Il tesoro della Montagna Azzurra/XIX - Il canale sotterraneo

XIX — Il canale sotterraneo

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XIX — Il canale sotterraneo


Se la sorte di Mina non avesse preoccupato di continuo don Pedro, don Josè e il bosmano, questi non si sarebbero dati gran pensiero dell'assedio. Padroni assoluti della caverna, provvisti di viveri per parecchi mesi, e d'acqua che stillava dalle stalattiti e bene armati con canne che tuonavano, avrebbero potuto stancare la pazienza degli assedianti. ll timore però che la fanciulla potesse correre qualche pericolo, tanto da parte dei Nuku che di Ramirez, li aveva indotti a non rinunciare ai loro tentativi di fuga. Fallito il tentativo del lagoon avevano rivolto la loro attenzione alla piccola galleria dalla quale erano entrati e più precisamente su quel corso d'acqua sotterraneo, che subiva il flusso e il riflusso delle maree. Dove portava quel canale? Era quello che alimentava il lagoon? Poteva anche essere. Fu il prigioniero nuku, che dopo aver assistito al tentativo di Matemate, ricordò agli assediati quel canale. Le none, quelle terribili zanzare che non si possono affrontare impunemente, erano certamente morte dopo la chiusura del passaggio: si poteva quindi tentare l'uscita da quella parte o per lo meno esplorare quel fiume sotterraneo. La proposta fatta dall'antropofago, che al pari di Matemate e di Koturé si era subito affezionato agli uomini bianchi, forse perché non lo avevano divorato, era stata subito accettata.

— Proviamo, — aveva detto don José. — Finché rimarremo qui nulla di buono potremo fare, e intanto quel furfante di Ramirez potrà prendere indisturbato il tesoro della Montagna Azzurra.

Il terzo giorno d'assedio, dopo le terribili minacce del capitano dell'Esmeralda, la piccola truppa si era avviata verso la galleria decisa a fare un tentativo disperato. Verso la mezzanotte del terzo giorno gli assediati avevano potuto raggiungere felicemente la piccola galleria e demolire la barricata di pietre che avevano eretta per chiudere il passo al fumo e alle none.

— Vegliano sempre dalla parte dell'uscita, — disse il capitano appena la barricata crollò. — C'è del fumo qui? Buon segno.

— Perché, don José? — chiese don Pedro.

— Se la galleria è piena di fumo significa che quei dannati selvaggi non hanno osato invaderla.

— Potremo avanzare egualmente?

— La corrente d'aria spingerà il fumo nella caverna. Fra cinque minuti l'aria sarà diventata respirabile e noi potremo spingerci avanti, senza pericolo di morire soffocati.

— È vicino il torrente sotterraneo?

— Non lo udite gorgogliare?

— Ci condurrà all'aperto?

— Uno sbocco deve pur averlo, se è acqua salata. Dovremo però, per maggior precauzione, aspettare la bassa marea.

— Voi però non sapete dove ci porterà — disse don Pedro.

— Mi viene il dubbio che quest'acqua filtri attraverso le rhizophore, rispose il capitano.

— Se così fosse dovremmo rinunciare a ogni speranza di uscire da questa maledetta caverna.

— Matemate e Koturé s'incaricheranno di aprirci il passo attraverso quel caos di radici. Li avete già visti all'opera.

Lasciarono sfuggire il fumo che si era addensato nella galleria, asfissiando le none, poi si misero in marcia, avanzando in fila indiana. Gli assedianti, continuavano a bruciare legna davanti all'uscita della galleria, con la magra speranza che la caverna si riempisse a poco a poco di fumo e costringesse gli assediati alla resa. Infatti colonne di fumo avanzavano sempre, spandendo intorno un odore nauseante che prendeva alla gola e che provocava violenti scoppi di tosse.

— Questo è peggio del tabacco! — brontolava Reton, che starnutiva senza posa. — Che abbiano una fabbrica di nicotina queste canaglie?

Tenendosi curvi i fuggiaschi raggiunsero finalmente il canale sotterraneo, senza avere incontrato anima viva. Il capitano, presa una torcia, vi scese, accompagnato da Matemate e dal kahoa. Il riflusso era cominciato da parecchie ore, poiché l'acqua si ritirava in direzione del mare gorgogliando cupamente.

— Siamo arrivati a buon punto, — disse don José. — Guarda se è molto profonda quest'acqua, Matemate.

