Il capitano della Djumna/Parte seconda/4. Le isole Andamane

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4. LE ISOLE ANDAMANE


Le Andamane sono un gruppo d'isole situate in mezzo al vasto golfo del Bengala, più vicine alle Birmania che all'India, essendo situate fra il quattordicesimo grado di latitudine settentrionale e l'ottantaduesimo e l'ottantatreesimo grado di longitudine. Il loro numero è considerevole, ma solamente sei hanno una superficie notevole e la maggiore è quella chiamata la Grande Andamana, la quale ha una lunghezza di trenta leghe e una larghezza media di otto: baie moltissime, montagne alte e boscaglie immense.

Quantunque queste isole siano così prossime all'India, la cui civiltà è antichissima, molto più di quella europea; e quantunque siano situate in un golfo così percorso da un infinito numero di navi appartenenti a tutte le nazioni del mondo, cosa strana, inesplicabile, si può dire che anche oggidì ben poco si sa intorno a quelle terre e sui loro abitanti.

Perfino gl'inglesi, padroni di quei mari e delle terre vicine, non se ne sono quasi mai occupati e quantunque si vantino possessori di quelle isole, non vi tengono alcuna guarnigione. È pero vero che molti anni or sono, nel 1789, occuparono una delle più piccole, fondando una colonia penale a Port-Blair, ma tre anni dopo, decimati dal clima assolutamente micidiale agli europei, l'abbandonarono per farvi ritorno alcuni anni dopo fondando Port-Corwall, ma che più tardi pure abbandonarono.1

Sembra che queste isole, al pari di quelle di Nicobar che si trovano più al sud, siano le sommità di una catena di monti sottomarini, i quali dipartendosi dalla costa settentrionale di Sumatra terminano nelle vicinanze del capo Negrais situato nel Pegù.

Appunto per questo sono tutte montagnose, specialmente la Grande Andamana che ha un monte alto 2400 piedi chiamato Picco della Sella. Qualcuna, come quella di Basser, che è situata a circa quindici leghe del gruppo principale, ha dei vulcani i quali lanciano ad una enorme distanza dei massi del peso di ben cento quintali.

Quelle montagne però, sono fatali a quelle terre, perché essendo esse situate in quella parte dell'Oceano Indiano ove domina con maggior violenza il monsone del sud-est, arrestano le nubi, sicché otto mesi dell'anno sono inondate da continue piogge.

Quell'abbondanza eccessiva d'acqua che si raccoglie nelle immense e folte foreste di quelle isole, rende il soggiorno ben triste e anche micidiale. Quell'umidità costante cagiona febbri terribili, le così dette febbri de' boschi, contro le quali nulla può, nemmeno il chinino.

Se gli europei non possono reggere e se perfino gl'isolani ne soffrono, ne avvantaggia la flora la quale si sviluppa straordinariamente. Dalle spiagge alle vette più alte, i boschi si succedono: i fichi dell'India, i mandorli, gli alberi che danno l'olio, gli alberi del ferro, i dammar che producono la resina, i bambù giganti, i legni rossi, gli ebani, i suduo che danno un ottimo legname da costruzione, i koutch che producono la così detta terra giapponica, i manghieri ecc. vi sono a milioni. Cosa curiosa però: i cocchi, che sono così abbondanti in tutte le isole indiane, sono invece rarissimi alle Andamane. Tre o quattromila individui abitano quelle terre che potrebbero contenerne comodamente quattrocentomila. Non hanno centri: vivono come i veri selvaggi in fondo ai loro tetri e umidi boschi o alle estremità delle loro baie, cacciando gli animali colle lance e colle frecce o pescando con delle piccole reti. Non avendo abitazioni, poiché si accontentano d'un riparo qualunque, errano a capriccio conducendo con loro le famiglie, alle quali però assai ci tengono e che proteggono con selvaggio furore contro qualunque attentato. Sembra che non isdegnino, quando si presenta l'occasione, la carne umana, ma non fu mai accertato ciò.

