Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimonono

Capitolo ventesimonono

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimonono
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CAPITOLO VENTESIMONONO.

Si dimostra l’equità della Providenza, con riflessioni sui felici e gl’infelici di quaggiù. Per la natura stessa del piacere e del dolore, il disgraziato deve ottenere proporzionata ricompensa delle sue tribolazioni, nella vita avvenire.

Esortazione ai carcerati.

Amici miei, miei figliuoli, compagni nelle sventure; sempre che io rivolgo la mente allo scompartimento de’ beni e de’ mali qui in terra, m’avveggo che molte ragioni di godimenti all’uomo furono date in sorte; ma il sofferire è maggiore. Scorrendo noi collo sguardo l’universo intero, non una sola persona ci verrebbe fatto di rinvenire la quale fosse appieno contenta e di ogni desiderio spogliata. Bensi vediamo ogni giorno mille e mille genti, che coll’uccidersi di propria lor mano dimostrano a noi essere le anime loro d’ogni speranza svestite. Però egli appare che in questo mondo puossi avere miseria compiuta, ma intera felicità giammai.

Perchè sia l’uomo dannato alle tribolazioni; perchè la nostra disavventura sia necessaria per comporre la felicità universale; e mentre ogni umana instituzione è perfetta quando sono perfette le parti subordinate, perchè mai l’universo richiegga, onde avere perfezione, che molte parti di lui non solamente siano ad altre subordinate, ma sì bene per sè stesse imperfette; elle sono queste inestricabili quistioni, e delle quali ancora lo scioglimento poca utilità ne darebbe. La Providenza ha stimato di dovere rendere vana su questi argomenti la nostra curiosità, somministrandoci per lo contrario altre maniere di consolazione.

In tale stato l’uomo chiamò in sussidio la filosofia: e il cielo allora vedendo quant’ella fosse inetta consolatrice, diedegli la religione in aiuto. Le consolazioni della [p. 185 modifica]filosofia sono dilettose, ma spesse volte ingannevoli. Però ella dice da un lato che la vita sarebbe piena di piaceri, ove noi volessimo profittarne; e dall’altro che quantunque sieno inevitabili le nostre miserie, la vita è breve, e quelle presto hanno fine. Quindi a vicenda si distruggono codesti conforti; perchè se la vita appresta alcuna gioia, l’essere ella corta è una miseria; e s’ella sarà lunga, protratte verranno le nostre pene. Di tal maniera manifesta la filosofia la propria debolezza. Ma la religione ci consola con più elevati provvedimenti. L’uomo, ella dice, è posto al mondo, acciocchè ivi egli renda degna l’anima sua d’abitare in altro luogo. Il giusto, nell’abbandonare le sue membra e trasmutarsi tutto in uno spirito glorioso, si accorge d’essersi quaggiù fabbricato un paradiso di felicità. Ma il ribaldo, guasto e contaminato dai vizi, con terrore si arretra dal suo corpo, e si avvede d’avere per sè anticipata la vendetta celeste. Alla religione adunque noi dobbiamo attenerci, e da lei ritrarre i nostri diletti in ogni condizione della vita. Perocchè, se già felici noi siamo, non è ella soave cosa il sapere che sta in noi di rendere eterna la nostra felicità? E se ricolmi di guai, non è ella una consolazione somma il pensare che v’abbia un luogo fuor di questa terra riposato e pacifico? Così la religione appresta felicità non interrolla all’uom dabbene; e al cattivo propone di cambiare in prosperità i mali di lui.

Ma quantunque benigna verso di tutti la religione, particolari ricompense ella promette all’infermo, all’ignudo, al poverello privo di tetto, al tribolato, al prigione, all’infelice comunque. In ogni sua cosa il fondatore di nostra religione amico si dichiara degli sciagurati. E in ciò diverso dai falsi amici del mondo, accarezza con eterno amore l’abbandonato meschino. Sconsigliata gente ben fuvvi che questo disse un favore parziale, un preferimento non meritato; senza por mente che nè al cielo pure è conceduto di far si che una interminabile felicità sia dono in uguale misura compartito all’uomo fortunato come al [p. 186 modifica]misero. Pel primo l’eternità è una semplice ventura la quale al più al più non serve che d’augumento ad un bene già posseduto. Ma pel secondo ella è un doppio vantaggio; perchè scemando qui in terra i travagli di lui, premiali poscia colla celeste beatitudine.

Ma la Providenza anche per altra via è più benevola verso il povero che non verso del ricco; perocchè rendendo ella al povero più desiata la vita eterna, men amara gli fa parere la morte. Per lungo abito si è l’infelice accomunato a tutti gli oggetti che apportar possono terrore. E l’uomo vissuto in mezzo agli affanni scende in tomba tranquillo, senza piangere l’abbandono di terreni possedimenti, senza che una tale dipartenza venga da vincoli trattenuta cui sia doloroso il rompere. Nel separarsi dal mondo egli non è molestato che dall’angoscia della natura la quale già mille volte avevalo in vita con egual violenza oppressato. Però nuova a lui non riesce; perchè dopo un certo grado di affanni, pia la natura noi rende insensibili a tutti i tormenti con cui la mano di morte ci travaglia.

