Il ritorno di Ulisse/Prefazione

Prefazione

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Il ritorno di Ulisse Personaggi della tragedia
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PREFAZIONE



Come gli «Appunti sul metodo della Divina Commedia, sull’arte drammatica», etc., la pubblicazione di questi due drammi è la conseguenza diretta della rappresentazione di «Angelica» a Parigi e a Ginevra. In questa occasione alcuni fra i critici che presero a scrivere lunghi studi su Leo: François Franzoni, Guiseppe Fontana, Renato Poggioli, Hans Mayer, Bogdan Raditza, etc., chiesero di conoscere i drammi anteriori di Leo, anche quei primissimi di cui parlavo succintamente nello sboccio di una vita, e avutili mi incoraggiarono a stamparli. Pubblicandoli mi par utile di far conoscere al pubblico le circostanze in cui questi drammi sono nati e le intenzioni dell’autore a loro proposito.

La favola dei sette colori, per quanto si riattacchi per molte corde a tutte le poesie dell’epoca in cui Leo lo scrisse (1919 - 17 anni) ha un’origine esterna, diversa da quella di tutti gli altri drammi di Leo. Noi abitavamo a Firenze una villetta vicino a quella del maestro Franchetti, e fu così che Leo ebbe occasione sovente di sentirlo lagnarsi della mancanza di cui soffrivano i musicisti, di libretti. Un libretto — egli diceva — per essere buono dev’essere sentito come musica da chi lo compone, dev’essere come un ordito pronto su cui il musicista tesse la tela. Leo, che era appassionato per la musica, ebbe l’idea allora di fare un libretto e scrisse questa deliziosa favola. Tenue la trama: Iride, ancella di Giunone, è innamorata di un aedo, Arco, che assapora la vita in tutte le sue forme e ha sfidato Giove a goderla più di lui, mortale. Giove offeso ordina che Iride gli tolga la vita. Giunone scongiurata da Iride commuta la pena: Iride gli [p. 7 modifica]toglierà il filo della vita, ma Arco diventerà Dio. Arco rifiuta di diventare Dio: egli ama la vita con le sue ansie e le sue gioie, con le aurore, i tramonti, le tempeste, la paura, l’ebiezza. Egli non vuole morire e non vuol diventare impassibile, non vuol diventare Dio. Iride cede: pur sapendo che disobbedire è per lei dissolversi, ha pietà di Arco e non gli taglia la vita. Mentre sta per dissolversi chiede in grazia di lasciare i suoi colori alle amiche Gocce. Il supremo desiderio è esaudito e le gocce ornate dei colori di Iride ricompaiono a ogni fine di temporale tutte insieme legate in un fascio colorato.

La tenue trama ha per scenario l’Olimpo — in realtà una schiarita di bosco, in cui si rincorrono, cicalecciano fauni e ninfe (le Gocce). I personaggi, per quanto irreali, sono tutti umani e individuali: Giunone è la donna saggia, burbera e benefica; le Gocce e i Fauni sono giovani e giovanette irrequieti e incoerenti; Iride è una tenera Ofelia, un’Ipsitilla, cui l’amore è vita, l’amore più grande della paura della morte; Mercurio, il futuro Arlecchino di Angelica, l’intellettuale astuto e bugiardo; Arco l’aedo che ama la sua arte più di Iride, la vita, i colori, la gioia, più che Iride e l’arte.

Questa la favola, ma la trama è legata da cori, semicori, giochi di luce, di movimenti, di temporale, di pioggia, di sole, di aurora, fra cui si sente sussurrare, brusire, suonare una musica incomposta ma già sensibile.

Credo che il libretto sarebbe stato musicato. Ma a guerra finita molte preoccupazioni distrassero il maestro e Leo, che non pensò proprio più a questa favola.

Scrisse altre commedie: L’illusione della potenza di cui ci resta un atto: L’uomo di argilla, di cui non fece che qualche scena, un dramma giapponese, di cui non trovai più nulla (queste commedie giravano tra compagni e non restavano in casa) e Metastasio che credo poter ritrovare perchè fu scritto in parecchie copie e comunicato anche a delle [p. 8 modifica]compagnie teatrali; ma tutte queste commedie erano più che altro tentativi. Molto diversa l’importanza che Leo dava, e che in realtà ha Il Ritorno di Ulisse ancora firmàto cosí come i drammi precedenti e ogni studio pubblicato prima del 1924 Leo di Guglielmo. Fu questo il primo dramma che Leo fece consciamente, con la decisione maturata di essere autore drammatico e di applicare i dettami che si era venuto costruendo (che ho riprodotto negli appunti sul metodo). Questo risulta del resto da una lettera scritta a Jean Jacques Bernard nell’agosto 1922:

