Il capitano della Djumna/Parte seconda/7. Fra le foreste della Piccola Andamana

../6. La funesta ombra del manzanillo

../8. Fra la marea ed i selvaggi IncludiIntestazione 17 dicembre 2016 75% Da definire

Parte seconda - 6. La funesta ombra del manzanillo Parte seconda - 8. Fra la marea ed i selvaggi

7. FRA LE FORESTE DELLA PICCOLA ANDAMANA


Per quattro giorni i naufraghi della Djumna proseguirono il loro cammino, ma facendo pochissima strada in causa delle grandi curve che descriveva la spiaggia e degli ostacoli che incontravano sul loro passaggio, essendo sovente costretti ad aprirsi il passo fra i vegetali, adoperando la scure. Il quinto giorno, avendo esaurite le loro scarse provviste, decisero di arrestarsi per cercare delle nuove provvigioni. Gli alberi che fino allora avevano veduti, non avevano frutta, ma nell'interno della foresta speravano di trovarne, sapendo che la flora delle isole Andamane non è molto diversa da quella della vicina India.

Dopo d'aver rizzato un ricovero con alcuni bastoni e poche foglie di mecche, preceduti dal cane, si avventurarono nella oscura e umida foresta, aprendosi penosamente il passo fra quel caos di vegetali e aprendo per bene gli occhi per non venire sorpresi da qualche tigre che poteva tenersi in agguato. Prima però di mettere i piedi innanzi, frugavano le erbe e le foglie secche coi bastoni, per fugare i rettili. Avevano già veduto qualche minute-snake o serpente del minuto, uno dei più piccoli della specie, non giungendo ai venti centimetri di lunghezza, con un diametro di tre o quattro millimetri, colla pelle nera a macchie giallastre, ma uno dei più terribili, poiché in novantasei secondi uccide l'uomo più robusto.

Anche alcuni biscobra erano stati veduti fuggire sotto le foglie secche. Quelle grosse lucertole, d'aspetto orribile, irte di punte, colla lingua divisa in due dardi cornei, non sono meno da temersi dei più pericolosi serpenti, anzi sono forse più potenti, emettendo un veleno attivissimo, senza rimedio. Mentre sulla sponda del mare regnava un silenzio quasi assoluto, sotto quella foresta satura di umidità, infetta di quei miasmi pericolosi che producono le febbri dei boschi, si udivano mille rumori. Insetti che stridevano, fischi lamentevoli, urla lontane, cicalecci, ronzìi acuti.

Fra le erbe si vedevano correre a centinaia, a battaglioni, quelle formiche bianche chiamate termiti fatali o caria, un po' più grosse delle nostre, col corpo biancastro e la testa gialla, ma armate di tenaglie d'una robustezza incredibile. Nulla può resistere alle mandibole quasi invisibili di quei piccoli esseri. Riducono in brandelli i panni, i cuoi più spessi; trapanano e polverizzano i legni più resistenti, forano i muri delle case scavandosi delle gallerie tortuose del diametro d'un porta-penne, distruggono o indeboliscono le travature mettendo in pericolo le costruzioni più robuste e sbriciolano perfino le ossa! Poi erano scolopendre o centogambe, ma di dimensioni esagerate, che fuggivano nascondendosi in mezzo ai cespugli. Questi insetti, così numerosi in tutta l'India e nelle isole vicine, sono di un colore rossastro, col dorso coperto di squame ed il ventre biancastro e sono lunghi talvolta parecchi pollici: i due naufraghi si guardavano bene dalle loro mille punte che sono velenose come i morsi degli scorpioni.

Talora invece erano grossi ragni vellutati, non meno pericolosi, che intessevano delle ragnatele così robuste da imprigionare i piccoli volatili o degli scorpioni di tutte le specie e di tutti i colori che Sciapal s'affrettava a fugare o ad accoppare con un buon colpo di bastone.

I volatili non mancano in mezzo agli alti rami di quegli alberi. Si vedevano numerosi corvi appollaiati sulle cime dei dammar, dei bozzagri, dei nibbi, dei pappagalli che cicalavano a piena gola, delle tortorelle colle penne bianche che lanciavano deboli grida, dei grossi piccioni colle penne variopinte e di tratto in tratto delle Joscie Mippine, ritte sull'orlo dei loro nidi barcollanti, in forma di bottiglia, meravigliosamente intrecciati con una specie di cotone e con pagliuzze e sospesi ai rami con un filo leggero.

