Il capitano della Djumna/Parte seconda/5. Le oche emigranti

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5. LE OCHE EMIGRANTI


Quantunque, come aveva detto Sciapal, l'emigrazione dovesse essere cominciata già da alcune settimane, le oche erano ancora numerose su quella spiaggia deserta.

Si vedevano alzarsi in grandi bande fra i paletuvieri, volando pesantemente al di sopra delle scogliere, mostrando ai primi raggi del sole le loro candide penne, le loro ali orlate di nero ed i loro ciuffi situati sulla testa. Le loro grida rauche e discordi, risuonavano dappertutto.

Alì, che aveva caricate le pistole colla sabbia e Sciapal, scesa la sponda, si erano appiattati fra gli scogli e aspettavano il momento propizio per fare un buon doppio colpo. Pareva però che le oche avessero fiutato un insolito pericolo, poiché o si tenevano lontane o passavano sopra di loro, fuori di portata.

Ad un tratto però, uno stormo di due o trecento volatili, che si avanzava dall'est, prese la direzione degli scogli come se volesse cercare della pastura in vicinanza della spiaggia.

— Attento, padrone — mormorò Sciapal. — Vengono verso di noi e sono basse assai.

— Sono pronto — rispose Alì.

Lo stormo in breve si trovò sopra gli scogli, filando proprio sopra le teste dei naufraghi, a soli dieci passi d'altezza. Alì, puntate rapidamente le armi, le scaricò nel più folto della banda. Tre oche caddero perdendo gran numero di penne, mentre le loro compagne, spaventate da quelle detonazioni, si disperdevano mandando rauche grida.

Sciapal si era precipitato sulle prede. Un'oca, colpita alla testa da qualche granello di sabbia più grosso, era agonizzante, ma le altre due erano solamente stordite e un po' spennacchiate.

— Padrone! — esclamò. — Ve ne sono due vive!

— Bada che non ti fuggano.

— Sto legando le loro zampe.

Mentre l'indiano le imprigionava, Alì aveva sciolto un pezzo di tela cerata che racchiudeva le sue carte di bordo, cercandovi dentro qualche cosa, ma ad un tratto impallidì e lanciò una sorda imprecazione. Si mise a frugarsi le tasche, o palpeggiare le fodere della giacca, ma senza alcun frutto.

— Perduta! — mormorò, coi denti stretti.

— Cosa cerchi, padrone? — chiese Sciapal, che lo guardava.

— Una matita che avevo messa fra le carte di bordo.

— Cosa volevi farne?

— Ma non hai compreso adunque, a che cosa dovevano servirmi le oche?

— No, padrone.

— A recare in India la notizia del nostro naufragio.

— Ma... io ho la testa dura e non ti capisco.

— Io volevo affidare a queste due oche un documento, colla speranza che qualche cacciatore le uccidesse, cosa non forse improbabile, ammazzandosene annualmente, soprattutto nelle Sunderbunds, delle migliaia. Il cacciatore, trovando quelle note, non avrebbe di certo indugiato a recarle alle autorità inglesi. Altri naufraghi, servendosi di altri uccelli emigranti, sono pure riusciti a far giungere loro notizie in paesi molto più lontani.

— Ed ora non puoi attaccare una carta a questi volatili?

— Se ho perduto la matita non posso scrivere e...

— Che cosa? — chiese Sciapal, vedendo Alì battersi improvvisamente la fronte ed arrestarsi.

— No, Sciapal, tutto non è perduto.

— Cosa vuoi dire, padrone?

— Fra le carte di bordo ho i documenti necessari. Credendomi ormai perduto, avevo scritto giorno per giorno, tutto ciò che era accaduto, sperando che qualcuno abbordasse la grab e mi vendicasse.

Aprì rapidamente il giornale di bordo e levò cinque foglietti, tre dei quali parevano pezzi di pagine strappate, ma coperti di una calligrafia fitta, gli istessi che un mese dopo dovevano cadere nelle mani del tenente Oliviero Powell e del vecchio Harry.

— Ecco le mie note — disse, mostrandole a Sciapal. — Non mancano né le date, né la mia firma, né tutto ciò che può costituire una terribile accusa contro quelle canaglie di Garrovi e di Hungse. Ah!... Se potessi aggiungere che la Djumna è andata a picco e che io, assieme a te, mi sono salvato sulla costa della Piccola Andamana!...

— Non lo avevi scritto? — chiese ingenuamente Sciapal.

— Come volevi che io sapessi che avrei riacquistata la libertà? Queste note si arrestano al 20 agosto, anzi l'ultimo periodo è spezzato, poiché nel momento che stavo ultimandolo, ho udito il tuo passo e mi sono bruscamente arrestato. Guarda, la scrittura finisce qui: «Il mio cane non urla più. Ha guadagnato la terra od è morto? Eppure io...» Però sotto l'ultimo foglio, per precauzione, avevo già fatta la mia firma, temendo che qualche avvenimento improvviso potesse impedirmelo.