Questi indigeni che conducono la vita degli animali delle foreste, hanno forse una sola virtù: il sentimento dell'indipendenza. È per questo che sono insocievoli e sospettosi, che fanno cattiva accoglienza agli stranieri che osano sbarcare sulle loro spiagge. Se poi si accorgono che si attenta alla loro libertà, accorrono tutti in difesa delle loro terre, combattendo con una ferocia senza pari. Gli andamani sono senza dubbio gli uomini più piccoli della regione asiatica, poiché gli uomini in generale non superano un metro e quaranta centimetri d'altezza e le donne giungono appena ad un metro e trentadue centimetri; sono però proporzionati.

Hanno la testa piccola e rotonda, collo corto ma grosso, corpo robusto, ma le spalle poco larghe, ventre piuttosto protuberante, fronte alta, fisonomia bestiale e stupida. I loro occhi sono piccoli, il naso pure piccolo e non depresso, le labbra grosse e la loro pelle è bruno-oscura come quella dei cafri. Sono tutti bravi pescatori e abilissimi cacciatori, ma anche grandi divoratori, quando si presenta l'occasione. Ma sembra però che siano anche in grado di sopportare dei lunghi digiuni senza soffrire troppo.

Non sanno rizzare alcuna costruzione, nemmeno una misera capanna come sanno fare tutti i selvaggi del globo, ma sono però abilissimi nel costruire i canotti che scavano nei lunghi e grossi tronchi degli alberi. La loro religione consiste nell'adorare la luna che salutano con grida e con danze rassomiglianti al korrobory degli australiani. Hanno pure un certo rispetto pei morti che seppelliscono colle gambe piegate e che poi dissotterrano per conservarne le ossa.

Alì e il malabaro, nel momento in cui si preparavano ad approdare alla Piccola Andamana, che è la più meridionale del gruppo, come si disse, si erano bruscamente arrestati, scorgendo quell'ombra nera vagare, con passo silenzioso, sulla spiaggia.

L'urlo emesso da quell'animale, aveva fatto impallidire il marinaio e corrugare la fronte al capitano della Djumna. Nati entrambi nell'India, l'avevano udito ben altre volte nelle jungle e fra i canneti giganti della foce del Gange per ingannarsi.

— Ecco un'accoglienza che non mi aspettavo — disse Alì, arrestandosi dinanzi all'ultima scogliera. — Sarà cosa prudente ricaricare le mie pistole.

— Vuoi assalire quella tigre, padrone? — chiese Sciapal, che batteva i denti.

— Se avessi fra le mani una buona carabina, ardirei forzare il passo, ma con queste pistole sarebbe una pazzia che potrebbe costarmi la pelle.

— Non possiamo approdare più lontani?

— L'acqua è profonda attorno alla scogliera, Sciapal. Se vogliamo approdare, bisognerà proprio fugare quella dannata bestia.

— Aspettiamo l'alba.

— Ma se l'alta marea sopraggiunge, coprirà questi scogli e noi faremo un bagno molto lungo. Il flusso viene dall'est e si eleva ordinariamente otto piedi e né io né tu tocchiamo i sei. Vedi bene che vi sarà tanta acqua da annegarci.

— Nuoteremo, padrone.

— E perderemo le nostre provviste.

— Cosa vuoi fare adunque?

— Giungere a tiro e scaricare le mie armi. La tigre potrebbe spaventarsi e lasciarci il passo libero. Animo, Sciapal: andiamo a vedere se Sua Signoria, come la chiamate voialtri, si decide ad andarsene.

— Ti sbranerà, padrone. Può essere una tigre admikanevalla (tigre che ha assaggiata la carne umana).

— Meglio, così avrà minor slancio, essendo le admikanevalla quasi sempre vecchie.

Caricò le sue pistole con grande cura e quantunque il malabaro continuasse a sconsigliarlo, salì risolutamente le scogliere, avanzandosi con precauzione verso la costa.

