III - Pasquà

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II IV

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Capitolo III.

Pasquà.

Così Beatus tornò solo al suo albergo.

Era un albergo di secondo ordine, forse vicino al terzo; il cui padrone si chiamava Pasquà.

Veramente Beatus, arrivando in quella città, era sceso a quello che gli fu indicato come il primo albergo, dove scende ogni persona rispettabile. Dal modo, anzi, come gli fu indicato, questo albergo doveva essere una gloria cittadina: infatti spiccava laccato di bianco nella città scura, e portava il superbo nome di Palace Hôtel.

Ma si era appena seduto al tavolino della stanza assegnata, per stendere la relazione a Sua Eccellenza il ministro, quando dovette abbandonare la penna, per grattarsi le gambe. Erano quegli animalini chiamati le pulci. Beatus ne avvertì il cameriere, il quale gli rispose che le pulci sono un naturale appannaggio dei pavimenti. [p. 22 modifica]

— Quando però non si tengono puliti, come è il caso — aveva detto Beatus indicando gli angoli col ditino.

— Tocca al facchino pulire — aveva risposto con dignità il cameriere.

La sera, visitando le lenzuola, vi aveva trovato tracce di altri animalini schiacciati.

Ne aveva ancora avvertito il cameriere, ma questi gli aveva risposto, non senza soddisfazione: — Tempo di guerra, signore! — che Beatus tradusse così: «Questi borghesi vogliono la guerra e anche le lenzuola di bucato!»

Quel cameriere portava il frac, ma tutto laccato di nero, sì che incuteva ribrezzo.

Era colui che portava anche le vivande nella sala da pranzo, laccata di bianco.

*

Per queste ragioni Beatus aveva abbandonato il Palace Hôtel, ed era andato da Pasquà, dove gli fu riconosciuto il diritto delle lenzuola di bucato, anche in tempo di guerra.

Pasquà era un uomo sui cinquant’anni, obeso e tetro con faccia borbonica: stava [p. 23 modifica]solitamente sdraiato. Aveva un grosso diamante al dito e la cannuccia della pipa in bocca. Sputava anche lui con iperbole, e se occorreva qualche cosa, chiamava: «Giggia! Carmè! Concettiella!» ma lui non si moveva.

Le tre donne cantavano in cucina presso i fornelli di maiolica. Carmè era silenziosa e di pingui carni bianche: era la giovane moglie e fungeva da cuoca. Gigia era una aitante fanciulla con occhi chiari, idioti e capelli tizianeschi, piedi scalzi: lavava i piatti. Era una profuga. Concettiella nulla faceva, cantava sempre e insegnava a Gigia a non far nulla.

— Voi che guardate? — aveva detto il giorno innanzi Pasquà a Beatus.

Egli guardava Carmè con quanta grazia, e in un attimo, colei allestisse nella padella le uova con la mozzarella. E un’altra volta in quel dì, Pasquà pur disse: — Voi che guardate? — Egli guardava Concettiella che dicendo: «Cocco mio, vien qua», aveva tirato il collo a un pollastro e lavorava, alfine; cioè spennava caldo caldo il pollo sul limitare e spargeva penne e immondizie per la via.

Beatus, nel primo caso, spiegò a Pasquà [p. 24 modifica]che ammirava l’arte con cui Carmè faceva saltare la padella; e nel secondo caso pensava a quel cocco mio seguito dallo stroncamento delle vertebre; e pensava altresì come una scuola che insegnasse a non spargere immondizie, sarebbe stata una gran scuola.

Ma Pasquà grugnì: — Nun dite fesserie, pecchè voi guardate ’i femmine e nun’a mozzarella.

*

Pasquà si moveva soltanto all’ora di servire a tavola. Ma non portava lui le vivande. Era soltanto quello che i latini chiamavano pincerna: cioè il coppiere. Portava e sturava le bottiglie, e allora soltanto aveva un po’ di gaiezza.

— Quando — diceva girando con le dita contro la guancia, a modo di un cavatappi — avete bevuto questo rosolio, voi siete in paradiso.

Era anche un po’ prepotente Pasquà. Diceva: — Voi volete sapere in cucina che ce sta. Non ci pensate. Mo v’arrangio io. — E portava quello che voleva lui, e diceva: — [p. 25 modifica]Quando io vi faccio riempiere bene a panza, non basta?

E in verità Beatus, benchè avesse la panza, cioè stomaco e intestino delicatissimi, mai come in quei giorni, sotto il regime di Pasquà, era stato così bene. Inoltre le tre donne per effetto della loro giovinezza gli scancellavano la imagine delle cose sudicie.

Era anche sgarbato Pasquà. Diceva: — Io v’apparecchio qua e voi ve ne andate là. Che avete? la tarantola in corpo?

È che Beatus cercava l’angolo dove la tovaglia fosse men sudicia.

Ih, quanta aristucrazia! — aveva detto Pasquà. — Quando v’aggio dato ’a salvietta pulita p’ ’a bocca nun basta?

Era anche curioso Pasquà: — Vui m’avite a spiegà come fate: v’andate a curcà e leggite, pigliate ’u caffè e leggite, mangiate ’a minestra, e leggite. Io dopo due minuti che aggio aperto u’ Don Marzio, me volta ’a capa.

E vedendolo pensoso, Pasquà diceva: — Anch’io come voi tengo tanti pensieri; ma invece di tutti questi libri, bevete e non penserete più a niente. [p. 26 modifica]

Era anche sfacciato Pasquà. Apriva i libri, e vedendo scritto StoriaIh, quanta storia! — esclamò. — La so anch’io la storia come voi. Re Gioacchino, Re Ferdinando, Re Franceschiello...... Tutti fessi!

*

Tornando dunque Beatus al suo albergo, trovò Pasquà sdraiato nel suo nirvana.

Aprì gli occhi porcini e disse tetro a Beatus: — Felice voi! Sempre di società anchela mattina!

— Perchè?

— Perchè avete sempre il gilè bianco, i guanti, e le scarpette lustre.

— Felice voi, Pasquà — disse di rimando Beatus —, voi che potete dormire anche al mattino; voi bella casa, voi bella salute, voi belle donne. — E indicò, nella cucina, le tre donne fresche e piacenti.

Lo guatò torvo Pasquà e disse:

Vui nun capite niente! Vui nun sapete che tengo dint’ ’u core mio. Quando si arriva all’età mia, che campo a fa ’ncoppa a stu mondo? E anche vui che campate a [p. 27 modifica]fa? Eh, ci vuol altro che il gilè bianco e le scarpe lustre!

Infelice Pasquà! Egli guardava tutto il giorno il suo inutile harem.

«Ecco una cosa — disse fra sè Beatus, sorridendo quando fu solo — che contraddice all’elogio che Erasmo di Rotterdam fa della stoltezza, perchè ecco qui lo stolto Pasquà che soffre per questa liberazione dall’animalità. Liberazione? Sì, ma anche esenzione dalla vita».

E Beatus non sorrise più.

E si ricordò poi di quella gloria a cui aspirava la giovane professoressa: forse era la stessa cosa che formava il rimpianto di Pasquà: l’amore! Povera fanciulla! E pensò come potesse dare alla sterile giovinezza di colei ciò che non poteva dare ai maturi anni di Pasquà.