— Affidiamo egualmente, a una di queste oche, i tuoi foglietti.

— È quello che farò, Sciapal.

— Ma l'oca, tuffandosi in mare per prendere i granchiolini o per impadronirsi delle erbe acquatiche, non guasterà i documenti?

— Li ripareremo per bene colla tela cerata.

— Che poi spalmeremo di gomma — disse Sciapal, che guardava gli alberi della costa. — Vedo là delle piante gommifere che ci daranno una specie di resina, facendo una incisione sul tronco.

— Va' a raccoglierne un po' in un guscio d'ostrica.

Mentre l'indiano risaliva la costa, Alì aveva ripiegati in quattro i foglietti, poi tagliò un pezzo di tela cerata e li mise dentro, legando e rilegando il pacchetto con un pezzo di cordicella.

Aveva già scelto l'oca più robusta, quando Sciapal ritornò. Portava una conchiglia ripiena di materia attaccaticcia, resinosa e una fibra vegetale, sottile, solida e lucente come la seta.

— Lega il pacchetto con questa fibra — disse ad Alì. — Resiste all'acqua molto più delle corde di canapa.

Coprirono la tela d'uno strato di quella materia resinosa, poi legarono il pacchetto sotto l'ala destra dell'oca scelta, assicurandolo in modo che il volatile non potesse perderlo.

— Va' ora al tuo destino e possa tu, colla tua morte salvarci — disse Alì.

L'oca, sentendosi libera, s'innalzò rumorosamente gettando un grido rauco e volò verso l'est, radendo la superficie del mare. I due naufraghi, che parevano assai commossi, la seguirono cogli sguardi, finché si perdette sul luminoso orizzonte.

— Speri, padrone? — chiese Sciapal.

— Penso che se Dio ci ha salvati, veglierà ancora su di noi.

— Credo che anche il mio Dio non abbandonerà uno dei suoi più devoti credenti — disse l'indiano. — Sono in due: speriamo che facciano più d'uno solo.

Alì non potè frenare un sorriso, alla riflessione del fervente seguace di Siva.

— Andiamo a far colazione, Sciapal — disse. — Arrostiremo una di queste oche.

— Ne ho bisogno, padrone. Son sfinito dal lungo digiuno e per la perdita del sangue.

Risalirono la spiaggia e sedutisi all'ombra di un dammar, dal cui tronco poco prima Sciapal aveva estratta la resina, accesero un allegro fuoco, avendo portato con loro l'acciarino e dell'esca.

Spennacchiarono rapidamente l'oca, la sventrarono e infilatala in un ramo strappato ad un albero del ferro, così chiamato per l'estrema durezza del suo legno, la misero ad arrostire sui carboni.

Mentre l'indiano si occupava a girare e rigirare l'arrosto, Alì si era messo a percorrere il margine di quella foresta immensa, per vedere se vi erano delle frutta da raccogliere.

Enormi gruppi d'alberi crescevano gli uni accanto agli altri, lasciando radi passaggi, ma non erano fruttiferi. Si vedevano macchioni di taipot, delle cui foglie gl'indiani si servono per fare dei bellissimi e artistici ventagli; di palme zuccherine, di borassi flabelliformi, di betel, di sandalo rosso dal dolce profumo, di nagassi o alberi del ferro e di palme d'ogni specie, ma tutte selvatiche.

Abbondavano invece i fiori in mezzo a quei boschi, spandendo all'intorno acuti profumi. Si vedevano dei gruppi di mussende frondose cariche di corolle purpuree ricoperte da grandi foglie bianche, di sidrimani, che si aprono alle quattro del mattino e che si rinchiudono nel pomeriggio alla stessa ora, con una esattezza cronometrica; e parecchie di quelle piante chiamate melanconiche, perché invece si aprono alla sera e si rinchiudono all'alba.

Girando e rigirando, Alì potè finalmente scoprire un giacchiero, albero che non ha le frutta sospese ai rami come nelle nostre piante. Il frutto, che è così grande da bastare per sei od otto persone, pesando ordinariamente trenta libbre, esce direttamente dal tronco. È d'un bel colore giallo dorato e d'una fragranza così acuta, che nelle case dove viene mangiato, l'odore si conserva parecchi giorni dopo.

Alì lo staccò, se lo caricò sulle spalle e ritornò al campo nel momento in cui il malabaro stava levando dal fuoco l'arrosto.

Essendo assai affamati, fecero molto onore al pasto, poi si distesero sulla fresca erba, all'ombra dell'albero.

— Ora discorriamo — disse Alì. — Mentre andavo in cerca di frutta, pensavo alla nostra situazione e al miglior modo di uscirne.

— E l'hai trovato questo mezzo, padrone? Si tratta forse di scavare una scialuppa?

