Interviste dal libro "TUTUCH (Uccello tuono)"/Intervista a Corinne Jètte
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Mi chiamo Corinne Jétte e sono della Nazione Tuscarora, che è una delle sei Nazioni degli Indiani. Sono professore presso l’Università Concordia di Montréal, alla facoltà di ingegneria e informatica: la mia specializzazione è nella comunicazione. Al di fuori dell’università - ho dedicato più di vent’anni alle Comunità Aborigene - ho lavorato sempre nello sviluppo delle risorse umane: nell’addestramento, e di sicuro, nell’educazione. Sono un’insegnante e un’aborigena, ed è in tale veste che risponderò alle sue domande.
1. Per la sua tradizione culturale la vita è un dono o una punizione?
Certamente è un dono! Ci hanno insegnato che abbiamo il dono della vita, sempre nel contesto del passato, del presente e del futuro. Le donne Aborigene – considero questo insegnamento fondamentale – vengono definite le custodi del circolo, perché allo stesso tempo siamo figlie, madri, e future nonne (non ho ancora nipoti per adesso!).
2. Perché siamo qui: per lottarci o per aiutarci?
Un Creatore ci ha messi qui per collaborare: abbiamo delle responsabilità nei confronti degli animali, dei fratelli uccelli e di tutte le creature.
3. Che significa per lei la parola “capo”?
“Capo” è un termine moderno preso in prestito dalla politica. Nel sentire tale parola la definirei un’imposizione, come capo di una banda (di Indiani), una banda che poteva essere creata per legge. Se andiamo indietro nella nostra storia, il “capo” era una guida, ma nello specifico v’erano delle differenze a seconda della tradizione culturale di provenienza. Per esempio, nella Confederazione Irochese il capo veniva nominato dalle matrone del clan, e veniva scelto per abilità, per esperienza, per forza e per coraggio. Tutti questi elementi del carattere dei vari individui venivano studiati e valutati dalle donne anziane della comunità. Dunque, i capi non venivano eletti, ma è così per la tradizione Irochese, delle altre comunità non saprei. Per esempio, alcune delle popolazioni Algonchine, e Mic Mac in particolare, non sono società matrilineari, non permettono che siano le matrone a scegliere i capi e a prendere le decisioni. Qui, infatti, sono gli anziani e gli uomini più forti che scelgono i capi.
Presumibilmente, il capo è uno che ha esperienza, abilità, saggezza e capacità di guida. Ma ciò non significa che uno deve essere anziano per avere esperienza e saggezza. Un capo può anche essere una persona giovane: se conosce le risposte ai problemi della società può essere (non per età) un anziano! Credo che sia una concezione superficiale quella secondo cui bisogna essere anziani per essere saggi. Molti dei capi e dei leader della storia - alcuni dei quali sono stati condottieri di battaglie, altri responsabili della sopravvivenza delle persone – spesso possedevano la qualità della lunga esperienza, cioè la conoscenza e la saggezza, ma non per forza erano vecchi cronologicamente.
4. Quali sono le sue responsabilità?
Certamente, parliamo di persone che prendono le decisioni per consenso. Un’altra loro capacità è quella di far lavorare gli altri insieme, di ascoltare bene, di far venir fuori le opinioni da coloro che non si sono ancora espressi. Il capo deve motivarli per essere sicuro che prenderanno parte alla discussione. Credo che la prima sua responsabilità dovrebbe essere quella di sviluppare il consenso su un particolare argomento. È auspicabile che il leader non anteponga la sua opinione a quella degli altri come la migliore: il leader migliore è colui che non si pronuncia.
Assicurare la sopravvivenza del suo popolo è una grande responsabilità, da cui ne conseguono altre. Se si assicura la sopravvivenza delle persone, bisogna assicurare la cooperazione tra i giovani per esempio, insegnando loro ad aver cura di coloro che sono più deboli nella società, ad aver cura degli anziani. Credo che ciò implichi anche il tentativo di avere l’equilibrio in una comunità.
I bambini nella nostra cultura sono un dono, noi prendiamo in prestito i nostri bambini dal Creatore e abbiamo la responsabilità di guidarli, di plasmarli e di proteggerli. La maggior parte delle culture dei nativi di cui ho conoscenza, la maggior parte delle Nazioni, sente la necessità dell’equilibrio: il loro è un approccio olistico alla vita. L’equilibrio è ciò che il capo cerca, tutti lo cerchiamo, è ciò che al momento anche i nostri bambini stanno cercando. Non sono sicura che lo perseguiremo, ma questa è una mia sensazione.
