Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/VII
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LA SCOLARESCA CAMINESE.
Il maestro si riconfortò, nonostante questo primo disinganno, pensando che, in fine, il sindaco poteva frodare la legge e vuotargli mezza la scuola, ma non impedirgli di dedicarsi con amore al piccolo numero, che non gli sarebbe mancato, di scolari assidui e di buona volontà. E salutò con piacere il primo giorno di scuola. Gli iscritti spontanei erano quarant’otto, i presenti quarantadue; venticinque di seconda, e diciassette di terza: la solita maggioranza di contadini, con quelle sétole gialle e quelle carni cotte dal sole; ma visetti intelligenti e vispi di colligiani, resi più simpatici dalla viva curiosità che destava il maestro nuovo, e dall’intenzione manifesta d’ingraziarselo; dalla quale traluceva la speranza di trovare un cor buono e una volontà debole. Non gli fu guastata quella prima buona impressione che da due piccole cose. Avendo letto fra gli iscritti il nome di Lorsa, e domandato al ragazzo presente se fosse figliuolo del sindaco, quegli rispose di sì; ed egli avrebbe amato meglio di non avercelo. Non riuscendo poi a decifrare un altro nome, s’alzò un ragazzo dal pelo rosso, che si nominò da sè, aggiungendo ch’era figliuolo del delegato scolastico; e al maestro si presentò l’immagine molesta di quel viso giallo con gli occhiali che aveva visto al municipio; e anche quest’alunno l’avrebbe regalato volentieri ad un altro.
Cominciò dunque, la scuola, ritornando all’antico metodo della bontà e della pazienza, e tanto più risoluto ad attenervisi con tutte le sue forze, in quanto credeva che, fallita anche quella volta la prova, egli non l’avrebbe ritentata mai più: illusione consueta dei giovani, i quali non immaginano quante volte nella vita la prepotenza della natura ci ricaccia per le vie da cui siamo fuggiti. Ammonire amorevolmente, non offendendo mai il sentimento della dignità, ragionare, consigliare, tentar tutti i modi di mover l’affetto, e quando la pazienza gli stesse per fuggire, ritenerla con uno sforzo, e ricominciare: questo era il suo programma. E nell’attuarlo fu fortunato. Non c’era, o non gli parve di riconoscere nella sua scolaresca alcuno ai quei caratteri malvagi con cui l’indulgenza è impossibile, e che rendono difficile d’usarla anche con gli altri. Assuefatti gli uni al maestro andato via, che era freddo e severissimo, gli altri al maestro Reale, bisbetico e violento, rimasero tutti stupiti di quel nuovo modo, e furon tenuti a segno, sul principio, dal loro stesso stupore, come se, presentendo in cuor loro che la cosa non poteva durare, stessero queti nell’aspettazione di qualche gran cambiamento improvviso. Quando a uno che s’aspettava una percossa o l’espulsione, egli s’avvicinava invece lentamente, e mettendogli una mano sulla spalla, prendeva a ragionarlo con gravità e con dolcezza, gli altri si guardavano a vicenda con gli occhi larghi e con un sorriso interrogativo, come per dirsi: — Ma che strano originale è costui? — Questo procedere li sconcertava. In confuso, sotto quella mansuetudine, indovinavano una volontà ferma, che avrebbe saputo impedire ogni abuso; e la contrazione dolorosa che appariva sul viso di lui quando qualcuno lo metteva al procinto di mancare ai suoi propositi, appunto perchè non capivano bene che pensieri esprimesse, ne imponeva loro quanto e più d’un atto di collera. Egli, dal canto suo, vibrante ancora della sua nuova idea e contento di non trovare ostacoli, aveva la parola facile e calda, trovava argomenti ed immagini efficaci per commuovere e persuadere, e gli pareva che mai la propria voce non gli si fosse prestata così bene a quell’ufficio. A capo di pochi giorni egli riconobbe dieci o dodici alunni, che nell’attenzione serena che gli prestavano e nella simpatia che gli esprimevano involontariamente con gli occhi e con gli atteggiamenti del capo, mostravano evidenti i buoni effetti della sua maniera. C’era, fra gli altri, il figliuolo della guardia campestre, un viso di monello riboccante di vita, che non poteva star quieto; il quale, ogni volta che il maestro diceva con la sua voce dolce qualche cosa d’affettuoso e di poetico, aveva il vezzo singolare di finger di non badarvi o di guardare in alto con un sorriso forzato, come per far vedere che quelle parole non gli facevano alcuna impressione. Ma il Ratti, che in questo aveva occhio fine, non prendeva abbaglio sul fatto suo; si confermava, anzi, nella propria opinione, che non bisogna credere sempre all’apparente insensibilità di cuore dei ragazzi, molti dei quali, già come gli uomini, nascondon la commozione per falsa vergogna. La maggior parte, è vero, rimanevan duri come massi; di alcuni anche s’accorse che quando toccava la corda dell’affetto si tastavan coi gomiti e si ammiccavano, come per dire: — Fa la predica. — Ma eran segni sfuggevoli, che non gli disturbavano la scolaresca. E soprattutto si rallegrava di venir riconoscendo il figliuolo del delegato, che gli aveva fatto da principio un cattivo senso, al tutto diverso da quello che, per riflesso del padre, a cui somigliava un poco d’aspetto, egli aveva supposto che fosse. Di giorno in giorno, in quel piccolo viso scolorito, e nei suoi modi, e nelle risposte che dava in scuola, s’andava manifestando, sotto l’influsso della simpatia del maestro, un animo buono, non capace soltanto, ma avido d’affetto. Ed egli l’avrebbe trattato anche con maggiori riguardi, se avesse saputo da che cosa quel bisogno d’affetto e quella sua mestizia timida e pensierosa nascevano. Suo padre, farmacista smesso, malato marcio di fegato, e sua madre, un diavolo scatenato di donna, che aveva delle furie di matta, l’uno tirchio e l’altra sciupona, sempre a tu per tu dalla mattina alla sera, s’abbaruffavano spesso tirandosi addosso quanto veniva loro alle mani, e si malmenavano in modo che i vicini di casa, accorrendo, li trovavano a volte tutti e due insanguinati, lui con gli occhiali rotti, lei con le trecce sfatte, e dovevan separarli di forza, mentre continuavano a scambiarsi dei vituperi d’inferno. Il povero ragazzo era venuto su in mezzo a quelle battaglie dei genitori, udendoli parlare ogni momento di separazione o di suicidio, e rinfacciarsi a vicenda cose abbominevoli, e da quella casa di scandalo e di spavento, dove nessuno l’amava, non era uscito che per passare sotto un maestro briacone, e poi sotto un altro, dignitoso, ma senz’alcuna dolcezza. Quella del nuovo maestro era la prima voce affettuosa che gli arrivava all’anima, facendogli bene comprendere ciò che fin allora gli era mancato. E per questo l’amava. Il maestro se n’accorse, e quell’affetto che mostrava per lui il figliuolo d’un uomo, nel quale, per non so che istinto, egli fiutava un futuro nemico, concorse fin dai primi giorni a rendergli più facile l’attuazione del suo ideale.