Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/I

Il primo incontro

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Camina Camina - II
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IL PRIMO INCONTRO.


Il maestro Ratti partì per Camina rallegrato da quella nuova fiducia in sè, che quasi sempre ci accompagna quando ci andiamo a stabilire in mezzo a gente che non conosce le nostre debolezze e i nostri errori; fra la quale ci pare che potremo agevolmente ricominciando quasi una nuova vita, e non soltanto parere, ma diventare quali vorremmo essere. Andando in calesse su per una via di campagna, che una pioggia recente aveva lavata, e che una fila ai pioppi rigava delle sue ombre, sotto il cielo fresco e rosato d’una sera di settembre, egli si ripeteva i suoi propositi, numerandoli sulle dita: vivere solitario, anche più che per il passato; cedere fin che fosse possibile con le Autorità, per scansare ogni urto e ogni briga; e nel tempo che gli avrebbe lasciato libero la scuola, proseguire con ardore i suoi studi per concorrere a un posto a Torino. Quanto alla scuola, quei due mesi di buona vita di famiglia che aveva passati con la sorella in casa Goli, e la mestizia dolce e viva che gli dava la memoria della sua buona amica perduta, gli avevan fatto mutare idea: egli era deciso ora di ritornare coi ragazzi alla bontà indulgente e libera che aveva abbandonata, e di cercare nel sentimento religioso, che non s’era mai spento affatto in lui, la forza di spinger quella bontà fino agli estremi. Tutto questo, sotto quel cielo rosato, in quel nuovo fervore d’esordiente che si sentiva dentro, gli pareva facile, e quasi impostogli da una forza superiore [p. 82 modifica]alla sua volontà. E di là da tutto questo, gli brillava sempre quella vaga idea di trovar nel villaggio sconosciuto prima l’amicizia e poi la passione che gli avrebbe riempito la vita.