5. Che tipo di organizzazione sociale avete?
Se lei vede un bambino indigeno che corre di qua e di là (non va a letto presto, forse è alquanto indisciplinato e corre da una parte all’altra della stanza) mentre noi conversiamo qui, per la sua cultura e per quella dominante è un bambino maleducato, un bambino cattivo e cattivi sono i genitori. La cultura dominante tende a opprimere i bambini. La cultura dei nativi non vuole opprimerli: i bambini per noi sono davvero speciali ed importanti. Noi consideriamo i nostri figli tanto che non li vogliamo opprimere affatto.
La volontà della maggioranza dovrebbe essere il metodo di operare, e la maggioranza per noi significa tutti, perché non si avanza se non si ottiene il consenso. Occorreranno giorni, e giorni, e giorni per ottenere il consenso, o almeno che nessuno faccia delle obiezioni. Ma bisogna aspettare e quando si avrà il consenso si procederà. Si tratta di una tradizione culturale completamente diversa: in una Nazione indiana noi andremo avanti solo quando la matrona del nostro clan dirà di procedere, e così per qualsiasi decisione importante. La tradizione ci ha insegnato che i capi sono individui dalle doti particolari, che vanno rispettati, e che i loro desideri e la loro conoscenza dovrebbero essere accettati da tutto il gruppo tanto sono forti. Tuttavia, le matrone decidono, e se dicono che è tempo di andare, allora andiamo.
Come sceglievano i loro leader? Un metodo del tutto diverso sarebbe usato da un’altra Nazione. Dobbiamo tener presente la condizione del loro territorio: se erano popoli agricoli vivevano in un certo modo, se vivevano vicino al mare, o all’acqua vivevano in un altro modo.
La famiglia estesa si prendeva cura dei bambini, la famiglia aveva una responsabilità, e la comunità un’altra. Ancora oggi abbiamo un modello molto chiaro delle responsabilità comuni per allevare i nostri figli. L’esempio del bambino che corre dentro e fuori, e che chiude la porta, e che rimane sveglio fino a tarda notte, quel bambino è protetto. Perciò, è un evento straordinario quando un bambino viene smarrito, è sempre tragico, in ogni luogo e in ogni famiglia, ma diventa un evento enorme per la comunità, perché non è solo il bambino dei suoi genitori, è il bambino di tutta la famiglia.
6. Qual è il ruolo della donna nella vita del gruppo? Chi si occupa dell’educazione dei figli?
Ancora una volta devo dire che non si possono fare delle generalizzazioni. La struttura sociale di una comunità agricola, com’è la mia, non si può applicare nel lontano nord.
Nella mia tradizione siamo matrilineari, abbiamo le matrone dei clan, viviamo secondo la struttura dei clan: in gran parte le donne della nostra tradizione provvedono a fornire il cibo e la protezione ai bambini. Certo abbiamo la grande responsabilità di tramandare le storie, le leggende e di insegnare una tradizione orale alle nostre giovani generazioni. L’imposizione del mondo occidentale europeo ha distorto il nostro senso di organizzazione sociale: c’è una forte imposizione dei valori portati dalla chiesa cattolica e questa imposizione – secondo me – è in parte responsabile della distorsione che ha agito in modo negativo sull’organizzazione dei nativi. Da dove deriva tutto ciò? C’era un chiaro sistema di responsabilità: esse erano divise secondo i sessi, ma erano egualmente valutabili. Quando i missionari e i vari gruppi di religiosi arrivarono qui vi fu una super imposizione dei valori associati con la Cristianità e il modo di vivere cristiano. La conseguenza della differenziazione dei sessi fu che le donne furono sottovalutate, avevano un ruolo particolare, mentre gli uomini furono sopravvalutati nel loro ruolo. Veda, ho condotto a termine vari lavori sui simboli, che nel tempo hanno segnato l’imposizione di un altro ordine di valori. E in tale processo noi notiamo la distruzione causata dall’oppressione.
