Giove

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Giove
Inni di Callimaco (1827) Apollo
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GIOVE


Fra gli altari di Giove e i pingui fumi1
     Che si addice cantar se non lui grande
     Lui domator di Flegra e re de’ numi?
Il cor t’inforsa qui se te domande
     Ditteo Giove o Liceo; diverso grido
     Di tuo loco natio la Fama spande,
Ed or l’Arcade suol chiama tuo nido,
     Or la pendice Idea; quando raccoglie
     Il vero? O labbro de’ Cretesi infido,2
Che scritto al sommo di funeste, soglie
     Hanno il tuo nome! Tu vivi nè Parca
     Stenderà sua ragion su le tue spoglie.
Nel Parrasio ove Rea fu di te scarca
     Santa è una parte d’ogni luce muta,
     Che il dì per le conserte ombre non varca.
Da indi in qua non fu donna venuta
     Nè fera sotto la frondosa chioma
     Nel tempo di gridar: Lucina ajuta:3
Vecchia fama degli Arcadi la noma
     Il talamo di Rea, che quando scosse
     Dal grave fianco la divina soma,
Con ardente desìo cercando mosse
     Un limpido ruscello a mondar quanto
     Nel parvoletto e in sè da mondar fosse.
Non di Ladone il rio, non d’Erimanto
     La chiara onda correa, di fonti e fiumi
     Povero dell’Arcadia era ogni canto,
La qual dall’ubertà de’ suoi cacumi
     Nella stagion che Rea la zona solve
     Tanti dovea versar d’acque volumi.

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Dove Giaon la sua fiumana volve,
     E dove Mela e Carnion s’informa,
     Sorgeano querce, e rote scotean polve,
Eran covili di ferina torma,
     Metópe ancor si nascondea sotterra,
     E sovra Crati i piè stampavan’orma.
Stava l’inferma Diva in questa guerra,
     Quando gridò con dolorosa fronte:
     Partorisci tu pure amica Terra,
Agevolmente il puoi: l’arido monte
     Con la verga percosse, e quel si aperse
     E spose immantinente un vivo fonte
Di cui la madre il picciol nato asperse
     E il chiuse in fasce e accomandollo a Neda,4
     Che i piedi alla Dittea grotta converse
Più dell’altre nutrici antica Neda
     Dopo Filira e Stige, e non è lieve
     Mercè se il fiume è nominato Neda.
Il mare di Lepréo l’ampie riceve
     Schiere di questo rio, delle cui vene
     Antique il germe Licaonio beve.
Era la fuga tua tra Gnosso e Tene
     Quando lasciasti ciò laonde voce
     Tolgon di Onfalie le infraposte arene5
Te dentro la Dittea romita foce
     Accolgono le ninfe, e il sonno adesca
     Alle tue cune di Adrastéa la voce.
Le poppe di Amaltea ti furon’esca,
     E dell’Ape Panacri i dolci studi,
     Fama di cui sull’Ida ancora è fresca.
Moveano Coribanti armati ludi
     Ne’ tuoi vagiti, e le brandite spade
     Fallian Saturno e i risonanti scudi.
In vita t’accrescevi ed in beltade,
     Bionda calugin ti fioria le gote
     Per tempo, e precorrea senno ad etade.

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Debitamente delle eteree rote
     Fu conceduto a te lo scettro eburno;
     Di vecchia opinion son false note,
Che sorteggiando i figli di Saturno
     Partirono gl’imperi; e fia chi pogna
     L’inferno a par del bel tempio diurno?
Di cose uguali sorteggiar bisogna,
     (Troppo è dal Cielo alle contrade morte)
     Nè mentir ciò che ha faccia di menzogna.
Te le animose man no l’orba sorte
     Forza e virtù, che sempre è tua vicina
     Han fatto re delle celesti porte.
La generosa degli augei regina
     De’ tuoi decreti messaggiera eleggi,
     Giove, nel ben de’ miei fidi gl’inchina.
Tu no le cetre o le battaglie reggi
     Hanno di ciò pensier numi minori,
     Tu quei, che affrenan le città, francheggi,
In potestà de’ quai sono cultori
     Nocchier guerrieri ogni del mondo parte,
     Che non possono in terra imperatori?
Artefici a Vulcan, guerrieri a Marte,
     Venatori a Diana, a Febo sacri
     Sono i maestri della liric’arte,
A Giove i re, che specchi e simulacri
     In terra sono de’ celesti numi;
     Però tu li governi e in soglio sacri,
E dalle torri con intenti lumi
     Scerni chi regge con paterna cura,
     E chi n’accora di crudei costumi,
E dispensi tesor, nè con misura
     Uguale a ciascun re, vedi lo duce6
     Nostro, che abbatte ogni regal ventura.
Suoi consigli a fornir basta una luce,
     Non bastan molti altrui giri di Sole,
     Altri l’impresa a termin non adduce.

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Salve, sovrana di Saturno prole,
     Largitor di letizia e di salute;
     Quai ponno il tuo valor chiuder parole?
Salve, e mi dona con tesor virtute,
     Non val tesoro se virtù nol move,
     Virtudi son senza dovizia mute,
Di ricchezza e virtù degnami, o Giove.

Note

  1. [p. 14 modifica]Gl’inni si cantavano o prima o dopo o in mezzo le libazioni.
  2. [p. 14 modifica]Erano diverse le opinioni intorno al luogo natale di Giove. I Cretesi lo diceano nato, cresciuto, e morto in Creta, e mostravano la iscrizione Sepolcro di Giove, onde ebbero nome di bugiardi.
  3. [p. 14 modifica]Nell’antro in cui Rea partorì Giove, non era concesso a femmina di qualunque specie il partorire. Pausania parla di altri sacri recinti, nei quali non era lecito nascere o morire, perciò se ne recavano lungi le femmine prossime a partorire, e gl’infermi.
  4. [p. 14 modifica]Stige, Filira e Neda erano le maggiori tra le innumerevoli figlie dell’Oceano. Il malaugurato destino escluse la prima dall’onore di partecipare all’educazione di Giove, ed esclusero la seconda gli amori di Saturno, che un tempo avevano fatta gelosa Rea.
  5. [p. 14 modifica]In queste regioni cadde l’ombelico al pargoletto Giove, onde presero il nome di Onfalie, o sia ombelicali.
  6. [p. 14 modifica]Leggiadramente il poeta scorre qui nelle lodi di Tolomeo Filadelfo re d’Egitto, nella grazia del quale fioriva.