La tigre ronzava sempre sulla spiaggia, tenendosi sotto la fosca ombra proiettata dagli alberi, ma se non era sempre visibile il suo corpo, la tradivano i suoi occhi dai riflessi giallastri.

Pareva in preda ad una certa agitazione, poiché non sostava un istante, ma non si discostava troppo dalla scogliera. Doveva aver compreso che i due uomini, non avendo altri passaggi, erano costretti ad approdare in quel luogo e si teneva pronta a piombare su di loro.

Probabilmente doveva essere molto affamata, perché di solito, questi feroci animali non osano assalire di fronte se non sono prima feriti. Preferiscono l'assalto improvviso in mezzo ai boschi e non sempre ardiscono prendersela cogli uomini, soprattutto se sono di razza bianca; sapendo ormai per esperienza, specialmente quelle dell'India, che sono sempre meglio armati e più risoluti degli indigeni.

Vedendo Alì avanzarsi, la tigre lasciò gli alberi e si spinse verso la spiaggia, strisciando fra le folte erbe che coprivano il pendìo ed emettendo dei sordi miagolìi. Sembrava proprio decisa ad assalire i due naufraghi. Alì giunto a venti passi, s'arrestò dietro ad una roccia, volendosi tenere fuori di portata dallo slancio della pericolosa avversaria.

Alzò lentamente la pistola che teneva nella destra, mirò alcuni istanti con grande attenzione, poi premette il grilletto.

La belva, colpita di certo dalla palla del valente tiratore, fece un balzo in aria lanciando un furioso miagolìo ma che rassomigliava ad un vero ruggito, molto più rauco e più prolungato di quelli che mandano i leoni, poi appena ricaduta, si slanciò innanzi, ma Alì aveva puntata rapidamente la seconda pistola. Sia che la tigre si fosse accorta di essere stata così gravemente ferita da non essere più in grado di piombare, con un grande salto, sulla preda o che fosse spaventata dal luccicare della canna percossa dai raggi della luna, s'arrestò bruscamente, poi fatto un rapido voltafaccia, scomparve sotto la cupa ombra degli alberi.

— Buon viaggio — le gridò dietro Alì. — Ho risparmiata una palla che più tardi avrei forse rimpianta.

— È fuggita? — chiese il malabaro.

— Non la vedo più — rispose l'anglo-indiano.

— O che invece si sia nascosta per piombarci addosso a tradimento?

— Credo che abbia compreso che non siamo uomini da lasciarci mangiare come due bistecche. Odi nulla?

— No, padrone.

— Allora possiamo salire la sponda.

— Sta' in guardia, padrone.

— Ricaricherò prima la pistola e apriremo bene gli occhi.

Cacciò una nuova carica nell'arma che lo aveva così bene servito, poi s'arrampicò sulla spiaggia, seguito da Sciapal.

Giunti sotto i primi alberi s'arrestarono scrutando attentamente le erbe e le piante, tesero gli orecchi ascoltando con profondo raccoglimento, poi rassicurati dal silenzio che regnava in quel luogo, si sdraiarono ai piedi di un mangostano selvatico.

— Aspettiamo l'alba — disse Alì. — Domani vedremo cosa si potrà fare, per uscire da questa situazione che è così poco allegra.

— Dici disperata, padrone.

— Non ancora, Sciapal.

— Hai qualche speranza di abbandonare quest'isola selvaggia?

— Non ho alcuna intenzione di terminare i miei giorni fra queste foreste.

— Ritorneremo un giorno al Bengala?

— Voglio rivedere ancora mio fratello Edoardo. Povero ragazzo! Come sarà inquieto, non ricevendo più alcuna mia notizia!

— Qualche volta le navi approdano a queste isole?

— Mai, Sciapal, anzi le evitano con grande cura, sapendo che nulla hanno da guadagnare dai selvaggi andamani.

— Non so allora in quale modo noi lasceremo questa isola.

— Lo troveremo.

— Ricorrendo ai selvaggi?

— Tutt'altro: cercheremo di tenerci lontani da loro.

— Allora bisognerà costruirci una scialuppa.

