichissimo noce, estirpato dal santo vescovo Barbato, tenessero gli spiriti infernali i loro principali convegni. Ma i due scrittori patrii che, attingendo dalla bocca del popolino le svariatissime leggende in voga a quei tempi, descrissero al vivo quanto credettero che fosse accaduto sotto una caverna in prossimità del celebre noce, o, dirò meglio, ripetettero tutto quello che le più strane fantasie sognarono intorno a quei favolosi convegni, furono Martino del Rio nelle sue disquisizioni magiche, e Pietro Piperno nel suo trattato che s’intitola de effectibus magicis et de Nuce maga beneventana, dato in luce nel 1647.
Essi assunsero a dimostrare che i convegni delle streghe soleano aver luogo lungo l’ampia contrada che, a cominciare dalla chiesa di S. Colomba, di cui avanza or solo il nome, e ove un tempo vedeasi il celebrato noce, si estendeva sino alla ripa delle Ianare — così i paesani chiamavano una ripa del fiume Sabato — e, secondo gli indicati scrittori, si procedeva ai riti di queste tenebrose congreghe nel modo seguente.
A qualunque donna che intendea essere istrutta nell’arte magica si dava a custodia un demonio, che si denominava Martinello o martinetto, al quale era commesso di vigilarla e di esaudirne ogni brama, e, quando riteneasi utile, si destinava un dato giorno al segreto conventicolo delle streghe. Ciascuno di essi demonii era astretto a darne avviso uno o due giorni prima alla compagna, ed esserle di scorta al congresso, tenendole vece di marito. Le streghe, prima di mettersi in via, si ungevano con un certo unguento, senza di che non avrebbero potuto sopportare il contatto del demonio, e poscia, levate in aria dai loro martinello, erano trasportate in poco d’ora ai luogo del convegno. Colà pervenute, traevano a far riverenza al demonio capo che ivi appariva assiso in forma d’un caprone o di cane su di un alto trono. E le riverenze alternavansi in assai strana foggia, perchè non consistevano nel piegare al suolo le ginocchia, o chinare il capo sul petto, ma sibbene nel volgere al diavolo le spalle, e curvare in guisa il petto da scomparire affatto il capo. Se poi capitavano ivi streghe novelle, erano costrette a giurare perpetua obbedienza al re dei demonii, il quale in ricambio imprometteva loro giocondezza di vita e prosperità senza limiti, le quali promesse non dava mai il caso che si fossero avverate per essere il demonio padre solo di menzogne.
A tali atti di adorazione seguivano i balli negli aperti campi, e massime sotto l’arbore della noce, e ai balli lautissime cene, nelle quali oltre la copia dei cibi abbondavano squisitissimi vini, e a quelle vivande d’ordinario non facea difetto altro condimento che il sale, a significare quanto fossero stolidi coloro che faceano a fidanza coll’avversario d’ogni bene. E in ultimo, spenti i lumi, e rientrati i folletti e le streghe nella caverna, si mescolavano tra loro in nefandi amplessi.
Ma poichè non riusciva ai curiosi di scoprire nè la favolosa caverna, nè il leggendario noce così prevalse l’opinione che, salvo il moto del viaggio, ogni altra cosa era figmento del demonio, e illusione dei sensi, cioè il ballo, la caverna, il noce e gli osceni tripudii.
Tutto ciò si legge nei mentovati autori, ma tuttavia, ad onor del vero, e per il decoro del mio nativo paese, non debbo tacere che dei migliori storici locali, i quali fiorirono in quei tempi, non vi fu quasi alcuno che aggiustasse fede a cotali nefandezze, e anzi non mancò chi le definisse
«Torbidi sogni d’agitata mente».
Molti fatti assai singolari di quelle streghe ripeteansi di bocca in bocca, i quali erano efficacissimi a confermare il popolino nelle sue credenze, ed io, a darne un’idea ai lettori, nè narrerò due soli che si veggono riportati da quasi tutti i patrii scrittori che trattarono siffatto argomento.
