Il flauto nel bosco/Il nostro giardino
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Onesto | Dichiarazioni | ► |
Il nostro giardino.
l’albero senza nome.
Pianta oggi, pianta domani, il nostro giardino è diventato una vera foresta.
Ho contato fino a cento qualità di piante; poi mi sono fermata, non per stanchezza ma per sbalordimento, pensando che se fosse a contarle tutte, senza comprendere quelle a cui si fa inutilmente una guerra spietata, si arriverebbe al migliaio e forse più.
Molte sono nate da sè, e sono le più belle: della bellissima fra le belle ho però cercato invano il nome nei libri di botanica, e invano domandato ad un ispettore forestale e ad un professore di agronomia.
È vero che quest’ultimo non conosceva neppure il nome delle altre piante.
Quest’albero senza nome è sempre verde, con fiorellini bianchi a primavera che cadono appena sbocciati, incessantemente, e incessantemente rinascono: anche le foglie morte, sul finire della primavera, sono subito sostituite dalle nuove. È infine una pianta sempre giovane, senza profumo, insensibile all’estate e all’inverno, fresca eppure austera, che non attira gl’insetti nè gli uccelli, che pare non conosca l’amore, che non si riproduce e fa ombra solo per sè: un bellissimo esemplare di egoista vegetale.
Forse per questo è la prediletta fra tutte.
la pianta maledetta.
Un signore, che adesso è morto, mi aveva fatto dono, appena sistemato il nostro giardino, di una pianta ornamentale che egli coltivava religiosamente in un vaso.
Lui stesso portò il vaso nel nostro giardino, scavò una buca, ve lo mise dentro e lo spezzò: e la pianta fu della nostra terra.
Ed era, sul principio, veramente nobile e graziosa, con le sue grandi foglie ricurve, lanceolate, lucide e grasse. Solo il suo nome ricorda epopee di gloria e di bellezza e dà la visione di monumenti divini: l’acanto.
A poco a poco crebbe, mise dei lunghi fiori gigliati, duri, violetti, e poi tubi di semi che destavano voglia di farci l’olio.
Crebbe, crebbe; non aveva altra missione, adesso, che quella di svilupparsi, come eccitata dall’esempio vicino della palma. Invano le lumache, prima sconosciute nel nostro giardino, germogliarono alla sua ombra, attaccate come un vizio nascosto sul rovescio delle sue grandi foglie così belle a vedersi di fuori: invano le vespe, i maggiolini, le formiche, le cavallette, i vermi e ogni peggior sorta di animali divoratori, le furono addosso, sotto e sopra: lei cresceva, ed era lei che attirava e dava alimento a questo popolo distruggitore.
Allora abbiamo pensato di estirpare la nobile pianta. Estirpata rinacque, non solo, ma l’anno appresso, e ancora oggi nonostante i più radicali rimedi, il giardino fu ed è invaso di acanti e di tutte le maledizioni che li accompagnano.
Una persona maligna mi aveva una volta descritto il signore dell’acanto come un uomo di cattivi sentimenti che si compiaceva del male altrui: sia pace all’anima sua, ma adesso ci credo.
il pomo.
Nei primi anni, mentre mi compiacevo dei ciglioni erbosi e dei prati ancora allo stato selvaggio che circondavano il nostro giardino, e sognavo di acquistarne qualche pezzo, odiavo la nostra proprietà che avevamo dovuto comperare per forza onde evitare un’altra casa rasente alla nostra, che ci avrebbe rubato l’unico vero bene per il quale si era sacrificato il lavoro di tutta la nostra vita: il sole.
Odiavo quel pezzo di terreno perchè costava così e non produceva nulla: e il giardiniere pretendeva tanto che si doveva ancora lavorare per lui: e metteva tale disordine che quando io scendevo stanca per riposarmi all’ombra dell’unica robinia che si dondolava su le altre piccole piante come il pavone in mezzo ai pulcini, mi toccava di lavorare ancora per raccattare le canne, gli sterpi, le fronde, i sassi buttati qua e là da lui.
Ma venne la guerra, e di giardinieri non si parlò più: erano andati a farsi ammazzare, come qualche cuore crudele loro augurava; e nel dopoguerra quelli tornati felicemente sono disponibili, per le loro pretese, solo per i miliardari.
Avvenne che del giardino la giardiniera diventai io: e il luogo riprese l’aspetto dei borri circostanti: crebbero le canne, e i convolvoli selvatici si avviticchiarono ai cespugli coltivati come le donne di servizio ai loro presunti fidanzati; l’erba rinacque più folta sulla sabbia dei piccoli viali, e piante di tutte le regioni, dall’abete alla palma, dalla quercia all’olivo, nacquero spontanee come nel paradiso terrestre.