«Quant à moi, j’ai un fort penchant vers une forme d’art classique. Lassé des perversions littéraires, des intrigues invraisemblables, des drames à recette où les fous étaient toujours protagonistes par basse spéculation commerciale, des rercherches toujours nouvelles et toujours plus insensées pour la transformation du théâtre moderne en un autre pire encore — comme ces tyrans d’Athènes — j’ai regardé vers la simple et bien construite puissance antique comme vers une solution du problème et je me suis trempé dans cette source vivifiante en adoptant de l’antiquité la forme et les sujets. «Sujet mythologique», réponse qui met en défiance les acteurs et les directeurs de théâtre, car le public en ce moment ne veut que du moyen-âge. Vous même vous avez peut-être froncé le sourcil en lisant «forme d’art classique». Je crois qu’en France vous n’avez plus l’idée de ce qui est le vrai «classique» grec ou latin, parce que vos «classiques» l’ont complètement transformé, et depuis lors vous ne voyez plus Homère ou les drames grecs que dans Racine, et Virgile que dans Délille, — c’est-à-dire, inconsciemment, vous sentez l’antiquité en alexandrins et — disons-le en secret — comme un art un peu déclamatoire, très vague et fort ennuyeux. Nous sommes restés beaucoup plus près des antiques parce que notre langue harmoniquement a encore le même rythme que leur langue et nous n’avons pas [p. 9 modifica]eu par bonheur des professeurs d’Université expliquant à répétition «que Racine remonte à Euripide comme Corneille remonte à Sophocle». Mais si vous pensez à la poésie grandiose qui coule des doux vers d’Homère, simples et liquides, quand il raconte, dans l’Odissée, — le chef d’œuvre — des faits divins et terre à terre avec cette même indifférente nonchalance et cette noblesse qui purifie et annoblit les plus humbles détails et vous sculpte en ayant l’air de rien, des types d’hommes impérissables, vous comprenez comme cet art est loin des alexandrins rythmés en cadence et des grands discours style «Rome l’unique objet de mon ressentiment», et quelle source d’inspiration on peut trouver par exemple dans l’Odyssée, émouvant comme un soleil couchant sur la mer. Et cela quant aux sujets et au style de «l’émotion artistique». (J’aime bien me plonger dans cette atmosphère un peu fantastique où les hommes sont moins compliqués et leur vie et leurs drames un peu différents, car je conçois le théâtre historique seulement comme une recherche de situations dramatiques qui ne se présentent plus aujourd’hui, mais où les personnages doivent être humains comme les modernes.) Quant à la forme, ce que j’appelle «art classique», c’est pour moi «l’art qui a conscience de ses limites». Et par conséquent un art de construction — car le fragment ne souffrant pas de mesure est illimité. Mais c’est un problème très compliqué — je l’ai d’ailleurs plus longuement développé dans quelques conférences — et nous en parlerons, si vous voulez bien, une autre fois. Je me suis donc inspiré — inconsciemment — à ces principes en écrivant «Le retour d’Ulysses» et quelques autres pièces. Mais je crois que je débuterai avec une pièce que j’ai préparée, mais que j’écrirai à peine fini un livre sur les historiens latins, fait en collaboration avec mon père — sur Catulle, le delicieux poète de Rome, le plus moderne des lyriques anciens. Et par cette pièce où je ferai ressortir une âme compliquée de [p. 10 modifica]poète malade et décadent et deux types de femmes autour de lui, je me rapprocherai beaucoup de votre genre d’art, sans oser, d’ailleurs, vous égaler; et c’est une des raisons pour lesquelles j’ai été frappé en lisant votre Martine.»

La trama del «Ritorno di Ulisse» è quella dell’Odissea, ma egli ce ne dà una concezione moderna. I personaggi sono gli stessi, ma visti, sentiti, presentati in modo nuovo. Nuova la figura di Penelope, descritta non come un’assennata matrona, ma come una deliziosa Nora di Casa di bambola, che, pur amando solo Ulisse, cinguetta con tutti. Nuova la vecchia nutrice brontolona, che rimprovera a Penelope la sua leggerezza, che odia i Proci, che rimbrotta le ancelle pei loro frascheggiamenti, ma che si affatica perchè la reggia resti in ordine perfetto, perchè davanti ai Proci sia sempre la solenne e degna reggia di Ulisse. Nuova la figura di Ulisse, che ama e soffre così modernamente.

La prima scena in cui Ulisse ritrova la sua terra, la bacia e piange di gioia; le scene successive in cui si scopre a Telemaco e Penelope, che rimangono interdetti, disorientati di non dover più aspettare; l’ultima scena in cui Ulisse avendo tutto quello che ha sognato per tanti anni si sente infelice e piange sul seno di Penelope che per la prima volta riprende la sua funzione di consolatrice e ridiventa la Penelope antica — , rendono drammaticamente le conclusioni psicologiche di Leo: «le nostre emozioni rispetto alla realtà non sono mai quelle che ci si immagina a priori: «l’uomo non gode che quello che non ha o sa di dover perdere, si abitua all’instabile come allo stabile ed è sconcertato dalla gioia come dal dolore.

Questa dunque la trama, la storia, lo scopo di questi drammi giovanili che presenta ai critici, ai lettori, agli studiosi di Leo, a loro affidando di trovare alla favola dei sette colori un musicista che voglia musicarla, e a Ulisse un teatro che lo rappresenti

La mamma Di Leo.