Il cedro del Libano/Il signore della pensione
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IL SIGNORE DELLA PENSIONE
Si rassomigliavano solo nella magrezza e nella cattiveria, i due piccoli fratelli, uno rossiccio e lentigginoso, l’altro simile a un malese, panciuto, tatuato dalle frustate e dai graffi paterni, materni e fraterni.
D’altronde la loro vita, dal giugno all’ottobre, un po’ barbara e animalesca lo era di certo: chiusi in un cortiletto recinto da uno stecconato più inflessibile di un muro, dovevano tutto il giorno star lì a ringhiare, lottare, far esplodere in qualche modo la loro prepotente voglia di muoversi, di scavare il tempo. Sul cortiletto davano la cucina e la dispensa della pensione, della quale erano proprietari i loro genitori: quindi, da considerarsi un fatto naturale che i due ragazzi non dovessero inoltrarsi negli ambienti interni, per non disturbare con la loro presenza sgradita e chiassosa i signori villeggianti.
Ma un giorno Romolo disse a Remo:
— In cucina non c’è nessuno e l’uscio della sala da pranzo è aperto: anche lì non c’è nessuno — parlava sottovoce, con accento di mistero, quasi di spavento.
Tanto per fare qualche cosa, il fratello gli diede uno spintone, poi andò ad esplorare per conto suo. Era vero: la cucina, tutta in disordine, puzzava d’aglio soffritto, di caffè, di lisciva: nella grande sala da pranzo, con le persiane socchiuse inghirlandate di roselline rampicanti, tutto invece era lucido e quieto: sulle tavole coperte di doppie tovaglie damascate i vasetti di metallo con gerani freschi parevano candelabri accesi, mentre sulla mensola di mezzo della grande credenza una fila arcuata di bottiglie e bottigliette di liquori dava, per i suoi colori trasparenti, l’idea dell’arcobaleno.
Tutte queste cose, però, interessavano solo fino a un certo punto il bruno Remo, e il rosso Romoletto che lo seguiva silenzioso e guardingo, trattenendo il respiro. Quello che a loro premeva era la vetrata della sala, socchiusa sulla bella veranda che dava sul giardino: la spinsero, quasi senza toccarla, vi sporsero la testa. Pareva un sogno: veranda e giardino deserti: e in fondo al viale d’ingresso, fra due file di ortensie di seta lilla, il cancello rosso socchiuso. Non pareva: era proprio un sogno. Di volo Romoletto sorpassò il fratellino un po’ incerto e fu nella strada bianca e nera di polvere e d’ombre d’alberi: d’impeto Remo lo seguì come un cagnolino ansante e quasi senza accorgersene furono nel vicino bosco: bosco umidiccio e verdone, di secolari castagni, di cui ogni esemplare aveva una famiglia di tronchi mostruosi: nonni, genitori, rampolli, tutti cariati, con buche entro le quali i monelli avevano cacciato pietre, carta sudicia, stracci e varie altre cose. Eppure erano questi ripostigli, più che gli sfondi azzurri del bosco e le vette dei castagni, alcuni dei quali avevano la grandiosa maestà di cupole di cattedrali, che attiravano la curiosità vibrante dei due ragazzi. Ce n’erano tante, e ciascuno poteva a suo agio ficcarci dentro la mano o magari la testa: invece no: appena Romolo cominciò ad esplorarne una, Remo lo respinse, lo sopraffece, si impossessò esclusivamente lui della buca.
— Ti ci caccio dentro la testa, in modo che non potrai levarcela più — disse l’altro, scuotendolo con furore. Subito però si calmarono; poichè nel sentiero si avanzava un uomo vestito di nero, con un berretto a visiera e una grande barba grigia; pareva il padrone del bosco. Essi lo conoscevano bene, ed anche lui li conosceva altrettanto. Era un’antica guardia campestre, adesso in pensione, che non avendo altro da fare continuava per conto suo a ispezionare il castagneto, perseguitando i monelli e le coppie amorose che lo frequentavano.
— Che fate qui? — domandò con voce minacciosa.
— Siamo qui... siamo qui... col permesso della mamma.
— Già, — brontolò il vecchio ricordando, — vi avranno levato di fra i piedi. Ho sentito dire che alla pensione c’è un morto.