Il kanako balzò risolutamente nel canale, rimanendo immerso fino alla cintola.

— Scendete tutti, — ordinò il capitano — Andiamo a vedere da quale parte se ne va quest'acqua marina. Un passaggio ci deve essere e forse più facile di quello del lagoon.

Don Pedro, il kahoa e i kanaki si erano calati nel canale, portando le torce. Sopra le loro teste continuavano a sfilare leggere colonne di fumo.

— Ci siete tutti? — chiese il capitano.

— Sì, — rispose Reton.

— Alla testa con il kahoa, Matemate.

— Non ho paura, capo bianco, — rispose il kanako.

Il piccolo drappello aveva ripresa la marcia, immerso fino alla cintola. L'acqua del canale continuava a ritirarsi verso oriente, scorrendo dolcemente. Percorsi pochi passi gli assediati si trovarono davanti a un'arcata buia, sotto la quale si ritirava l'acqua.

— Ecco il passaggio, — disse il capitano, voltandosi verso don Pedro che lo seguiva.

— Troveremo posto per avanzare?

— Credo, — rispose il capitano. — Non so se più avanti troveremo posto sufficiente per tenere la testa fuori dall'acqua. Matemate vuoi esplorare?

— Sì, capo, — rispose il kanako.

Prese una torcia e avanzò sotto l'arcata che doveva essere il principio di una galleria sotterranea.

— È profonda l'acqua? — chiese il capitano.

— La sua altezza è sempre uguale, — rispose il kanako — almeno finora.

— Avanti tutti!

Preceduto dal kanako, il drappello si cacciò sotto le prime volte, abbassando la testa, a causa dello spazio limitato. Il prigioniero si era messo a fianco di Matemate, esplorando il fondo con un lungo bastone. Cinquanta metri furono così percorsi senza incidenti, poi Matemate si fermò bruscamente.

— Ecco il punto scabroso, — disse, volgendosi verso il capitano. La volta è bassa e non potremo più passare.

— È tutta piena d'acqua? — chiese don José.

— Sì.

— Tuo fratello è un abile nuotatore?

— Può gareggiare con i pesci.

— Se provasse a passare?

— Lo farà se vuoi.

— Se non ha paura, si spinga avanti.

Matemate scambiò con il fratello alcune parole, poi esaminarono insieme la volta sotto cui scorreva lentamente l'acqua che a poco a poco si ritirava. Koturé si slacciò il pareo, il gonnellino di tapa, per essere più libero nelle sue mosse, aspirò fortemente l'aria, riempiendo bene i polmoni, poi scomparve sotto la volta, respingendo con i piedi un fiotto di spuma. Tutti si erano curvati verso la volta, tendendo gli orecchi per raccogliere subito il più lieve rumore e in caso di pericolo accorrere in aiuto del nuotatore. Passò un minuto, poi Koturé riapparve, balzando sull'acqua con l'agilità di un pesce. Il suo viso, sebbene grondante acqua, era raggiante.

— Capo bianco, — disse, con voce commossa, — il passaggio esiste.

— L'hai trovato? — esclamò il capitano.

— Sì, ed è più breve di quello che tu credi.

— Dove porta il canale? Nelle rhizophore?

— No: in una caverna sottomarina.

— Hai visto dei pescicani?

— No, ma però guarda...

Il kanako alzò il suo braccio che grondava sangue.

— Ti hanno morso? — chiese don José.

— Sì, le markem, (murene). La grotta sottomarina è piena di quei brutti pesci.

— Non potremo dunque attraversarla?

— Senza morsi, no.

— Poco importa, purché si possa uscire all'aperto.

— Di questo ne rispondo io: ho visto la luce entrare nitida nella caverna.

— Quanto è lungo il passo?

— Non so: avevo ancora dell'aria nei miei polmoni.

— Sono tutti nuotatori questi uomini, — disse il capitano. — Se Koturé è passato nessuno rimarrà indietro.

— Che cosa decidete, don José? — chiese don Pedro.

— La fuga è assicurata, — rispose il capitano dell'Andalusia. — C'è però una difficoltà che prima non avevo prevista.

— Quale?

— E le nostre munizioni?

— Il sole le asciugherà più tardi, — disse il bosmano. — Fa abbastanza caldo in questo dannato paese.

— Prima tu, bosmano, con don Pedro, — ordinò il capitano. — Tu che sei un vecchio pescecane lo aiuterai. Gli altri uno ad uno.

