Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/XI
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NUOVI COLLEGHI.
Ebbe ancora a Garasco, dopo la visita dell’ispettore, una grata sorpresa, e fu una lettera di sua cugina, la figliuola del violinista, la quale gli annunciava di essere fin dal principio dell’anno maestra a Pilona, frazione d’un comune alpino dello stesso suo circondario, e, datogli un cenno di certe avventure romanzesche che aveva avute nell’Italia meridionale, dov’era stata due anni, lo invitava ad andarle a fare una visita al suo romitaggio, dopo gli esami.
Il ricordo delle parole affettuose ch’essa aveva scritte alla famiglia quando era morto suo padre, e la simpatia che ispira alla gioventù dei due sessi quel grado di parentela, il quale pare quasi una predestinazione all’amore, gli mise un gran desiderio di andarla a vedere; e c’entrava pure la viva curiosità ch’egli, come novizio, aveva ancora del mondo scolastico, e più che altro delle sue colleghe. Spinto da questa curiosità egli cercava l’occasione di conoscere tutti gli insegnanti che venivano dai vari comuni del mandamento a riscoter lo stipendio nel suo; e li conobbe in gran parte. Una lo divertì in special modo, un carabiniere di maestra cinquantenne, vedova, con una gran voce e due grandi braccia, che trattenendosi al caffè a ber la gazosa, raccontava amenissimamente le prodezze e disavventure del suo municipio. Il quale, anni prima, aveva dato le scuole in appalto ai frati, una data somma, vale a dire, con cui dovessero provvedere ai locali e ai maestri; ma quelli, essendosi fatti maestri essi medesimi, e avendo ricomprato dal municipio per un pezzo di pane l’edifizio del loro convento soppresso, erano così rientrati e rimasti accortamente in casa propria, stipendiati per giunta, e col vantaggio per soprappiù, d’aver le scuole nelle mani; fin che un bel giorno il Consiglio di Stato, annullando l’atto municipale, aveva mandato tutto per aria. La maestra tratteggiava i frati uno per uno, e descriveva la scena seguita nella Giunta all’arrivo del decreto d’annullamento, con una forza comica che faceva accorrer la gente dai tavolini vicini, come ad ascoltare un’artista. Accorreva pure la gente a vedere una maestrina graziosa, che veniva spesso a Garasco, accompagnata ogni volta da una o due signore, una frugolina, rosea, ricciuta, vestita di chiaro, sempre con le mani piene di fiori, una vera immagine del ridente comune di Pieve, dove si diceva che fosse l’idolo e il trastullo di tutti, e avesse una scuoletta, uno spicchio di casa e un giardino, tutto piccolo, fresco e allegro come lei. Ma quello che divertì il Ratti più di tutti fu un maestro d’un comune della collina, un omiciattolo querimonioso, che era insieme maestro e segretario municipale, ossia doppia vittima o, come diceva lui, l’asino bicipite, sul quale venivano a ricadere tutte le fatiche e tutte le noie, tanto che non gli restavan libere nemmeno le ore della notte. Egli raccontava le sue miserie, battendosi la mano aperta sulla fronte. No, Dante non avrebbe saputo inventare un martirio come quello che davano quei due impieghi riuniti contro una sola persona. E fra le tante tribolazioni serie che aveva, ce n’era una molto comica. Avevan costrutto di fresco nel suo comune un piccolo edifizio per le scuole, con quattro camere per gl’insegnanti, lui compreso: ma quando era stato presentato il disegno dell’edifizio al sindaco, un animalone senza cuore e senza creanza, questi, vedendo che i “gabinetti„ occupavan troppo posto, li aveva cancellati di suo pugno, e alla domanda dell’ingegnere: — Come faranno i maestri? — aveva risposto villanamente: — Vadano all’erba! — E i “gabinetti„ non erano stati fatti. — E a me, — diceva — alla mia età, nel cuor dell’inverno, capisce, di notte, mi tocca di batter la campagna come un ladro! — Però — soleva concludere — il maestro Berardi sta anche peggio di me. — Era il maestro di una borgata vicino alla sua, perduto delle gambe, il quale girava per la scuola in una carrozzella, spinta da un ragazzo. Gli alunni gettavan le righe sul pavimento per impedirgli il passaggio e fargli fare dei traballoni.