Un tale della diocesi Sabinense nutriva sospetto che la sua moglie fosse una strega, e per uscire dai dubbio che lo travagliava, una notte simulò un sonno profondo, durante 11 quale si avvide che la moglie, dopo di essersi tutta denudata, si unse il corpo con un certo unguento misterioso da lei gelosamente custodito. E, ciò eseguito, le sparì dinanzi in meno che si forma un detto. Egli nel dì seguente la picchiò ben bene, per guisa che la strega, a rimuovere l’impedimento del marito, s’indusse a metterlo a parte dei suoi segreti, promettendogli tra pochi giorni di recarlo seco ad una di quelle adunanze, ed ebbe per questo il consenso del suo martinetto. Nel giorno prefisso eglino eran parati ed attendeano il segnale. A mezzanotte difatti odono picchiare ai vetri della finestra. La strega l’apre, e si mostra un grosso caprone che volava per l’aria, ed ella salitogli in groppa, seguita dal suo marito, è in meno di un’ora menata al consueto luogo del convegno. Quivi è imbandita una tavola sontuosa, e tutti siedono a mensa. Il servizio è ricchissimo, le vivande svariate, ma il nuovo venuto, appena le ebbe assaporate, le trovò insipide, e perciò si fece ripetutamente a chiedere del sale, che fu presentato assai tardi. Il mal capitato allora, vedendo dopo tante istanze apparire il sale, proruppe in queste parole: Sia benedetto Iddio che alla fine pur venne il sale. Ma appena furono esse proferite, disparve magicamente il convito e ogni altra cosa, e il pover uomo si trovò solo in aperta campagna, nudo affatto, in una fredda notte invernale. Egli, appena spuntò l’alba, chiese ad un guardiano di armenti il nome del paese, e gli fu detto di trovarsi nel territorio di Benevento, lontano ben cento miglia dal suo paese nativo. Lo sventurato si vide astretto a farvi ritorno con indicibili disagi, ove giunto trasse diviato dal giudice, che teneva giustizia in quel comune, ad accusare la moglie che, stretta dall’interrogatorio, non seppe mettersi al niego sull’accaduto. (Pietro Grilland).
Nè meno singolare è il racconto di un gobbo denominato Lamberto, addetto ai mestiere di cuoiaio, e nativo del comune di Altavilla in provincia di Avellino, che riporterò, avvalendomi sotto sopra delle stesse parole di uno scrittore quasi mio contemporaneo. Erasi costui, perchè povero nella sua patria, trasferito a Benevento, dove in qualità di affidato fruiva dei dritti statutarii. Ma amor di patria lo spinse nel tramonto di un giorno di festa a tornarsene nel suo nativo paese. Giunto a due miglia da Benevento, nelle adiacenze del fiume Sabato, intese un gran festivo strepito di uomini e donne da lui creduti mietitori di grano e raccoglitori di spiche che altamente gridavano: Ben venga il giovedì ed il venerdì, a cui per ischerzo il Lamberto, anch’esso gridando, soggiunse: e il sabato e la domenica ancora. Gli fece plauso allora quella turba; ed una di quelle donne, appressatosi a lui, prese a toccargli la persona, ed a staccargli la gobba: indi tra gli scherzi e l’allegria della baccante moltitudine, lo menò sotto un prossimo gran noce, intorno al quale egli vide imbandite mense appetitose. Il gobbo allora non fu tardo a sospettare che tutt’altra fosse quella gente di ciò che appariva; onde incominciò a gridare: — Viva Gesù, viva Maria — Subito a tali voci, come pula al vento, scomparvero mense, uomini e donne, e lo sciagurato si convinse che era stato quello un convegno di streghe. E, proseguendo poscia il suo cammino nelle fresche ore mattutine, giunse avanti la porta della casa da lui abitata, ove bussò più volte invano. Infine la cauta moglie di lui, chiamatolo a nome, non volle fidarsi alla voce; ma si fece alla vicina finestra, e vedendolo senza gobba dubitò con ragione di qualche inganno; per lo che prese ad esclamar forte e ad empier l’aria di grida, per modo che indusse il marito a farsi ravvisare dai vicini, narrando a tutti l’incoltagli avventura (Alvano).
Però non si può sconvenire che queste opinioni sarebbero state in breve tempo derise, se arguti scrittori di altre parti d’Italia non si fossero sbizzarriti a ridire per celia siffatte stranezze, ribadendo in tal guisa coi loro scritti i sogni superstiziosi del popolino.