Don Pedro si gettò a bandoliera la carabina, se la assicurò alla cintola, poi, senza nemmeno attendere Reton, scomparve sotto la volta. Dopo il bosmano scomparvero, uno a uno, il capitano, i due kanaki e il kahoa. Koturé aveva detto il vero. La galleria sommersa era meno lunga di quanto si poteva supporre, poiché don Pedro, dopo avere urtato parecchie volte contro le pareti di quel condotto, che non doveva avere grandi dimensioni, sbucò improvvisamente in una caverna sottomarina, di forma circolare, che riceveva la luce da una vasta apertura a fior d'acqua. Non si trattava che di attraversare una quarantina di metri per raggiungere il mare. Don Pedro però si era subito fermato, posando i piedi su una roccia che emergeva dal fondo. Attraverso quell'acqua azzurra d'una trasparenza cristallina, delle brutte bestie che somigliavano a grossi serpenti guizzavano in tutte le direzioni con rapidità incredibile.

— Le murene! — esclamò il giovane, rabbrividendo. — Questi serpenti di mare non sono meno voraci dei pescicani.

Il bosmano in quel momento comparve presso di lui, starnutendo sonoramente.

— Corpo d'una pipa rotta! — esclamò il vecchio lupo di mare arrampicandosi sullo scoglio. — Questi viaggi sottomarini non sono affatto piacevoli. Ho la testa gonfia per gli urti... Caramba! Le brutte bestie! Queste sono peggiori dei caribes. Chi avrà il coraggio di provare i loro denti?

— Eppure bisognerà sfidarli, bosmano, — rispose don Pedro.

— Ci strapperanno la pelle pezzo a pezzo, signore. Le murene dell'Oceano Pacifico sono terribili.

I kanaki, il capitano e il kahoa arrivarono uno a uno, ma subito restavano immobili incrostandosi intorno allo scoglio. Sembrava che nessuno osasse andare verso l'apertura, attraverso la quale entrava, insieme alla luce, un'aria vivificante.

— Questo è un vero vivaio di murene — esclamò il capitano spaventato. — Sarebbe come attraversare una zona battuta dalla mitraglia.

— Eppure la dovremo superare per forza, — disse don Pedro. — Siamo in buon numero e forse non oseranno assalirci.

— Non sperate di uscire di qui senza provare le loro carezze, signore, — osservò il bosmano.

— Meglio dieci o venti morsi, che arrostire su una graticola e finire nel ventre di quei selvaggi.

— Questo è vero, don Pedro, — rispose don José. — In acqua amici, e dibattetevi più che potete e menate le scuri. L'assalto sarà certamente formidabile.

Anche se certi di passare un brutto momento, poiché le murene che popolano le coste delle isole del Pacifico sono più gigantesche e più feroci di quelle degli altri mari, si precipitarono in acqua come un solo uomo, nuotando velocemente verso l'apertura. Le terribili anguille, vedendo quel gruppo umano avanzare attraverso la caverna, si erano precipitate all'assalto, impazienti di affondare i loro denti in quelle carni umane e dilaniarle. Erano centinaia e centinaia, che accorrevano da tutte le parti, salendo dal fondo e uscendo dagli oscuri crepacci della caverna. L'accoglienza fu però altrettanto terribile. Il kahoa e i due kanaki, che non erano alle loro prime armi, fecero a loro volta un formidabile contrattacco, maneggiando le scuri di pietra con rapidità fulminea. Le murene, nondimeno riuscirono a far provare ai fuggiaschi la robustezza dei loro denti, mordendo più di un piede e più di una coscia. Salvo quei colpi di dente, più dolorosi che pericolosi, i nuotatori attraversarono senz'altri incidenti la caverna, sbucando all'aperto e mettendosi in salvo su una scogliera posta parallelamente alla costa.

— Non abbiate fretta di mostrarvi, — disse il capitano. — Ci possono essere dei nuku sulla costa.

— Ho già osservato tutto e ho anche scoperto un oggetto interessantissimo per noi — dichiarò Reton.

— Che cosa?

— Una piroga e per di più armata, perché non manca né dell'albero né della vela.

— Lontana?

— Appena duecento passi da noi.

Il capitano si arrampicò con precauzione sulla scogliera e sporse lentamente il capo. Di fronte a lui si delineava la costa, cosparsa di bellissimi alberi, per lo più pini marittimi e hauris altissimi. In una graziosa cala si cullava dolcemente una di quelle belle doppie piroghe che gli isolani dell'Oceano Pacifico sanno scavare con grande maestria nei tronchi degli alberi.

