Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/VIII
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LA “LETTERATA.„
Era intanto arrivata e aveva esordito alla scuola la maestra nuova. Era arrivata una sera in diligenza, con una piccola zia gobba; e cinque o sei scolarette della campagna avevano annunziato la sua entrata nel villaggio, correndo davanti ai cavalli e gridando a tutti gli usci: — La maestra nuova! La maestra nuova! — La prima impressione che fece il suo aspetto non fu cattiva. La signorina Gamelli era una personcina graziosa, piccoletta di statura, un po’ troppo scarsa di tutto, con due grandi occhi umidi, che avrebbero fatto miglior figura in un capo meno grosso, e con un’ombra leggerissima sopra il labbro superiore, che le stava bene. Per due giorni non si parlò d’altro. — È arrivata la soave fanciulla. — È venuta la letterata. — Chi ha visto la letterata? — Chi la diceva bellina, chi brutta, chi nè l’uno nè l’altro; gli uni la trovavan “troppo acciuga„ gli altri “vestita troppo poeticamente.„ Alcuni che l’avevan vista di sfuggita dietro alle persiane della finestra, dicevano che si dava “delle arie.„ Siccome era arrivata di sabato, una parte del bel mondo maschile andò apposta la mattina seguente, all’ora della messa grande, ad aspettarla in chiesa; dove pure stava alla posta qualche signora. Ma la maestra non comparve. Qualcuno disse d’averla veduta alla messa piccola delle cinque; ma altri negavano che vi fosse stata. — Queste letterate — dicevano — sono mezzo emancipate, che non credono nè a Dio nè al diavolo. — Poi vennero i giudizi dei primi che le parlarono. E qui incominciarono i guai. La signorina portava veramente in sè un riflesso dei difetti del suo stile, una cosa da nulla, un’idea d’affettazione negli atteggiamenti e nel linguaggio: guardava troppo spesso il cielo o il soffitto, e oltre all’adoperare ogni tanto qualche frase presa con le pinze dalla raccolta, e a toscaneggiare un po’ troppo ostentatamente, aveva la debolezza, discorrendo, di fingere delle distrazioni, come se dimenticasse a un tratto, per un’idea sopravvenutale, l’argomento di cui si parlava. La sua affettazione, in fondo, non era che uno di quegli innocenti artifizi di vanità giovanile, ai quali in città, dove tutti recitano, nessuno bada, e che forse anche a Camina avrebbero perdonato ad un’altra; ma a danno di lei c’era quel disgraziato precedente dell’aver mandato avanti (come credevano) i documenti della sua celebrità; e il sospetto ingigantendo il difetto, la maldicenza canzonatoria del villaggio cominciò subito a far della sua persona il medesimo strazio che aveva fatto della sua prosa.
Da principio essa non s’avvide di nulla. Aveva ventun anni. Era il tipo di quelle maestrine arcadiche, che nonostante tutto ciò che un’esordiente può saper della realtà dai giornali scolastici e dalle colleghe esperte o avvedute, arrivano all’“ameno paesello„ con delle illusioni infantili di trovarvi un gioiello di scuola bianca e ridente, delle bambine ingenue, le cui madri saranno loro amiche, delle autorità rispettose e cortesi, che le aiuteranno a colorire i loro disegni di fondazioni di premi e di biblioteche educative, e una popolazione di buoni campagnuoli, somiglianti a quelli dei libri di lettura, pei quali esse saranno una specie di castellane dell’intelligenza, circondate d’ossequio amoroso. Ora una parte di queste illusioni la povera signorina se le vide strappate subito e brutalmente. La sua scuola si trovava al primo piano d’una casuccia sbilenca, posta in un vicolo che sbucava nei campi; al piano terreno della quale c’era un’osteria.... per fortuna; poichè avendo una volta il municipio fatte delle rimostranze in proposito al proprietario, ch’era un fabro ferraio, questi, imbizzito, aveva risposto che dovevan prendere a pigione la casa intera o lasciarlo in pace, chè altrimenti, invece d’un’osteria, ci avrebbe messo.... di peggio. La maestrina rimase sgomenta al veder quella stanza, dove i muri piovean calcinacci e i primi banchi toccavano il suo tavolino. Si turbò anche di più quando vide le sue trenta scolare, dai nove ai quindici anni, le une coi piedi nudi, le altre con la camicia sudicia, che stavano in scuola col cappello di paglia in capo e si disputavano la penna o il calamaio dandosi i nomi degli animali femmine che conducevano alla pastura. Ed ebbe un pronto saggio anche dei parenti, poichè il secondo giorno di scuola le si presentò una contadina, madre d’un’alunna, per pregarla di tagliare un paio di camicie per suo marito, e inteso il suo rifiuto garbato, le disse sgarbatamente che, essendo le maestre pagate dal comune per insegnare a cucire, pareva a lei che fossero tenute anche a prestar quei piccoli servigi alle famiglie dei contadini, i quali pagavano le imposte come tutti gli altri. Ma le toccò un colpo più secco. E fu che una mattina, mentre faceva lezione di buon contegno e di morale, una delle sue scolare più grandi fu presa da sforzi di vomito, e dovette uscire; e le seguì lo stesso varie altre volte, fin che cessò di venir a scuola; e quando la maestra ne domandò notizie, le risero in faccia impudentemente, dicendole (con due parole crude) che sarebbe guarita fra nove mesi. Di questo ella restò avvilita tutta una giornata, e pensierosa, senz’aver più il capo nemmeno a leggere. Ma nelle nature com’era la sua le illusioni strappate rinascono con una prontezza maravigliosa, perchè è la mente stessa che le vuole e le crea, scordando poi subito che sono sua fattura. Perciò la maestrina si riebbe presto da quei disinganni e seguitò a far scuola con lo zelo intrepido dell’esordiente. Nei giorni di vacanza, intanto, visitava or l’una or l’altra signora, che la cercavano per studiarla di dentro e di fuori, e lei non s’accorgeva che in ogni visita lasciava una frase leccata, una parola poetica, una citazione un po’ fuor di luogo, un’intonazione di voce un atteggiamento del viso, che eran diligentemente raccolti e messi in serbo per servir prima a tartassarla alle spalle e più tardi a tormentarla di fronte.