Per tal modo la Providenza, prediligendo l’infelice, due favori gli ha accordati, de’ quali non è partecipe chi mena qui in terra prospera la vita: voglio dire un’agonia dolce, un morir placidissimo in questo mondo; e nell’altro, tutta quella squisitezza di godimenti che deriva dal possedere un bene a cui dopo lunghe miserie finalmente si giunge. Questa non è poca ventura, o amici miei, ed era un dì annoverata tra’ piaceri del poverello del Vangelo. Però, quantunque egli già salito al cielo ne godesse tutta la voluttà, pure la Parabola rammenta quale argomento di felicità più compiuta, l’essere egli stato misero un tempo, l’aver sentito tutto il peso delle sventure, e l’aver dopo quelle gustata la dolcezza della eterna consolazione e la pace.

Ecco, amici miei, come la religione faccia quello che la filosofia non potrebbe. Però ella dimostra con quanta [p. 187 modifica]rettitudine Iddio proceda, e come egli sia giusto del pari cogl’infelici che coi felici. Al ricco non altrimenti che al povero egli dona su in cielo la medesima beatitudine, e a lui lascia in questo mondo la stessa speranza di ottenerla. Ma se il ricco quaggiù sta a vantaggio del povero pel godimento de’ piaceri terreni, il povero avrà poi l’infinita soddisfazione che per lui nascerà dalla conoscenza de’ passati triboli, quando, coronato dell’eterna felicità, vedralli terminati. E quantunque scarsa utilità volesse alcuno chiamarla, pure interminabile essendo essa, e passeggiero in vece il vantaggio temporale del ricco, la durata di quella compenserà la intensione di questo.

Tali sono le consolazioni particolarmente riserbate all’infelice; e queste lui pongono al di sopra del restante degli uomini a cui egli è per altri motivi inferiore. A voler sapere di qual natura sieno le miserie della povertà, fa d’uopo sofferirla. Però il declamare sui vantaggi temporali de’ poverelli egli è un ripetere ciò che nessuno crede e di che nessuno fa prova. Non è povero l’uomo a cui non mancano le cose necessarie alla vita; ma forza è che colui sia miserabile a cui quelle vengono meno. Miserabili fuor d’ogni dubbio siamo dunque noi, o amici. Nè vale sforzo di viva immaginazione a temperare i bisogni della natura, a rendere soavi i vapori grevi e foschi d’una carcere, a calmare la tempesta d’un cuore angustiato. Gridi pure a sua posta il filosofo dal suo letto sprimacciato, essere queste cose tutte facili a comportarsi. Ahi! che la nostra pena maggiore proviene dallo sforzo istesso con cui ci adoperiamo a tollerarle. La morte è leggier danno che ognuno può sostenere; ma i tormenti sono terribili; e non v’ha uomo che possa durarli.

Però, amici miei, a noi singolarmente devono essere care le promesse della eterna felicità; perchè se le nostre ricompense non stanno che in questa vita, di vero che noi fra gli uomini tutti siamo miserabilissimi. Quand’io giro lo sguardo a questi muri tetri che di prigione ci servono [p. 188 modifica]e di spavento, a questa poca luce che solo ci giova per illuminare gli orribili oggetti che ci circondano, a questi ferri trovati dalla tirannia o resi necessari dal delitto; quand’io rimiro questi volti scarni e sparuti, è tanti odo lamentevoli gemiti, posso io tenermi d’esclamare che somma ventura sarebbe il cangiar tanto lutto nella celeste gloria? E per verità, volare per mezzo alle immense regioni dell’aere; batter le penne e scaldarsi ai raggi d’un sole beatissimo, eterno; menar danze al canto d’immortali inni; non temere minacce od insulti d’orgogliosi potenti; ma vedersi sempre dinanzi l’aspetto della bontà medesima, non sono eglino pensieri questi che fanno guardare la morte come apportatrice di lietissime novelle, e i dardi più acuti di lei come sostegni pel nostro cammino? Se a ciò si pon mente, qual v’ha cosa in terra che non sia spregevole? Gli stessi re sul trono dovrebbero sospirare a tanta fortuna; ma noi avviliti e depressi dovremmo con alte grida invocarla.

Ma può ella essere nostro retaggio? nostro sì, o amici, se ad ottenerlo volgiamo le cure. E quel che più ne consola si è, l’essere noi liberi da assai tentazioni che potrebbero impedirne il conseguimento. Tentiamo d’acquistare adunque quella fortuna; ed ella sarà nostra, e nostra fra poco tempo. Perocchè, se mandiamo gli occhi alla vita già trascorsa per noi, un breve lampo essa ci sembra; e più breve ce ne parrà il restante, checchè la nostra mente sognar possa. A misura che noi invecchiamo, i giorni sembrano accorciarsi; e dimesticandoci col tempo, sempre più in noi scema la percezione della sua durata.

Sia dunque conforto per noi la certezza di dovere giungere presto al termine del nostro viaggio, e di dover presto deporre la salma di cui ci aveva il cielo aggravati. E quantunque la morte, unica amica rimasta all’infelice, per alcuni momenti deluda lo stanco pellegrino, a guisa dell’orizzonte che più da lui si allontana quant’ei più viaggia; verrà nondimeno senza dubbio, e verrà [p. 189 modifica]prestamente il tempo in cui avranno fine le nostre fatiche; in cui i fastosi e superbi del mondo non ci calpesteranno più nel fango; in cui dolce ci sarà la memoria delle passate sciagure; in cui verremo circondati da ogni nostro amico, o da persone meritevolissime d’essere tali; in cui finalmente la nostra felicità sarà inenarrabile, eterna.