Il maggiore dei fratelli spalancò gli occhi; l’altro invece colse la palla al balzo e disse:
— Sì, è morto quel signore grosso e rosso, arrivato avantieri: ha mangiato troppo, perciò tutti sono corsi a vederlo. Allora la mamma ha detto: andate nel bosco, finchè non lo portano via.
— Oh, per questo ci sarà da aspettare un bel po’. Ad ogni modo non vi allontanate di qui: altrimenti l’avrete da fare con me — disse il presunto padrone del bosco.
Ed essi ben si guardarono dal lasciare le vicinanze della buca contesa: ma non più questa li attirava con i suoi segreti umili e neri; altra era adesso la profondità cavernosa alla quale pensavano. D’un tratto ammansiti, anzi liberati della loro protervia, sedettero sull’orlo terroso del sentiero, e Romolo disse:
— Morto? Quel signore che ieri ha mangiato tanto?
Convinto di aver detto la verità l’altro aggiunse qualche particolare.
— Sì, è morto di un male che viene agli uomini grassi, quando mangiano e bevono troppo. Gli si chiude il cuore e non possono più respirare; quel signore ieri ha mangiato tre porzioni di spaghetti, poi l’arrosto, poi tanto formaggio. E brontolava ancora, in modo che la mamma ha questionato col babbo: gli ha detto: «Ma se quello continua così, bisogna fargli pagare il doppio». Il babbo rispose: «E lascia fare; per quello che paga può mangiare anche così». Ma la mamma, sdegnata, diceva: «Già, tu parli sempre in questo modo perchè la pensione non è tua. La pensione è mia, e anche tu ci stai a scrocco, tutto il giorno senza far nulla». Il babbo ha risposto male; si è infuriato, ha battuto i pugni sulla tavola. Anche lui era rosso rosso, come quel signore; e, come fanno spesso, ma con più forza, il babbo e la mamma hanno litigato.
— Morto! — ripeteva l’altro, senza badare troppo alle parole del fratello. — Ma come si fa a morire così? Si chiudono gli occhi, non si respira più. Io non ho mai veduto un morto.
— Si fa così. Si chiudono gli occhi, non si respira più — confermò il fratello: si stese sul terriccio coperto di foglie fracide, chiuse gli occhi, trattenne il respiro. Era pallido, anzi verdognolo, e il fratello lo tirò su, credendolo morto davvero. E stettero fermi, con le ginocchia strette fra le braccia, aspettando con ansia segreta che qualche cosa di nuovo avvenisse. Avevano soprattutto paura del vecchio ex— guardiano: eppure lo aspettavano, poichè l’avevano veduto dirigersi verso la loro casa, e da lui avrebbero appreso altri particolari sul signore morto: e questo signore morto, la cui spoglia avrebbe certo passato la notte nella pensione, destava in entrambi un folle terrore. Durante la notte, anche quando tutta l’allegra gente dell’albergo dormiva tranquilla essi avevano paura dei fantasmi: figurarsi adesso, che c’era un morto vero, sebbene grasso e col ventre pieno.
Di tanto in tanto sospiravano, e più il tempo passava, meno se la sentivano di tornare a casa. E nessuno passava; nessuno a cui aggrapparsi e domandare notizie, pareva che tutti fossero morti, quel giorno: solo essi vivevano, smarriti nel bosco, sul limite del quale s’intravedeva tuttavia il bianco delle case, e fra queste anche la loro. E la mamma che li aspettava, con la canna d’India in mano per accarezzare le loro spalle, e il babbo che sarebbe venuto a cercarli vociando! «Oh, ben venga il babbo!» col suo vociare sempre irato, ben venga pure la mamma, con la canna d’India; tutto era preferibile a quest’attesa paurosa. Sospiravano. E fu un sospiro di sollievo quello che accolse la ricomparsa del vecchio col berretto a visiera. Egli scendeva lento il sentiero: il berretto se lo era tolto, e il suo cranio rosseggiava come un frutto alla luce del tramonto. Arrivato davanti ai due fratelli li fissò come vedesse in loro due figure straordinarie: poi disse sottovoce:
— Andiamo. — E li prese per mano, li ricondusse alla loro casa. Là essi ebbero la spiegazione di tutte quelle cose strane: poichè il morto era il loro babbo.