— È quello che ci voleva, — disse a don Pedro che lo aveva raggiunto. — Il sole è già prossimo al tramonto e appena le tenebre saranno calate c'imbarcheremo. I villaggi dei kahoa non devono essere lontani.

— I nuku si saranno accorti della nostra fuga?

— Non pare, — rispose il capitano. — Sarebbero già qui, mentre sulla riva non vedo anima viva. Sono tanto sicuri di tenerci prigionieri, che non s'incomoderanno di visitare la caverna.

— Come mai quel bandito di Ramirez non è ancora partito per i villaggi dei krahoa?

— Chi lo sa? Meglio per noi se ritarda, poiché lo precederemo a marce forzate. Appena saremo arrivati fra i krahoa organizzeremo una carovana e marceremo verso il Diao. Matemate e Koturé ci guideranno. Non si sarà guastato il simbolo?

— L'acqua non penetra attraverso la busta di caucciù, don José, — rispose il giovane. — Lo mostreremo intatto ai capi krahoa.

— Badate che senza quello non saremmo riconosciuti. So quanto sono ostinati questi selvaggi.

— È sempre qui sul mio petto e per togliermelo bisognerà che prima mi uccidano.

Ridiscesero la scogliera e raggiunsero i loro compagni, i quali stavano facendo raccolta di conchiglie e di certi piccoli pesci argentati, che la marea nel ritirarsi, aveva lasciati in secco. Il sole tramontava, in mezzo a una grande nuvola nera che annunciava un imminente cambiamento di tempo. Fra poco l'oscurità completa avrebbe avvolto l'Oceano e l'isola. Divorata la magra cena, formata di pesciolini crudi che gli indigeni divoravano vivi, il capitano, dopo essersi ben assicurato che nessun nuku si vedeva sulla costa, diede il segnale della partenza. Il tratto di mare da attraversare era strettissimo e nessun pericolo poteva minacciare i nuotatori, non frequentando i pescicani i piccoli passaggi protetti dalle scogliere. La traversata infatti si compì felicemente. Quantunque tutti fossero persuasi che nella piroga non ci fosse nessuno, l'abbordarono con precauzione. Come avevano previsto, non conteneva che delle reti grossolanamente intrecciate e una provvista considerevole di magnagne e di yambos.

— Questa barca non vale un buon cutter, — disse il bosmano, che aveva esaminato rapidamente la piroga, — tuttavia è sempre da preferirsi a una delle nostre zattere.

— Tu sei sempre incontentabile, vecchio brontolone, — osservò il capitano. — Ti mostrerò le eccellenti qualità nautiche di queste imbarcazioni. Questi selvaggi sono abilissimi costruttori, e non avrebbero da imparare nulla da noi. Issiamo la vela e mettiamoci in rotta verso sud. Sono impaziente di rivedere i miei sudditi e la señorita.

Il mastro, aiutato dal kahoa e dai due kanaki, spiegò la vela, quantunque manovrasse in modo assolutamente primitivo, e la doppia piroga uscì, con una bellissima bordata, dal minuscolo seno, lanciandosi sulle onde del Pacifico. La notte era oscurissima e in lontananza brontolava sordamente il tuono. Qualche improvvisa raffica arrivava di quando in quando, facendo crepitare pericolosamente la vela e inclinare la piroga e anche qualche cavallone la prendeva di traverso, gettandola bruscamente fuori rotta. Il capitano, temendo la presenza di scogli sottomarini, si era messo in osservazione a prora con don Pedro e Matemate, mentre gli altri si occupavano della manovra. La costa, che si scorgeva confusamente, fuggiva rapidissima, mostrando di quando in quando delle profonde insenature, in fondo alle quali si vedevano brillare dei fuochi. A mezzanotte, quando l'uragano cominciò a scoppiare, la doppia piroga si rifugiò dentro un piccolo canale, non osando continuare la corsa nell'oscurità e su un mare interrotto da ostacoli, che potevano causare un naufragio disastroso. Un po' di riposo era d'altronde necessario dopo tante peripezie. Furono scelti due uomini di guardia e gli altri si gettarono nel fondo della piroga, addormentandosi profondamente. All'alba la piroga riprendeva la corsa, passando attraverso i canali. Quasi tutte le isole del Pacifico sono difese da solide scogliere, costruite dai polipi, le quali sembrano destinate a proteggere quelle terre dagli urti poderosi e incessanti dell'Oceano. Si trovano così lunghissimi canali, interrotti di quando in quando da aperture comode che si prestano al passaggio delle piccole e svelte piroghe. Era una vera fortuna per i fuggiaschi, poiché il mare durante la notte era diventato molto minaccioso. Dal largo arrivavano formidabili ondate che si spezzavano con un rombo assordante, contro quella moltitudine di scogli, rimbalzando a prodigiosa altezza.