Ora non dobbiamo più – dobbiamo andare a due generazioni passate, quindi alla generazione dei miei nonni – lottare per mantenere la cultura dei nativi, per mantenere le tradizioni, per fare le cose che tutti pensano noi facciamo. Nello stesso tempo ci insegnavano che la cultura indiana era sbagliata, eravamo forzati ad adottare i valori non nativi. Poi andiamo alla generazione successiva, che è la generazione dei miei genitori per vedere che erano coinvolti nel sistema delle scuole residenziali, per cui la famiglia di mio padre e le persone di quel tempo erano allevate nel contesto del dominio religioso delle chiese cristiane. Di conseguenza, non potevano parlare la loro lingua, non era permesso di essere chiamati con i loro nomi, dovettero cambiare identità: dovevano vestire da marinai e tagliare i capelli. Conservo ancora il vestito di mio padre quando era piccolo, aveva i calzoni corti. Tutti i bambini dovevano vestire questi abiti, e abbiamo le loro fotografie. Così quando ritornavano a casa, vivevano in un certo modo, erano bambini indiani, molto liberi. Quando si vede una loro foto di quando erano in seconda o terza elementare, e si vedono tre o quattrocento bambini tutti vestiti da marinaio, si vede un esempio concreto di imposizione. Si arriva poi alla mia generazione ed io non sono capace di parlare la mia lingua, ho appreso la tradizione solo perché la mia famiglia la seguiva: non potevo imparare la storia del mio popolo a scuola, non potevo leggerla nei libri di testo. Gli anziani mi hanno trasmesso molto dei loro valori che ho. Ho vissuto in una riserva fino a nove anni.
Faccio parte di un ampio movimento nazionale di persone mie coetanee. Non ho frequentato le scuole residenziali, ma molti di loro lo hanno fatto. È un movimento che ci porta indietro alla riscoperta dei nostri valori e della nostra tradizione. È un peccato che la lingua tuscarora non venga più parlata, è praticamente morta nel 1995, quando mia nonna morì, ed era l’unica persona capace di parlare tuscarora in tutto il Canada. Ci sono alcune famiglie Tuscarora negli Stati Uniti vicino a NewYork ed alcuni degli anziani parlano la lingua, ma è una delle lingue scomparse. Abbiamo poche parole, abbiamo una bibbia tradotta in Tuscarora, e questo è tutto. Non c’è una persona vivente che la parli correttamente. Sono certa che gli studiosi faranno un lavoro migliore del mio per capire le lingue passate. Abitualmente adoperiamo il termine “tradizione orale”, ma vi sono articoli e affermazioni che sostengono che vi erano forme scritte, vi erano geroglifici. Se si guarda al sillabario dei Cree, per esempio, si possono vedere immagini e forme che sono egizie. Quindi si sono evolute come lettura di un linguaggio scritto.
7. Cosa può dirmi circa la proprietà? Mi spiego: come venivano distribuiti i beni tra i membri del gruppo?
Se vuole una risposta stereotipata, dirò che le persone con una forte tradizione e forti valori spirituali non sono materialisti. La proprietà era distribuita secondo il bisogno, vi era la condivisione. C’è una storia testimoniata da una gran messe di documenti, che dimostra che quando si uccideva un animale veniva diviso nel gruppo, e la tradizione continua ancora oggi. È meno evidente nelle aree molto organizzate, ma nelle comunità isolate si condivide ancora: se c’è un membro della comunità al freddo lo portano nelle loro case: non voglio essere idealista, non accade ovunque, ma questo sarebbe un valore ampiamente condiviso, e lo vediamo dove c’è un disastro, un incendio. So che c’è un incendio nella mia città ed una casa viene distrutta? In genere succede che la chiesa più vicina diviene il centro di raccolta dove ognuno porta ogni cosa, ed in molte situazioni ho constatato che una settimana dopo per quella famiglia vi sono molte più cose di quanto ne avesse prima che la casa andasse in fumo. Questo comportamento va dall’antica pratica di condividere il pasto alla pratica moderna di non aver troppo quando gli altri non hanno niente.
Mi domanda ora della terra, e ciò solleva una questione tutta politica. La tradizione che viviamo al presente non è la tradizione dei nativi: ora c’è la lottizzazione di piccoli pezzi di terra su cui vivere, che non potremo possedere. Sono sicura che lei sa che in Canada è impossibile per un nativo di possedere realmente la terra. Nella nostra tradizione, che è definita dal governo con l’Atto Indiano, la distribuzione della terra è una terribile risorsa di guai per la nostra comunità proprio ora, perché tutti cercheranno di avere più terra per costruire un’altra casa sul quel pezzetto di terra, e le famiglie si lotteranno. Questa non era la nostra tradizione! La terra è geografia. La tradizione dei popoli determinava il loro comportamento verso la terra. Perciò, se si tratta di una società agraria dove si coltiva tabacco, si rimane in quel particolare territorio e si continua a coltivare il tabacco. La proprietà della terra non era un argomento da discutere: se si coltiva il tabacco qui un anno, e lì il prossimo anno, e in un altro posto il terzo anno non si ha bisogno di possedere la terrra. Ma ciò è valido per queste popolazioni. In un’alttra area geografica, dove la coltivazione non è possibile, la pesca è importante. Spesso la proprietà era determinata dalla tradizione, così che se il tuo popolo, i tuoi nonni, i tuoi genitori, e i tuoi antenati hanno sempre pescato il pesce in questo fiume, esso è tuo. Certo altre Nazioni, altre culture erano migranti, per cui viaggiando di qua e di là non avevano bisogno della proprietà. Il solo momento in cui la terra divenne importante fu quando il governo disse: <<Tu puoi usare questa terra che appartiene alla corona, e noi ti daremo dei soldi perché tu stia nel tuo territorio>>. Si vede come la questione della proprietà della terra sia un argomento davvero difficile, ma non era un problema per i nostri antenati. Non fu un problema fino a quando non furono imposti i valori materialistici.