— Con una scure così piccola sarebbe un lavoro lunghissimo e quasi impossibile. Credo che sarebbe migliore partito risalire la costa verso il nord, quella orientale od occidentale e cercarcelo un canotto.

— Cercarlo! Ma dove?

— Gli andamani ne posseggono, essendo i costieri tutti bravi pescatori.

— Speri di trovare qualche villaggio?

— Sì, Sciapal.

— E ce lo cederanno un canotto?

— Ce lo prenderemo noi, approfittando di qualche notte oscura.

— E dove andremo poi?

— Cercheremo di giungere alle isole Mergui nel golfo del Pegù.

— Ma... e il documento affidato all'oca?

— Non dobbiamo contare esclusivamente su quel volatile, Sciapal. Se non venisse ucciso, a cosa ci gioverebbe?

— È vero, padrone.

— E poi, invece di percorrere le coste orientali ci terremo su quelle occidentali, così potremo vedere se una nave approda per cercarci.

— Quando partiremo?

— Sei stanco?

— No, padrone, ma farei volentieri una dormita d'un paio d'ore.

— Allora chiudiamo gli occhi e schiacciamo un sonnellino. Di giorno le fiere non lasciano i loro covi e nessuno ci disturberà.

Rassicurati dal silenzio che regnava nei vicini boschi e invitati dal monotono gorgoglio delle onde che venivano a morire fra le scogliere, non tardarono ad addormentarsi.

Quel sonno si prolungò più di quanto avevano stabilito, poiché quando riaprirono gli occhi, il sole scendeva lentamente verso occidente. Essendovi però ancora parecchie ore di luce, decisero di porsi egualmente in cammino. Raccolsero i loro viveri, si armarono d'un grosso bastone per difendersi contro i serpenti che non dovevano mancare in quell'isola boscosa e si misero in marcia, costeggiando le immense boscaglie.

Gli alberi si succedevano agli alberi, senza lasciare passaggi verso l'interno dell'isola. Primeggiavano soprattutto i tek, alberi grandissimi, frondosi, colla corteccia assai resistente e di color bigio, colle foglie poste l'una dirimpetto all'altra, aguzze, argentee sotto e punteggiate di bianco sopra e carichi di gruppi di fiori bianchi in forma di pannocchie.

Questi colossi sono ricercatissimi, essendo il loro legno quasi incorruttibile e perciò adoperato nella costruzione dei vascelli.

La loro ombra è però nocevole e gli operai incaricati del taglio di quelle piante soffrono assai, e di rado raggiungono una età avanzata. Abbondavano pure gli alberi della cannella o cinnamomi, piante di altezza mediocre, ricche di rami, colla corteccia color grigio oscuro, le foglie lunghe, d'una bella tinta verde sopra e più pallida sotto e carichi di certe frutta carnose in forma di olive, di un colore azzurrastro picchiettato di bianco. È dalla scorza di queste piante che si estrae la cannella. Non mancavano anche varie piante che sarebbero state utilissime in altre regioni, ma che non dovevano essere di alcun giovamento ai selvaggi abitanti di quell'isola. In mezzo a quel caos di vegetali si vedevano apparire gruppi di justicia tinctoria dalle cui piante si ricava una bella tintura verde assai adoperata in India; dei rayoc che producono un color giallo assai ricercato; dei lausonia spinosa che danno il legno rosso e grandi macchioni di poan dalle cui frutta si ricava l'olio.

In mezzo a quei fitti vegetali, si vedevano apparire molti uccelli. Dei pappagalli dalle penne variopinte, dei chiurli, una specie di cuculi che emettevano delle grida melanconiche, delle grosse civette cogli occhioni giallastri che guardavano stupidamente i due naufraghi e stormi di quei piccoli rosignuoli chiamati bubul, molto leggiadri, colle penne picchiettate e la coda rossa, con un ciuffo di piume mobili sul capo che da loro un'aria galante. Si vedevano lottare fra di loro, cercando di colpirsi col becco e colle zampine, essendo assai battaglieri. Molto spesso non cessano la lotta se uno o l'altro degli avversari non soccombe.

Alì e Sciapal continuarono la loro marcia, senza però affrettarsi e muovendo prima coi bastoni le alte erbe, per tema di venire morsicati dai serpenti che potevano tenersi celati sotto le foglie secche degli alberi. Il sole era tramontato quando decisero di accamparsi sotto un grande albero, d'aspetto maestoso, che cresceva isolato sul margine della foresta e presso il quale scorreva un rivoletto d'acqua dolce.

Divorarono gli avanzi dell'oca arrostita al mattino, poi accesero un fuoco per difendersi dagli animali selvaggi, sapendo già per prova che non osano avvicinarsi ad un accampamento illuminato.

Non essendo però prudente addormentarsi tutti e due potendo il fuoco spegnersi, Alì s'incaricò di vegliare le prime quattro ore. Sciapal, che era meno robusto e più sfinito in causa del sangue perduto, doveva surrogarlo dopo la mezzanotte.