Alle dieci del mattino i kahoa, che da qualche tempo osservavano attentamente la costa, fecero cenno al bosmano, che teneva il lungo remo che serviva di timone, di accostare.

— Siamo presso i vostri villaggi? — chiese il capitano.

— Stanno dietro la foresta, — rispose un indigeno.

— Mi sembra infatti di riconoscere queste spiagge. Ecco là le maledette rhizophore, in mezzo alle quali abbiamo vagato e dove abbiamo incontrato i kanaki.

Quantunque il mare fosse agitatissimo anche dentro il canale, il bosmano con un'abile manovra portò la doppia piroga davanti alla zona delle rhizophore, affondando le prore dentro la massa di radici e di tronchi contorti e flessibili. Assicurata la piroga con una grossa liana, e presi i viveri che conteneva, il drappello si cacciò nelle foreste, senza preoccuparsi della pioggia che cadeva a torrenti e delle raffiche furiose che torcevano i rami sfrondandoli. Malgrado la profonda oscurità che regnava sotto quelle immense volte, il drappello guidato da un indigeno che sapeva orientarsi anche senza le stelle, attraversò in poche ore la grande boscaglia, raggiungendo il villaggio più importante, dove si trovava la capanna del capo. Le sentinelle, che vegliano sempre nei villaggi indigeni avevano già dato l'allarme, e tutta la popolazione, credendo che si trattasse di una invasione di nuku, aveva prese le armi, precipitandosi con altissime grida, fuori delle loro miserabili dimore. Se i kahoa che accompagnavano il capitano non fossero stati svelti a dare il segnale di riconoscimento, il drappello sarebbe stato massacrato poiché tutti quei selvaggi quando caricano sembrano tigri infuriate e difficilmente si arrestano. Un grande urlo di gioia salutò il capo bianco. Don José si fece condurre subito nella capanna dove credeva di trovare Mina. Fu invece la sola Hermosa, la grossa cagna di Terranova che lo accolse con sordi latrati.

— E mia sorella? — gridò don Pedro non vedendola comparire. — Miserabili, che ne avete fatto? L'avete divorata?

— Calmatevi, amico, — disse il capitano. — Ora ci diranno che cosa è avvenuto di lei. È impossibile che l'abbiano uccisa.

Fu un colpo terribile per entrambi quando dai sottocapi appresero la terribile verità. Mina nelle mani del capo bianco dei nuku! Prigioniera di quel dannato Ramirez! Ah! Era troppo! Quel miserabile non si accontentava più del tesoro: voleva anche Mina.

— Lo ucciderò! — ruggì don José, esasperato.

Don Pedro sembrava pietrificato dal dolore; Reton invece si dava dei gran pugni sulla testa bestemmiando come un ossesso. Soltanto i due kanaki si mantenevano calmi e silenziosi, quantunque avessero compreso quale terribile disgrazia avesse colpito i loro amici bianchi.

— Matemate, — disse finalmente il capitano, che, dopo quel primo scoppio di furore aveva riacquistato il suo sangue freddo. — Hai sentito?

— Sì, — rispose il kanako — Hanno rapita la donna bianca.

— Ed è stato l'uomo bianco dei nuku che l'ha portata via, il nostro mortale nemico.

— Lo so.

— Bisogna strappargliela di mano.

— Gliela riprenderemo, — rispose il kanako.

— In che modo?

— Io parto subito con mio fratello per i villaggi dei nuku.

— Che cosa vai a fare? Non ne hai avuto abbastanza dell'assedio della caverna?

— Dammi il tuo cane e aspetta il nostro ritorno.

— Non ti mangeranno i nuku?

Il kanako sorrise con aria misteriosa, poi ripeté:

— Aspetta il nostro ritorno. La notte è oscura e tempestosa e coprirà la nostra marcia.

Legò al collo di Hermosa una sottile liana e uscì dalla capanna con suo fratello, scomparendo rapidamente fra le tenebre.