E ci nacque e crebbe e diede frutto anche il pomo: ma fu innocuo perchè sul più bello, quando i frutti erano maturi, ci furono rubati.
il dramma del nostro giardino.
Questo è il dramma non da prendersi tanto in ridere, del nostro felice giardino.
Si lavora, si lavora, si spende in concime tanto che un mezzo chilo di piselli, nel colmo della stagione, viene a costare dalle otto alle dieci lire, e le ciliege son come già conservate nello spirito: e all’ora buona i signori ladri ci risparmiano la fatica della raccolta.
E il Comune che pretende le tasse su tanta rendita? E l’ufficio del dazio che vuol conoscere rigorosamente, e su modulo stampato, il numero dei chili d’uva? L’agente è venuto a verificare di persona, proprio la mattina dopo che l’uva, ancora acerba, c’era stata rubata: dico la verità, sebbene inviperita contro i ladri, ho provato gusto a vedere la faccia dell’agente: una faccia scura, inesorabile, come fosse lui il padrone dell’uva e ci facesse colpa di averla lasciata rubare.
I ragazzi poi sono talmente abituati a entrare e strappare tutto, che quando ci vedono in giardino ci mandano a morire scannati, come se i ladri fossimo addirittura noi.
Ma i più terribili, i più spietati sono i ladri domestici.
La gente che passa si ferma a guardare e invidia con aperte parole la nostra proprietà; conta uno per uno i carciofi, le pere, le rose; ebbene, io credo nel malocchio, perchè immediatamente, anche se di fuori non entra anima viva, la roba sparisce.
Dio guardi poi se un giorno che non sono in casa io, qualche gentile fanciulla che accarezzi nascostamente il sogno di diventare un giorno la fata del nostro giardino, vi mette piede in compagnia del nostro maggior erede. Non è un ladro e tanto meno l’amore quello che passa, è un irrimediabile uragano.
nerina.
Per tutte queste contrarietà ho cominciato ad aver compassione e quindi a voler bene al nostro giardino.
E continuo a dire nostro intendendo giardino di tutti, e specialmente dei gatti del vicinato. È incredibile il numero dei gatti che vi si dà non innocente convegno e vi spadroneggia notte e giorno. Ci sono notti in cui, fra i gatti lussuriosi, l’usignolo sentimentale, i cani dei dintorni e la filosofica civetta, c’è tale un chiasso da far desiderare di essere piuttosto nel cuore di Londra.
La colpa è senza dubbio di Nerina.
Questa Nerina è un po’ come il nostro giardino: la gatta di tutti.
Gatti, ragazzi, signore e anche uomini serî, amano la bellissima Nerina silenziosa e indolente che entra da per tutto sempre ornata della sua pelliccia di lontra e dei suoi grandi smeraldi di occhi coi quali ti fissa come una bambina e come una donna galante.
Per conto suo lei ama solo il gatto che le fa comodo nei giorni dell’amore, mentre altri sei o sette le corrono intorno e si azzuffano ferocemente per lei, fino ad ammazzarsi come giorni fa è accaduto: ama il gatto, il formaggio, il pesce, e anche le chiacchiere delle donne. Sta sempre in mezzo a noi, quando ci riuniamo nel giardino, e si sceglie il posto migliore, se non pretende di venire addirittura in grembo.
È la sola che rispetti la roba del giardino: cerca solo qualche filo d’erba misteriosa quando si sente male: e si sente male spesso perchè è continuamente gravida.
Avrà fatto nei suoi parecchi anni di vita un centinaio di figli; eppure è sempre bella.
Ultimamente ho veduto che ha già qualche pelo bianco: e invece di sei gatti ne aveva intorno una diecina.
il fiore della vita.
Ma la vera padrona del giardino e il suo più bel fiore, il cuore stesso del giardino sei tu, Mirella.
E il canto dell’usignolo, l’aprirsi della rosa, il maturarsi del grappolo, il ritorno della primavera e la primavera stessa e tutto il fiorire di tutti i giardini del mondo sono pallide manifestazioni della gioia di Dio, davanti allo sbocciare della tua intelligenza e della tua bellezza nel sole del nostro giardino, Mirella.
Un seme di frumento è venuto a germogliare sotto la quercia nata pur essa da sè: la spiga raggiante, gonfia delle sue piccole cento mammelle si dondola al vento sull’alto stelo glauco, con un movimento di benedizione, inconscia del suo miracolo: forse lei sola può competere con te nella grandezza del mistero che vi muove entrambe, Mirella, nella gioia che destate solo a guardarvi, nella speranza che solo a guardarvi rilucida il nostro spirito arrugginito e gli fa riamare sè stesso, vale a dire Dio.