Alì e il malabaro avevano percorso cinque o seicento metri, quando il cane si arrestò, facendo udire un sordo brontolìo.

— Qualche animale? — chiese Alì, armando precipitosamente una pistola.

— Ora lo sapremo — disse il malabaro.

Scostò con precauzione i rami che gl'impedivano di vedere più oltre, ma subito si ritrasse mormorando con voce rotta:

— Un malapàmba, padrone!

— Cos'è questo malapàmba? — chiese Alì.

— Uno di quegli enormi serpenti che si trovano anche nelle foreste del mio paese.

— Sono pericolosi quei rettili?

— Non sono velenosi, ma si dice che stritolano le persone fra le loro spire.

— Vediamo, Sciapal.

Alì allontanò i rami e ai piedi di un manghiero vide un serpente così lungo, che mai ne aveva veduto uno simile nel Bengala. Misurava venti piedi ossia più di sei metri, con una circonferenza di cinque palmi e la sua pelle era coperta di scaglie verdastre con delle chiazze oscure.

L'enorme rettile stava assorbendo un cane selvaggio, una specie di sciacallo col pelame corto, bruno fulvo e la coda rosa, grosso quasi quanto un lupo, e che di certo aveva sorpreso durante la notte. Ne aveva ingoiato già mezzo e si sforzava di mandar giù anche il rimanente, dilatando più che poteva la sua bocca.

Questi serpenti, al pari dei tornili venganaa, che sono pure lunghi dai quindici ai venti piedi, e che si trovano numerosi nella bassa India, specialmente nel Malabar, sono capaci d'inghiottire delle prede dieci volte più grosse di loro, tanta è la elasticità del loro stomaco.

Si sono veduti alcuni assorbire, è la parola, poiché non possono masticare le prede, perfino dei piccoli vitelli interi.

— Non meriterebbe la pena di assalirlo, ma quel serpente è sdraiato ai piedi di quel manghiero ed io non lascerò quelle frutta che sono giunte a perfetta maturanza — disse Alì. — Dammi la tua scure, Sciapal.

— Non ucciderlo, padrone — disse l'indiano. — Può avvolgerti fra le sue spire e stritolarti.

— Non sarà tanto agile con quella carogna che sta assorbendo.

Prese la scure e balzò addosso al rettile. Questi, disturbato nella sua laboriosa digestione, s'alzò saettando sul coraggioso marinaio due sguardi che mandavano fiamme e arrotolando rapidamente la coda, ma imbarazzato dal cane che non poteva né rigettare, né ingoiare in un solo colpo, non era più da temere.

Alì, niente spaventato dai sibili acuti che mandava l'avversario, con due colpi d'accetta lo distese al suolo senza vita, mozzo in tre parti.

— Vattene al diavolo! — esclamò il capitano, asciugando la lama della scure sull'erba. — Aiutami a fare la raccolta, Sciapal.

L'albero sotto cui giaceva il rettile, era carico di quelle deliziose frutta chiamate dagli indiani ham, lunghe tre o quattro pollici, di forma ovale, con una buccia verdognola e dura, contenente una polpa giallo dorata d'un sapore aromatico squisitissimo e avvolgente un grosso nocciuolo.

Quando sono poco mature, hanno un odore acuto di terebentina e mangiandole producono delle eruzioni cutanee e delle febbri perniciose, ma quando sono giunte a maturanza perfetta sono buonissime e salubri. Si mangiano crude o secche, ma di solito gl'indiani le mescolano al carri, condimento largamente usato in tutta la penisola indostana, composto di carne o di pesci cucinati con erbe, aromi, polpa di tamarindi ed altri ingredienti. Alì e l'indiano fecero un'ampia raccolta di quelle frutta che fino ad un certo punto potevano surrogare il pane, poi continuarono ad internarsi nella foresta, volendo abbattere qualche capo di selvaggina o qualche grosso volatile, prima di ritornare alla spiaggia.

Quella parte della boscaglia pareva invece che non fosse frequentata da nessun animale e nemmeno dagli uccelli.

Per quanto Alì e Sciapal tendessero di frequente gli orecchi, non udivano alcun rumore fra i folti cespugli, né alcun canto sulle cime degli alberi. E poi Pandu, se si fosse accorto della presenza di qualche nilgò, quei graziosi cervi che ordinariamente abbondano nelle foreste dell'India e anche in quelle delle isole del golfo del Bengala, o della vicinanza di qualche belva, non avrebbe tardato a segnalarli. procedeva tranquillo, annusando invano il terreno per cercare qualche traccia.

