Il capitano della Djumna/Parte seconda/1. La Djumna

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Parte seconda Parte seconda - 2. Alì Middel

Parte Seconda


1. LA DJUMNA


Una calma assoluta regnava nel golfo del Bengala.

Le onde, mosse dal monsone che aveva soffiato durante tutta notte, ma che erasi dileguato ai primi raggi del sole equatoriale, si agitavano pesantemente, senza avere la forza né di urtarsi, né spezzarsi, ma con un rumoreggiare monotono, misurato.

Solamente verso un'alta costa che disegnavasi verso il nord, cinta da scogliere, pareva che fossero irate, poiché in quella direzione si vedevano alzarsi con una certa violenza colle creste irte di spuma giallastra e si udivano, di tratto in tratto, muggire e scrosciare come se urtassero e traballassero sopra dei bassifondi. Una nave, priva di vele, abbandonata a se stessa, poiché nessun uomo vedevasi al timone, andava a casaccio attraverso a quelle onde, spinta innanzi forse da qualche corrente marina o dal flusso che montava verso l'estremità del golfo del Bengala.

Quella nave che errava senza direzione su quel mare, minacciando di arenarsi sui bassifondi o di sfasciarsi contro le scogliere di quella spiaggia che elevasi verso il nord, era una grab indiana a tre alberi, colla prora assai aguzza e adorna di sculture che pareva volessero rappresentare Devendren, Aguini, Nirudi e Vaya ossia i più venerati devertrah o semidei degl'indostani. Era costruita quasi interamente di quel durissimo legno di tek che resiste oltre cento anni e che può sfidare le palle di cannone di piccolo calibro.

Come si disse, nessuna vela spiegata sui suoi pennoni e nessun uomo la guidava, ma sulla sua coperta si vedeva un cane nero, di grossa taglia, d'aspetto feroce, con un largo collare di ferro, e presso l'albero di trinchetto un indiano steso sul tavolato, colla fronte spaccata, il viso grigio pallido, i lineamenti alterati e imbrattati di sangue, immobile, irrigidito come se ormai da parecchie ore avesse cessato di vivere.

Il cane emetteva di tratto in tratto dei guaiti lugubri, che si ripercuotevano entro la stiva, il cui boccaporto era aperto. S'alzava sulle zampe posteriori appoggiando le anteriori alla murata, per guardare verso la costa, poi s'avvicinava all'indiano fiutandolo e lambendolo, poi correva a poppa e scendeva nel quadro abbaiando con maggior lena.

Ogni volta che scendeva la scala, si udiva una voce umana sorgere dalle cabine. Era una voce robusta, potente, che gridava con una intonazione minacciosa:

— Aprite!... Aprite o vi uccido tutti!...

Poi seguiva un'esplosione d'imprecazioni in lingua indiana ed inglese, ma che non avevano per risposta che gli ululati sempre più lugubri del grosso cane nero.

Intanto la grab continuava ad avanzarsi verso quella costa che ingigantiva sull'orizzonte, spinta dalle onde che salivano lentamente dal sud, e dal flusso. Priva di direzione, senza un uomo che tenesse la ribolla del timone, senza una vela che le desse qualche stabilità, girava su se stessa, ora presentando la prora ed ora la poppa alle scogliere che si staccavano da quella terra. Parve però che qualche grave avaria fosse toccata al suo scafo, poiché pareva che a poco a poco s'immergesse, come se il suo carico aumentasse di peso di minuto in minuto.

Già le onde sfioravano i suoi bordi e talvolta entravano attraverso le murate che si vedevano qua e là infrante, come se fossero state demolite a colpi di scure.

Il cane raddoppiava le sue corse e crescendo le sue inquietudini, continuava ad avvicinarsi all'indiano steso presso l'albero di trinchetto ed a lambirlo come se cercasse di richiamarlo in vita, poi scendeva nel quadro dove echeggiava sempre quella voce minacciosa, quindi balzava sul cassero o sul castello di prua e colla testa volta verso quella costa, raddoppiava i suoi ululati. Talvolta invece si avvicinava al boccaporto e guardava giù, tendendo gli orecchi. Pareva che cercasse di raccogliere qualche rumore, forse il gorgoglìo dell'acqua che doveva irrompere nel ventre della nave.