8. Qual è il suo massimo dovere?
Sono portata a pensare che è una combinazione di ruoli. Come ho detto prima, io sono una figlia, ma sono anche una madre, e sono una futura nonna. Ho una responsabilità, ed il mio dovere allora dovrebbe essere di controllare che l’armonia, l’equilibrio, e la pace esistano nella mia famiglia. Il mio dovere è di assicurare ciò, di rafforzare l’armonia nella mia famiglia, per cui la mia responsabilità verso i miei genitori è di fare in modo che mio padre stia bene in salute, se non sta bene. Ma sono anche una madre, perciò ho altre responsabilità. Il mio dovere nella vita penso – come accade per molte donne dovunque – sia di trovare l’equilibrio nel mio tempo, nella mia concentrazione, per cercare di fare tutto il possibile per mantenere un perfetto equilibrio. Pertanto, è molto difficile definire il mio dovere, ma credo che sia la prima di queste cose. Ora, se me lo chiede quando cambio il mio cappello (i miei ruoli), dal momento che sono un’educatrice, devo ammettere che mio dovere è educare. Sono stata guidata verso il lavoro che svolgo: entrambe le mie nonne, che erano entrambe insegnanti, da ragazzina mi hanno incoraggiato a fare l’insegnante.
9. Come punite i colpevoli?
Capisco cosa le stanno raccontando. E sarò molto cauta a questo proposito, perché sto cominciando a mischiare la mia tradizione, il mio input culturale, con l’input educativo, che mi veniva dalla chiesa cattolica, che è l’altra tradizione su cui poggio. La vita può essere valutata in molti modi, in tale tradizione lo è secondo il metro del bene e del male: dici abbastanza preghiere, o commetti abbastanza peccati, vi sono persone buone e cattive, e così via. La tradizione cattolica è molto o bianca o nera! Noi parliamo sempre delle suore che fecero vivere noi bambini col senso di colpa: se non ti sentivi in colpa non eri un buon cattolico.
Noi abbiamo un modo molto diverso di considerare il bene ed il male. Per esempio, se c’è una creatura che è cattiva, o fa delle cose cattive, se c’è un orso che ti attacca, o un cane che ti morde, stando all’esperienza dei nostri anziani, hai fatto qualcosa per provocarlo: il cane non è cattivo; hai rotto l’equilibrio! Non so, forse hai dato un calcio al cane? Il concetto del male non è tanto o bianco o nero, come è nella tradizione cattolica. Piuttosto è una mancanza di bene: tutte le cose sono buone. Se manca un elemento, se qualcosa è andato storto il bene è diminuito ed il male è emerso. C’è una lezione che ci veniva insegnata: tutto ha radici molto concrete, ma non mangi le fragole da un certo albero, non prendi i funghi da terra per mangiarli a meno che non sai che sono buoni. Non ci avrebbero mai insegnato che quei funghi non sono buoni, o che le fragole non sono buone, o che qualcuno potrà darti il veleno. Essi esistono, e sono importanti per uno scopo particolare, non per essere mangiati da te. Perciò, spesso pensiamo che un bel fiore è un fiore velenoso. Seguendo la nostra tradizione, noi osserveremmo ciò e diremmo: non è un fiore cattivo, non c’è male in esso, è lì per uno scopo. Se tu lo mangi, allora sei tu ad essere stupido.
