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198 il flauto nel bosco

pezzo, odiavo la nostra proprietà che avevamo dovuto comperare per forza onde evitare un’altra casa rasente alla nostra, che ci avrebbe rubato l’unico vero bene per il quale si era sacrificato il lavoro di tutta la nostra vita: il sole.

Odiavo quel pezzo di terreno perchè costava così e non produceva nulla: e il giardiniere pretendeva tanto che si doveva ancora lavorare per lui: e metteva tale disordine che quando io scendevo stanca per riposarmi all’ombra dell’unica robinia che si dondolava su le altre piccole piante come il pavone in mezzo ai pulcini, mi toccava di lavorare ancora per raccattare le canne, gli sterpi, le fronde, i sassi buttati qua e là da lui.

Ma venne la guerra, e di giardinieri non si parlò più: erano andati a farsi ammazzare, come qualche cuore crudele loro augurava; e nel dopoguerra quelli tornati felicemente sono disponibili, per le loro pretese, solo per i miliardari.

Avvenne che del giardino la giardiniera diventai io: e il luogo riprese l’aspetto dei borri circostanti: crebbero le canne, e i convolvoli selvatici si avviticchiarono ai cespugli coltivati come le donne di servizio ai loro presunti fidanzati; l’erba rinacque più folta sulla sabbia dei piccoli