E a chi non è nota la graziosa lettera del Redi, cotanto letta e gradita ad ogni maniera di lettori, in cui l'illustre autore narra la leggenda del gobbo di Peretola? «Il quale avendo veduto che un altro gobbo suo vicino dopo un certo viaggio era tornato al suo paese bello e diritto, essendogli gentilmente stata segata la gobba; lo interrogò chi fosse stato il medico, ed in qual paese fosse stato aperto lo spedale dove si faceano così belle cure. Il buon gobbo che non era più gobbo, glielo confessò giusto giusto, e gli disse che essendo in viaggio, smarrì una notte la strada, e dopo lunghi aggiramenti si trovò per fortuna alla noce di Benevento, intorno alla quale stavano allegramente ballonzolando moltissime streghe con una infinità di stregoni e di diavoli; e che fermatosi di soppiatto a mirare il tafferuglio di quella tresca, fu scoperto, non si sa come, da una strega, la quale lo invitò al ballo, in cui egli si portò con tanta grazia e maestria, che tutti quanti se ne maravigliarono, e gli posero perciò così grande amore che, messolo baldanzosamente in mezzo, e fatta portare una sega di butirro, gli segaron con essa senza verun suo dolore la gobba, e con un certo impiastro di marzapane gli sanarono subito subito la cicatrice, e lo rimandarono a casa bello e guarito. Il buon gobbo di Peretola, inteso questo, e facendo lo gnorri, se ne stette zitto zitto; ma il giorno seguente si mise in viaggio, e tanto ricercò che potette capitare una notte al luogo della desiderata noce, dove con diversità di pazzi stromenti quella ribaldaglia delle streghe e degli stregoni trescava al solito in compagnia dei diavoli, delle diavolesse e delle versiere. Una versiera o diavolessa che si fosse, facendogli un grazioso inchino lo invitò alla danza, ma egli vi si portò con tanto mal garbo e con tanta svenevolezza, che stomacò tutto quanto quel notturno conciliabolo, il quale poi mettendosegli attorno, e facendo venire in un bacile quella gobba segata al primiero gobbo, con certa tenacissima pegola d’inferno l’appiccicò nel petto del secondo gobbo; e così questo che era venuto qui per guarire della gobba di dietro, se ne tornò vergognosamente al suo paese gobbo di dietro e dinanzi.» (Redi)
E non pure i prosatori, ma anche i poeti contribuirono non poco a propagare dovunque tali favole, e valga per molti esempi il Lippi che nel terzo canto del Malmantile scriveva:
«Costei è quella strega maliarda,
«Che manda i cavallucci a Tentennino,
«Ed egli un punto a comparir non tarda,
«Quand’ella fa lo staccio o il pentolino:
«Come quand’ella s unge e s’insavarda
«Tutta ignuda nel canto del cammino,
«Per andar sul barbuto sotto il mento
«Colla granata accesa a Benevento.
«Ove la notte al Noce eran concorse
«Tutte le streghe anch’esse sul caprone,
«I diavoli e col Bue le biliorse,
«A ballare e cantare e far tempone;
«Ma quando presso al di l’ora trascorse,
«Fu di mestieri battere il taccone;
«Come a costei, che or viensene di punta,
«E in su quel carro nel castello è giunta.
Queste ed altrettali bizzarrie, scritte per burla da lepidi scrittori sulle strege di Benevento, valsero senza dubbio a sempre più diffonderne la credenza nella plebe, donde prese origine il detto popolare ancor vivo nel nostro dialetto:
«Sott’acqua, e sotto viento,»
«E sotto a noce de Beneviento».
Ma ora la nostra plebe, che può dirsi in certo modo rinsavita di molti errori che ingombrarono le menti dei nostri padri, non dà più fede alla sfatata leggenda delle streghe. Ed è anzi notevole che mentre in tutti i paesi circostanti si crede da molti se non alle streghe, almeno alle malie e alle fatture, il nostro popolino per lo contrario se ne fa beffe, e ha in conto di ladre e di ciarlatane le supposte maliarde.
E qui, dando fine a questa lunga digressione intorno a un argomento che attira tuttora la curiosità di tanti italiani e stranieri, prenderò brevemente a narrare gli ultimi fatti di Romoaldo e del vescovo S. Barbato, di cui fanno menzione tutti gli storici locali.
S. Barbato erasi acquistata la fiducia dei cittadini sì fattamente che niuno osava contrariare i suoi disegni, e in ispecial guisa negli ultimi anni del governo di Romoaldo egli potea ritenersi come l’arbitro d’ogni cosa, tanto potere esercitava nell’animo del duca e dei cittadini. Ed avendogli Romoaldo promesso un giorno di concedergli tutto ciò che avrebbe chiesto in terre e possessioni, si crede che il vescovo gli avesse risposto. «Se intendi di offerire un dono per la tua salute, risolviti a sottoporre del tutto alla sede di S. Maria di Benevento, di cui sono vescovo, la casa di S. Michele, ch’è nel Gargano, e quanto è nella giurisdizione del vescovado di Siponto. E avendo il duca assentito alla sua domanda, fu aggiunta alla detta sede sia la casa di S. Michele che la chiesa di Siponto con tutta la diocesi.