Cominciavano già a disperare e stavano per far ritorno verso la costa, quando ad un tratto Pandu si fermò di colpo, piantandosi sulle rampe e tendendo il collo.

— Il mio bravo cane ha udito qualche cosa — disse Alì, impugnando le pistole.

— Che abbia fiutata la pista di qualche buon capo di selvaggina? — chiese Sciapal, con un po' d'inquietudine. — In queste foreste tutto si deve aspettare, anche dei terribili incontri.

— Zitto — disse Alì.

Pandu ascoltava sempre, conservando una immobilità assoluta. Stette così qualche minuto, poi si volse verso il padrone agitando la coda e mandando un ringhio appena percettibile. Alì lo accarezzò, dicendo a Sciapal:

— Se Pandu non osa slanciarsi e non abbaia vuol dire che non si tratta di selvaggina. Conosco bene il mio cane. È coraggioso ma anche prudente e non espone mai il suo padrone ad un pericolo.

— Che cosa avrà sentito?

— Se potesse parlare ce lo avrebbe già detto. Dobbiamo indovinarlo noi.

— Padrone — disse Sciapal, sorpreso dalla strana condotta del cane, che conosceva temerario. — Che abbia sentito l'accostarsi di selvaggi?

— È quello che pensavo anch'io — rispose Alì. — Sciapal, battiamo in ritirata; mi trovo più al sicuro presso la costa, dove potremo trovare dei rifugi fra le scogliere, piuttosto che qui dove è facile tenderci una imboscata o colpirci a tradimento con una volata di frecce.

— Sì e presto, padrone — rispose l'indiano. — Pandu comincia a dar segni d'inquetudine.

Difatti l'intelligente animale non si mostrava più tranquillo. Fiutava l'aria a sinistra e a destra, poi girava bruscamente su se stesso e ascoltava colla testa abbassata alzando gli orecchi, quindi si slanciava verso il padrone e cercava di afferrargli la mano come per invitarlo a fuggire.

Alì, ormai convinto che si aggirasse nella foresta qualche banda di selvaggi, coi quali non aveva nessun desiderio di fare la conoscenza, si mise in cammino verso la costa.

Pandu li precedeva segnandogli la via e non vi era pericolo che quell'animale non ritrovasse la pista.

Si affrettava, correndo innanzi, poi tornava verso il padrone, guardandolo con quei suoi occhi che avevano qualche cosa di umano e pareva che volesse dirgli:

— Più presto! Più presto!

L'anglo-indiano e Sciapal avrebbero ben desiderato raddoppiare il passo, ma non osavano per paura di attirare l'attenzione dei selvaggi. E poi la foresta era sempre foltissima ed erano costretti sovente a scivolare sotto i cespugli per non urtare i rami.

Avevano percorso già qualche mezzo chilometro, guardandosi sempre alle spalle, per paura di vedersi piombare addosso i selvaggi, quando Sciapal, che aveva l'udito finissimo, si arrestò, dicendo:

— Fermatevi qui sotto, padrone. Il cespuglio è folto e ci copre per bene.

— Chi hai veduto?

— Nessuno, invece ho udito.

— I selvaggi a marciare?

— Ascolta: essi camminano parallelamente a noi.

Alì accostò un orecchio al suolo e si mise in ascolto, trattenendo il respiro. Pandu che, come dicemmo, li precedeva, vedendo il padrone fermarsi, era tornato sollecitamente indietro e gli si era accovacciato presso. Un rumore vago, che pareva prodotto dalla marcia di parecchie persone, giungeva all'orecchio dell'anglo-indiano.

Sciapal invece distingueva il fruscio delle foglie, lo scricchiolìo dei rami ed il lieve scrosciare dei detriti vegetali ormai secchi.

— Hai udito, padrone? — chiese l'indiano vedendolo rialzarsi.

— Sì — rispose Alì. — Degli uomini si avanzano attraverso la foresta.

— Che ci abbiano scoperti?

— Udiamo ancora.

Tornò ad appoggiarsi al suolo, ma più nessun rumore giungeva ai suoi orecchi.

— Brutto segno — mormorò. — Se si sono fermati, vuol dire che si sono accorti che noi abbiamo sospesa la nostra marcia.

— Più nulla, è vero, padrone? — chiese Sciapal.

— Più nessun rumore — disse Alì. — Vorrei sapere se sono vicini o lontani e se è noi che seguono.

— Non ne dubito.

— Pur troppo anch'io sospetto che seguano le nostre tracce. Che vengano a cercarci?