— Vedremo, Sciapal.

S'appoggiarono contro il tronco del mangostano, tenendo le armi dinanzi a loro e attesero pazientemente che spuntasse l'alba.

La luna tramontava rapidamente assieme alle stelle, mentre verso oriente cominciava ad apparire una pallida luce. Fra qualche ora il sole doveva spuntare sull'orizzonte.

Un silenzio quasi assoluto regnava su quella costa, che doveva essere certamente disabitata, e sotto i grandi e cupi boschi. Solamente le onde venivano a morire, gorgogliando, fra le scogliere che si estendevano, per un lungo tratto, in direzione del banco, presso cui erasi inabissata la Djumna. La tigre doveva essersi allontanata, poiché non si era più udito il suo rauco urlo. Forse ne aveva avuto abbastanza di quel colpo di pistola. Anche gli abbaiamenti del nero Pandu erano cessati. Forse il fedele cane si era spinto assai lontano colla speranza di richiamare l'attenzione di qualche selvaggio, aiuto niente desiderato dal suo padrone, almeno pel momento. I due naufraghi, entrambi silenziosi, tendevano però accuratamente gli orecchi, non ignorando che in quelle foreste mille sono i pericoli da cui guardarsi e aprivano bene gli occhi, scrutando la fitta e ancor tenebrosa massa di verzura. La pallida luce intanto aumentava sempre, tingendo il mare di riflessi color dell'acciaio e fugando i notturni flying-fosc, strani volatili, somiglianti a giganteschi pipistrelli, colle ali nere che misurano sovente un metro, il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra e la testa appuntita come quella delle volpi. Fra le erbe acquatiche ed i paletuvieri, si udivano già innalzarsi delle strida rauche. Gli uccelli della spiaggia cominciavano a svegliarsi, salutando l'alba.

— Sono oche emigranti — disse Sciapal, vedendo Alì guardare verso i paletuvieri.

— Un arrosto eccellente — rispose il capitano.

— E facile da procurarsi, quando si possiede un fucile carico a pallini, poiché volano in grandi bande. Con una scarica se ne possono gettare parecchie a terra; mi sorprende però che quelle oche si trovino ancora qui.

— E perché, Sciapal?

— Perché ai primi d'agosto sogliono abbandonare le isole ed emigrare nel Bengala e nell'Orissa, dove vanno a nidificare.

— Sei certo?

— Conosco le abitudini di questi uccelli emigranti.

— Credi che anche queste oche lasceranno presto l'isola?

— Fra qualche giorno si affretteranno a raggiungere le compagne. Ma perché t'interessi tanto di questi volatili, padrone?

— Perché possono salvarci, Sciapal.

— Le oche? — esclamò l'indiano, con stupore. — Vuoi scherzare, padrone?

— No, Sciapal, ma bisognerebbe che ne prendessi una viva.

— La cosa non è difficile, padrone; non hai le pistole?

— Ma se le scarico contro un volatile lo uccido.

— Niente palle.

— Vuoi abbatterle colla sola polvere?

— No, leva le palle e aspettami.

L'indiano si alzò senza spiegarsi di più, scese la riva e andò a frugare e rifrugare fra gli scogli e sui banchi. Poco dopo ritornò, facendo vedere ad Alì due manate di sabbia un po' grossa e perfettamente asciutta.

— Carica le tue pistole con questa — diss'egli. — Le oche cadranno al suolo stordite, forse un po' ferite, ma in grado di riprendere il volo dopo un breve riposo. Con un fucile carico di sabbia, ho preso già parecchi uccelli vivi, per un inglese che voleva conservarli in gabbia.

— Ma le oche sono grosse, Sciapal.

— Ma questa sabbia è pure grossa, padrone. Ecco che le oche cominciano ad alzarsi: affrettiamoci finché non si accorgono della nostra presenza.


Note

  1. Nel 1858 hanno fondata una piccola colonia penitenziaria, ma è quasi disabitata in causa del perfido clima che distrugge forzati e guardiani.