E alla diocesi di Benevento furono in seguito aggregate anche le chiese di Bovino, Larino ed Ascoli, le quali erano cadute in rovina dopo la conquista dei longobardi, e rimaste perciò prive di vescovo. Ma non è però a tacere che il Pellegrino, il Giannone, il Sarnelli, l’Ughelli ed altri dopo Mario della Vipera affermarono che l’unione delle anzidette chiese fu conceduta dal papa Vitaliano, e ne adducono in prova la bolla, la quale fu supposta posteriore all’anno 839. Infatti in questo anno Orso vescovo di Benevento, contendendo ai Benedettini la giurisdizione della chiesa di S. Felice — poichè, per esservi il fonte Battesimale, le donazioni ad essi fatte ostavano ai canoni — gli fu argutamente risposto che, se intendea limitarsi a quanto era prescritto dai canoni, gli era d’uopo in primo luogo rinunziare alla chiesa di Siponto che, in contraddizione dei canoni, da lui si tenea. E da ciò si deduce che quella concessione non fu che soltanto ratificata dal papa dopo un certo volgere di tempo.
S. Barbato resse santamente per il restante della sua mortale carriera la chiesa di Benevento. E sebbene questa non fosse stata ancora elevata alla dignità di Arcivescovado, non ostante, scrive il Vipera, se non fregiavasi allora la chiesa di Benevento del nome e del titolo di Arcivescovado, poteva considerarsi tale in quanto agli effetti e alla giurisdizione.
Ed altri scrittori aggiungono che il papa Vitaliano, a significare in quale concetto si avesse il vescovo S. Barbato, concedette tanto a lui che a’ suoi successori l’autorità e la giurisdizione di metropolitano, senza però conferirgli il titolo di arcivescovo; e infatti i vescovi di Benevento dall’anno 668 in poi presero ad esercitare la potestà di metropolitani su tutte le chiese dipendenti dalla loro giurisdizione.
E appunto nel tempo che in virtù di tale concessione la chiesa di S. Michele Arcangelo sul monte Gargano, insieme ad altre, fu aggregata alla chiesa beneventana retta da S. Barbato, i beneventani elessero a loro patrono l’Arcangelo S. Michele, e i principi longobardi nei maggiori pericoli fidarono sempre nel suo ausilio, e lo tennero come il più saldo sostegno dello Stato. Ed è per questo che nelle monete di quei principi si vede da una parte scolpita l’effigie di S. Michele, e dall’altra quella del principe.
In quel tempo Teodorada, moglie del duca, donna piissima, sondò a piè del monte S. Felice presso il fiume Sabato un monastero di monache, che intitolò al principe degli Apostoli, del quale veggonsi tuttora alcune vestigie, e fu questa la prima fondazione ecclesiastica di cui si ha contezza dopo la istituzione del ducato di Benevento. (Feuli, Delle chiese di S. Pietro in Benevento).
In quel monastero Nicolò II papa celebrò un concilio nei primi giorni di agosto dell’anno 1059, al quale intervenne Landolfo VI principe di Benevento. Ma il papa Celestino nell’anno 1294 lo soppresse, e ingiunse che le monache fossero state trasferite nel monastero omonimo edificato dentro la città. E ora non avanzano di quella chiesa che pochi frantumi, atti appena a fornire una qualche idea all’erudito dell’ampiezza e magnificenza dell’antico edificio.
Una parte degli avanzi mortali di S. Barbato conservasi tuttora sotto l’altare maggiore della metropolitana, e gli altri furono trasferiti, in occasione di una guerra, nel celebre santuario di Monte Vergine, insieme ad altre reliquie. E i beneventani additavano ai forestieri, sino allo scorcio del passato secolo, un calice, che si credette esser quello formato da S. Barbato col prezioso metallo della Vipera adorata da Romoaldo, e dicesi che quel calice fosse stato involato dai repubblicani francesi insieme ad altri oggetti preziosi nel 19 giugno 1879. E anche ora i nostri preti mostrano ai forestieri, che traggono a visitare gli avanzi del tesoro della metropolitana, una sedia di ferro che si conserva nel nostro palagio arcivescovile, e che per antichissima tradizione si stima essere appartenuta al celebre S. Barbato1.
Note
- ↑ Il chiarissimo prelato francese mons. Barbier de Montault, dottissimo in sacra archeologia, visitò Benevento nel 1875, e fui presente allorché, osservata accuratamente l’accennata sedia di ferro, ne volle trarre dei calchi che portò seco in Francia. E alcuni mesi dopo scriveva al mio cognato, arcivescovo Feuli: «Come vi dicevo a Benevento, ho rimesso per un esame serio alla Societè française d’archeologie il disegno e le stampe della sedia di ferro. Ieri mi ha risposto il Direttore: «Credo riconoscere l’influenza araba nella sedia di Benevento: l’attribuirei alla seconda metà del secolo XI. Ho una vaga memoria di aver veduto l’originale, ma da molto tempo». Dunque la cosa è giudicata. Siamo d’accordo sullo stile arabo: fra noi vi è solamente la differenza dell’epoca,