— Lo sapremo a tempo — disse Sciapal, che si era alzato vivamente.

— In quale modo? — chiese Alì.

— Guardate quell'albero che sta di fronte a noi. Non vedete dei quadrumani fra le foglie?

Alì scostò adagio adagio i rami e guardò nella direzione indicata dall'indiano. Su un albero, che superava di parecchi metri i cespugli vicini, Alì scorse distintamente una coppia di scimmie non più grosse degli scoiattoli, gracilissime, mentre la testa l'avevano grossa e bruttissima, traforata da due occhi grandissimi quasi gialli, simili a quelli delle civette e che spiccavano maggiormente in causa di due cerchi brunastri.

Riconobbe subito in quelle due piccole e bruttissime scimmie, due lori gracili, chiamati dagl'indiani tevanga, animali assolutamente innocui, d'abitudini piuttosto notturne e d'una sospettosità estrema, perché perseguitati accanitamente da tutti gli abitanti dell'India e anche dagl'isolani e non già per le loro carni che sono pessime, ma per i loro grandi occhi, onde impedire che gli stregoni se ne servano per fare dei filtri.

È perciò che quegl'inoffensivi quadrumani vengono cacciati rabbiosamente, tenendoli poscia sul fuoco finché i loro occhi scoppino.

— Che cosa c'entrano quei tevanga coi selvaggi che ci danno la caccia? — chiese Alì, non poco sorpreso.

— Non vedete come sono tranquilli?

— Infatti non si muovono.

— Se i selvaggi si accostassero, fuggirebbero, padrone. Finché rimangono lassù non abbiamo nulla da temere.

— Ebbene, Sciapal, in tale caso non siamo fortunati. Si sono accorti dell'avvicinarsi di persone dalle quali hanno tutto da temere e si preparano a mettersi in salvo.

I due lori che pareva sonnecchiassero, si erano bruscamente rialzati sulle loro esili gambette, arrampicandosi lestamente su uno dei più grossi rami. Furono veduti arrestarsi un momento presso un crepaccio del tronco poi scomparire.

— Che cosa ne dici, Sciapal? — chiese Alì.

— Che sarebbe meglio riprendere la nostra marcia.

— E tale è anche la mia intenzione — rispose Alì. — Alla spiaggia, Sciapal, e di corsa. Non abbandonare la scure.

Si alzarono, balzarono fuor dal cespuglio e si misero a fuggire a tutte gambe.

Non avevano percorsi cinquanta passi che si udirono echeggiare delle grida selvagge.

Alì si volse e vide una dozzina di negri, bruttissimi, che balzavano fra le piante coll'agilità di kanguri e che agitavano forsennatamente delle lunghe aste, che dovevano essere delle lance e dei nodosi bastoni, che dovevano essere mazze.

Qualcuno aveva anche l'arco.

— Gambe! Gambe! — gridò a Sciapal.

Correvano a tutta lena, preceduti da Pandu, il quale indicava sempre loro la via, ciò che sarebbe stato impossibile scoprire, non avendo avuta la precauzione di far nessun segno sulle piante.

Quando li sopravanzava troppo, Pandu tornava velocemente indietro e tentava di scagliarsi contro i selvaggi, abbaiando a piena gola e mostrando i suoi acuti denti.

Vedendo quel cagnaccio tutto nero e che forse essi scambiavano per qualche pericolosa belva, essendo la razza canina affatto sconosciuta alle Andamane, i selvaggi rallentavano la corsa e diventavano più prudenti. Alì e Sciapal tosto approffittavano di quelle fermate dei selvaggi, per guadagnare nuovamente via.

Già cominciavano a perdere il respiro, quando videro apparire fra le piante la scintillante superficie del mare.

— Non ne poteva più — disse Alì, con voce rotta. — Per un po' che questa corsa fosse durata, sarei caduto completamente esausto.

— Dove ci rifugeremo padrone? — chiese Sciapal.

— Fra le scogliere. Colà ci difenderemo meglio.

Con un ultimo sforzo raggiunsero il margine del bosco, scesero a precipizio la riva e si gettarono fra gli scogli, balzando fra i canali ed i canaletti che l'alta marea cominciava a coprire.

— Là, su quello che è il più alto — disse Alì, indicando una rupe che sorgeva a tre o quattrocento metri dalla spiaggia. — Un ultimo sforzo, Sciapal!

Passarono sopra un banco di sabbia e s'inerpicarono su per lo scoglio, raggiungendo la cima, dove già Pandu abbaiava festosamente.