Se qualcuno fa qualcosa di male, cerchiamo di ristabilire l’equilibrio, cerchiamo di restaurare l’armonia. In queste piccole comunità, se qualcuno ammazza qualcun altro, v’è una pena tremenda per la famiglia delle vittime, per la famiglia estesa e per la comunità. Il fatto è che quando il crimine è avvenuto non c’era armonia dappertutto. Possiamo semplificare così! Molti anziani, e molti insegnanti ci insegnano che la cosa più importante è di restaurare l’armonia, innanzitutto nella famiglia della vittima, e non è facile. Ma c’è un modo. Se c’è stato un danno fisico o alla proprietà si deve riparare al danno. E in effetti che scopo ci prefiggiamo nel trattare con dei prigionieri? Restaurare l’armonia nella famiglia, restaurare l’armonia nel vicinato (la famiglia estesa), e poi cercare di restaurare l’armonia nella comunità. Questo è un processo molto lungo, può essere un processo anche molto complesso, molto doloroso.
Nelle regioni occidentali noi porteremmo faccia a faccia i genitori della vittima e l’assassino, essi parlerebbero del loro dolore per la perdita del figlio, e la persona che ha commesso il fatto deve sedere lì e ascoltare, e deve capire in tutti i modi possibili la loro pena e capire l’esperienza che hanno vissuto. Certo, non c’è modo di cancellare il danno, ma come assassino puoi fare moltissime cose per cercare di compensare o restaurare la sanità dei genitori: è molto difficile, ma ancora una volta devo dire che ci viene insegnato che l’armonia, il rispetto e l’equilibrio sono tutti obiettivi, goal. Per molte persone è difficile arrivare a tanto, ma è possibile. In molte comunità del passato l’esilio era praticato.
Ancora oggi non è scomparso. Infatti, qui a Montreal c’è una donna che vive sulla strada, perché circa trent’anni fa uccise il marito in una piccola comunità Inuit nel nord e fu allontanata. Perciò, la pratica c’è, ma la cosa più importante da sottolineare è che non cerchiamo di imporre un sistema artificiale in una comunità in cui non funzionerebbe. È assolutamente ridicolo il modo di funzionare del sistema di giustizia governativo, perché tu commetti un crimine oggi, ed è possibile che il giorno seguente distruggi la mia proprietà. E il giorno dopo ti posso incontrare in strada e dobbiamo vivere insieme. Sei mesi dopo verrebbe in areo nella nostra comunità il giudice, … la corte atterrerebbe qui. Ora, sono passati sei mesi da quando abbiamo avuto la nostra disputa, andiamo in corte ed il giudice dice: <<Ok tu hai commesso qualcosa di sbagliato qui e ora vai in galera nel sud>>. È ridicolo pensare che la vittima ed il colpevole vivano fianco a fianco per sei mesi senza che un’autorità legale venga a far parte del quadro. Molto probabilmente ero ubriaca e non sapevo quello che facevo. Ho distrutto la tua macchina e potrei dire: <<Scusami!>>, e tu sai che ero ubriaca, perciò può darsi che tu non sia nemmeno arrabbiato. Ti compro una macchina nuova e tutto è sistemato. Pertanto, in qualche modo stiamo cercando di tornare alla nostra tradizione culturale, che raccomanda di restaurare l’armonia e l’equilibrio, anche se è difficile farlo.
10. L’essere umano è superiore agli animali e alla natura?
No! Per certi aspetti è la natura che è superiore all’essere umano.
11. Qual è l’essenza dell’essere umano? È una creatura speciale con una missione speciale?
Nella mia cultura abbiamo sempre a che fare con delle creature, non con persone o esseri umani. Quindi, vi sono creature dell’aria, creature di acqua, e creature di terra. Le creature umane non hanno funzioni particolarmente importanti rispetto ad un pesce o a un albero. La cosa più importante di cui ho sentito parlare è che noi dobbiamo tutti poggiare sull’aiuto reciproco, per cui bisogna rispettare l’albero, l’albero rispetta l’acqua, l’acqua deve rispettare il pesce, e così via, perché c’è un equilibrio molto delicato. Tuttavia, questo rispetto è molto diverso da quello che gli ambientalisti hanno per la natura.
Sembra che tutti attribuiscano un gran valore, oggi, all’ambiente, più di vent’anni fa. Se sono genuinamente interessati a salvare il pianeta, non lo so, ma fondamentalmente credo sia un movimento politico e cercano di appropriarsi di qualche dimensione della cultura delle popolazioni indigene. Il popolo delle Prime Nazioni nel nord America, o del sud America, o del Giappone, tutti abbiamo uno stretto legame con la terra. Ora è quasi del tutto romanzato dal movimento di coloro che hanno simpatia politica per l’ambiente: per far muovere il proprio carro può essere utile aggiungere qualche apprezzamento per le culture indigene.