Inni di Callimaco (1827)/Apollo
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APOLLO
Οh! quanto il lauro e il penetral si scote!
Via di qua, via di qua ciascun maligno,
Febo la porta col bel piè percote.
Già la palma Deliaca benigno1
Significò subitamente indizio,
E dolce risentir fa l’aria il cigno.
Apriti, soglia del beato ospizio,
Le vestigia del Dio propinque sono,
Voi date al canto, o giovinetti, inizio.
Non fa d’ogni mortale agli occhi dono
Apollo di svelar sua propria faccia,
Vederlo invan desia che non è buono.
Di chiara stampa segnerà sua traccia
In fama salirà chi Febo mira,
Chi non lo mira converrà che giaccia.
Veder si lassi il Dio che l’arco tira,
Nè sarò vile; all’appressar del Nume
Mova la gioventude e piedi e lira,
Se il tetto antico sul paterno fiume
Affidar vole e ai maritali nodi
Venire e ai dì delle canute piume.
Splenda famoso per canori modi
Chi la tenera man pone alla cetra,
Taccia chi ascolta le Apollinee lodi.
Dal mar pur esso ogni fragor si arretra
Mentre che sono in celebrar poeti
Di Febo Licoreo lira e faretra.
Lascia di lagrimar sua prole Teti2
Se Peana Peana intorno suona,
Ed interrompe i suoi antichi fleti
Colei, che in Frigia trasmutò persona,
E dagli aperti labbri umido scoglio
Dolenti non so quai note ragiona.
Osa invan contro il cielo umano orgoglio;
Spiaccia al mio re chi al ciel contrasto move:
Spiaccia a Febo chi spiace a questo soglio.
Se a grato piglia le canore prove
Febo meriterà vostre parole,
E il può chi siede a man destra di Giove.
Verrà più volte in oriente il Sole
Anzi che fine al canto imponga il coro,
Larga materia e piana a chi dir vuole.
Oro la veste, la faretra è oro,
Oro i coturni, e di quant’oro è pieno
Dimandatene il Delfico tesoro.
Lui nè beltà, nè gioventù vien meno,
Nè velo di calugine gli asconde
Delle tenere gote il bel sereno.
Balsami piove dalle trecce bionde,
Nè di balsami pur schietta rugiada,
Ma veramente panacea diffonde.
Ove a cittadi alcuna stilla accada
Dell’odorato umor, tutte ha virtude
Le cose rintegrar della contrada.
Apollo fra sue man d’ogni arte chiude,
D’ogni scienza l’onorata insegna,
Ventura e vaticini Apollo schiude;
D’arco instrutto e di lira Apollo regna
Fra poeti ed arcieri, e al seme umano
Prendere indugio dalla morte insegna.
Ebbe titolo poi di guardiano
Che in signoria d’Amor l’equestre greggia
Guardò d’Admeto nell’Anfrisio piano;
Agevolmente fia che là si veggia
Calcato di lanuti il verde suolo
Ove d’un guardo pur Febo lampeggia.
Non saran di pastori inopia e duolo
Aride poppe, e ciascheduna agnella
Con doppia prole adempierà lo stuolo.
I cittadini di città novella3
Non insolcano mai cerchio di mura
Se Delfo primamente non favella.
Lui sono gli archi e le colonne a cura
Di cittade, che al ciel poggia superba,
Son fondamenta di sue man fattura.
Fanciullo ancora e nella età più acerba
Tessea di corna di caprette un ara
Là dove le bell’acque Ortigia serba;4
Dalle selve di Cinto assai la cara
Sorella venatrice a lui ne porta,
E così fondamenta a porre impara.
Apollo a Batto fu consiglo e scorta
Di reggersi colà nel pingue lido,
Ove la patria mia Cirene è sorta.
Sotto penne di corvo in Libia nido
Alle schiere promise, e torri ai regi,
Apollo è sempre in sue promesse fido.
Tu Boedromio e Clario e cento egregi
Nomi son tuoi; fra l’are di Cirene
Del grido solo di Carneo ti fregi.
Te dalle antiche tue stanze Lacene
Della prole di Lajo il sesto rede
Trasse di Tera ad abitar le arene.
Da Tera a trasmutar Batto sè diede
Nell’Asbistico suol tuoi simulacri,
E nel grembo locò di orrevol sede,
Trovò ludi annuali e riti sacri
In cui greggia di tauri intera tinge
Gli altari tuoi di rubri ampi lavacri.
Di tanti fiori primavera cinge
Adorato Carneo tuo santo loco
Quanti April rugiadoso educa e pinge,
A te lo stel dell’odorato croco
Produce il verno, e sempre a te novelle
Splendon vigilie di perpetuo foco.
Biondo drappel di Libiche donzelle
Se dei ludi Carnei reddiva l’ora
Scorrea coi pro’ guerrieri in tresche snelle.
Doriche genti a quella etade ancora
La stanza non ponean di Cire al fonte,
E nel selvoso Azili avean dimora.
Febo addittolli dal Mirtusio monte
Alla mogliera, che al lion nemico
Del gregge Euripileo ruppe la fronte.
Più bel coro non vide, e non fu amico
Come a Cirene mai Febo a cittade
Memore ancor del rapimento antico,
E altrove non mirò tanta pietade:
Odo gridar Pean: grido che sorse
Dapprima nelle Delfiche contrade,
Quando il serpente che a’ tuoi passi occorse
Mentre scendevi dalla Pizia rocca
Sotto cento quadrella il terren morse.
Io Pean risuonava, Io Pean scocca
Liberatore! e il suon che in Delfo uscìo
La prima volta, in sommo è d’ogni bocca.
Dicea Livor celatamente al Dio: 5
Musa che il suon delle marittim’onde
In suo stil non adegua, i’ non laud’io.
Lo rimove col piè Febo, e risponde:
Grande è l’Assirio rio, ma sozza rena,
E molto limo a sue piene confonde.
Non portan acque da ciascuna vena
A Cerere Melisse, ma da sacro
Limpido rio, che fior di linfe mena.
Re salve, e Momo sia sempre più macro.
Note
- ↑ [p. 19 modifica]Nacque in Delo sotto la pianta di una palma, quindi la palma gli era sacra non meno dell’alloro.
- ↑ [p. 19 modifica]Si accenna la strage fatta da Apollo dei figli di Niobe, la quale in Frigia fu per dolore trasformata nel monte Sipilo, da cui scorre un fonte. La soavità dei canti era tale, che Teti e Niobe dimentiche dei danni sofferti da quel nume stavano ad ascoltarli.
- ↑ [p. 19 modifica]Non si ponevano i fondamenti di nuova città senza consultar prima l’oracolo Delfico.
- ↑ [p. 19 modifica]Quest’ara fabbricata da Apollo con corna di capre era una delle sette meraviglie del mondo.
- ↑ [p. 19 modifica]Qui si crede adombrato Apollonio Rodio emulo e forse invido di Callimaco.