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Si rassomigliavano solo nella magrezza e nella cattiveria, i due piccoli fratelli, uno rossiccio e lentigginoso, l’altro simile a un malese, panciuto, tatuato dalle frustate e dai graffi paterni, materni e fraterni.

D’altronde la loro vita, dal giugno all’ottobre, un po’ barbara e animalesca lo era di certo: chiusi in un cortiletto recinto da uno stecconato più inflessibile di un muro, dovevano tutto il giorno star lì a ringhiare, lottare, far esplodere in qualche modo la loro prepotente voglia di muoversi, di scavare il tempo. Sul cortiletto davano la cucina e la dispensa della pensione, della quale erano proprietari i loro genitori: quindi, da considerarsi un fatto naturale che i due ragazzi non dovessero inoltrarsi negli ambienti interni, per non disturbare con la loro presenza sgradita e chiassosa i signori villeggianti.

Ma un giorno Romolo disse a Remo:

— In cucina non c’è nessuno e l’uscio della sala da pranzo è aperto: anche lì non c’è nessuno — parlava sottovoce, con accento di mistero, quasi di spavento.

Tanto per fare qualche cosa, il fratello gli diede uno spintone, poi andò ad esplorare per


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