Arrivato a notte fatta al villaggio, troppo tardi per presentarsi all’Autorità, discese all’albergo del Cappello grigio, e si fece servire un boccon di cena, solo in una grande stanza a terreno, dove si guardavano da due opposte pareti quei soliti ritratti spauriti dei Sovrani, che han l’aria d’annunziarsi a vicenda la rovina della monarchia. All’uscio della cucina, donde gli arrivavano all’orecchio le voci disputanti di vari giocatori di tarocchi, si mostrava tratto tratto il viso curioso d’un avventore che entrava o che usciva, o s’affacciavano la serva e i ragazzi dell’oste; i quali dovevan sospettare ch’egli fosse il nuovo maestro; ed egli sentiva, senza capirli, i commenti vivaci che facevan subito dopo sulla sua persona. Mentre tendeva l’orecchio per veder d’afferrare qualche parola, entrò a passo lento nella stanza, guardandolo fisso, e toccandosi appena il cappello, un uomo sui quarant’anni, vestito alla diavola, con cert’occhi strani e la capigliatura e la barba in disordine; il quale, senza levarsi di bocca la pipetta di gesso, gli si fece vicino e gli domandò se fosse il nuovo maestro. Inteso che sì, gli si presentò da sè: — Giuseppe Reale, maestro di 1ª, — e tendendogli la mano, gli si mise a sedere in faccia, senza complimenti. Poi lo guardò daccapo, fisso, sorridendo vagamente, senza dir nulla. Il Ratti lo prese da prima per un uomo tra mezzo malato e mezzo matto. Ma il fiato gli rivelò che era altra cosa; e anche se n’accorse dallo sforzo intellettuale che parea che facesse per esprimersi, benchè la parola uscisse sempre appropriata, appunto perchè la cercava. La sua prima uscita fu subito brutalmente familiare: — Così anche lei ha avuto questa idea buffa di fare il maestro? Da quanti anni è maestro?.... Da sei anni? Da sei anni! E allora ha già avuto tempo di veder che pane si mangia. Dunque... fiato perso a parlarne. — Egli girava la ruota da sedici anni, e mangiava pan pentito fin dal primo, rimpiangendo amaramente di non aver preso invece la professione di cantante, chè aveva una buona voce di [p. 83 modifica]baritono, e, studiando, sarebbe riuscito a fare una seconda parte in teatro; e se non la professione di cantante, quella di calligrafo, come gli consigliavano tutti, essendo egli nato fatto per quell’arte; di modo che a Torino, in sedici anni, avrebbe tirato su una scuola privata “magnifica„ e fatto denari a eseguir lavori di commissione: lavori, disse con stento, cro-mo-calligrafici, di cui aveva già dato dei saggi alle esposizioni. E qui si levò la pipa di bocca per metter fuori un sospiro. Suo padre, invece, di professione stipettaio, s’era intestato a arrolarlo fra gli “educatori del popolo„ e aveva fatto un bel bollo! Da sei anni egli marciva a Camina, con quel tocco di paga, senza una speranza al mondo, svogliato anche degli studi, che non menavano a nulla; e dopo un momento di riflessione, come se raccogliesse delle parole sparse nella sua memoria: — ....perchè — disse — nei piccoli paesi manca l’ossigeno agli organi respiratori dell’intelligenza; — e l’espressione di stupore che passò negli occhi del Ratti all’udir quella frase, parve che gli facesse piacere. Poi, dopo averlo fissato di nuovo lungamente, come se l’aspetto onesto del giovane lo rassicurasse che non sarebbero state tradite le sue confidenze, soggiunse piano: — È cascato in un cattivo buco, sa? come a dire nel campo nemico, in un comune avversario dichiarato dell’istruzione del popolo. Non che siano cattiva gente; io n’ho conosciuta di peggio; ma.... han l’odio della scuola, per natura. E poi.... anche in fatto d’onestà, lasciamo andare.... ci sarebbe un tanto da dire. — Il Municipio prometteva da sette anni l’alloggio ai maestri, e non aveva ancora dato nemmeno un sottoscala; aveva ottenuto in varie occasioni dei sussidi per il miglioramento delle suppellettili, e lui, per conto suo, non s’era ancor visto cambiare che la scopa. Di più, avevano due anni addietro fatto uno stanziamento discreto per trasformare i locali, che erano compassionevoli, e sparsi ai quattro canti del paese; s’erano già anche per questo scroccate le lodi dell’Autorità scolastica; e poi avevan stornato i fondi a uno scopo d’ambizione, facendo costrurre una latrina pubblica nella piazza, come nelle città grandi, una specie di tempietto ridicolo, che appestava il paese. Nessuna idea di vero progresso, infine. Avevano mai voluto mettere [p. 84 modifica]in esecuzione il progetto ch’egli s’era sfiatato per anni a sostenere, un’idea nuova e veramente utile, d’una grande esposizione calligrafica nel villaggio, alla quale sarebbero concorse tutte le scuole del circondario, e che avrebbe dato dei resultati incalcolabili, se avessero stabilito dei premi seri!.... Qui ruttò, e poi diede addosso al carattere degli abitanti: delle tigne, che non avrebbero regalato un litro di vino al maestro, neanche se gli avesse addottorato i figliuoli in belle lettere, e l’avrebbero visto morir di fame senza dargli un Cristo a baciare. L’unico che stesse bene nel paese era don Bruna, uno dei due maestri dell’istituto Bocci, una scuola elementare privata, ch’era stata fondata col lascito d’una signora, la quale anche aveva fissato una somma per mantenere a Torino gli alunni più distinti, che volessero continuare gli studi. Don Bruna aveva mille lire di stipendio, la messa, l’alloggio, un po’ d’orto: insomma, mangiava carne tutti i giorni e poteva bere un bicchier di vin buono a ogni pasto. Ma per gli altri.... non era una vita da uomini. — Ma già — urlò a un tratto, balzando in piedi, e agitando il pugno al di sopra del capo, — la colpa è di quel porco del deputato ***, che ogni volta che si propone una legge per noi, ci sbraita contro e mette su gli altri deputati. Non ha avuto la faccia di chiamarci in piena Camera un branco di somari, quella carogna, e nessuno gli ha fatto la pelle, dei quaranta mila gaglioffi che siamo? Tutti per paura di perdere il posto alla greppia, vigliacconi tutti, venduti a chi comanda come animali da carro! — E detto questo, risedette, pacificato tutt’a un tratto, per dire che nella sua scuola e dopo aver studiato a fondo tutte le metodiche, egli seguiva il metodo Lancasteriano, e che otteneva degli ottimi resultati. Infine, preso da un sonno improvviso, dopo aver risposto a monosillabi, con le labbra spenzoloni, a varie domande del collega intorno al clima del paese e ai prezzi dei commestibili, si accomiatò con una stretta di mano, e si mosse a passi ineguali. Arrivato all’uscio, si voltò indietro e disse in aria di diffidenza: — Tutto questo resta fra noi, ben inteso, — e a un atto di rassicurazione del giovane, uscì. Era appena uscito, che rientrò sorridendo con gli occhi lustri e con la bocca aperta, e riavvicinatosi al collega, gli disse a bassa voce: — [p. 85 modifica]Vedrà la maestra Pedani.... — e baciatosi la punta delle dita con un atto comico, alzò gli occhi e la mano come per mandare un bacio al soffitto. Poi se n’andò, dando una fiancata in una tavola.