Ad un tratto, un urto violento accadde. La grab, che ormai non si trovava che a poche centinaia di metri dalle scogliere, si era rovesciata bruscamente sul tribordo, facendo rotolare l'indiano contro la murata, mentre il cane, dopo una breve esitazione, si slanciava in acqua, abbaiando con maggior forza. Dal quadro di poppa si udì ancora la voce tuonante gridare:

— Ma aprite, dunque!...

L'indiano che aveva la fronte spaccata, e che doveva essere solamente svenuto per la perdita del sangue o per la violenza del colpo ricevuto, a quell'urto aveva aperto gli occhi. Facendo uno sforzo che gli strappò un lungo gemito, si alzò a sedere, girando all'intorno uno sguardo istupidito.

Rimase alcuni istanti in quella posa, guardando il ponte deserto, le onde che proiettavano dei getti d'acqua attraverso le squarciature delle murate ed agli ombrinali di sfogo, poi aggrappandosi al bordo, si rizzò.

Era un uomo sulla trentina, dalla pelle quasi nera, di statura alta, col cranio accuratamente rasato, ma il viso adorno d'una barba rada e molto scura. Come tutti i marinai indiani, indossava solo uno stracciato dubgah di colore dubbio, che gli copriva solamente le anche.

— Vivo!... — esclamò, continuando a girare intorno i suoi occhi nerissimi.

— Credevo di essere già morto e di trovarmi dinanzi a Visnù!... E Garrovi?... E Hungse?... E tutti gli altri?...

Si portò la destra alla fronte e la ritrasse bagnata di sangue.

— Miserabili — mormorò. — Ora mi ricordo tutto!... Ma da quante ore hanno lasciata la grab?.... Devo essere rimasto svenuto lungo tempo, poiché quando caddi, quella costa era ancora assai lontana... Ma il capitano!... Che l'abbiano ucciso, dopo d'avermi spaccata la fronte con quel colpo di scure?

In quell'istante udì gli abbaiamenti del cane, ma che si perdevano in lontananza.

S'aggrappò alla murata e guardò. Il cane aveva già raggiunto gli scogli e correva verso la costa, passando sui banchi di sabbia.

— Anche Pandu mi abbandona — mormorò il disgraziato.

Ad un tratto retrocesse, traballando. Solamente allora si era accorto che la grab era immersa fino ai pertugi delle cabine di poppa.

— Hanno aperto i fianchi della Djumna — mormorò.

Radunò le sue forze e cercò di emettere un grido, ma la vista gli si intorbidì, le gambe gli si piegarono e ricadde sulla coperta, colto da un secondo svenimento.

Quanto tempo rimase privo di sensi?... Parecchie ore senza dubbio, poiché quando ritornò in sé, il sole che prima era ancora alto, precipitava all'orizzonte e le tenebre scendevano con quella rapidità che è particolare di quelle calde regioni.

Si alzò con grande fatica, reggendosi per un miracolo d'equilibrio, poiché le sue forze erano esauste. Provò una nuova vertigine, ma reagendo con energia, riuscì ad aggrapparsi alla murata di babordo ed a guardare al di fuori. La grab era perfettamente immobile. Semicoricata su di un bassofondo che le aveva impedito di sommergersi completamente, si era incagliata in tale modo, che nessuna manovra sarebbe riuscita a rimetterla a galla. L'indiano guardò sulla coperta cercando il cane, ma Pandu non era più ritornato. Tese gli orecchi sperando di raccogliere qualche lontano abbaiamento, ma solamente la brezza notturna faceva udire i suoi sibili attraverso l'attrezzatura della grab.

— Abbandonato da tutti — ripetè il disgraziato. — Cerchiamo dell'acqua.

Aggrappandosi alle murate per tenersi in piedi, si recò a poppa, dove si trovava una botte d'acqua, incassata fra il boccaporto del quadro e la parete del cassero.

Afferrò avidamente la tazza di ferro che vi stava legata e bevette parecchi sorsi, spegnendo l'arsura causatagli dalla febbre, poi inzuppò un pezzo di tela da vele e si fasciò la fronte.

Aveva appena terminato, quando nel quadro udì un colpo formidabile che fece oscillare la bussola dell'abitacolo. Pareva che qualcuno avesse cercato di sfondare la porta d'una cabina.

— Chi è? — gridò l'indiano, stupito e spaventato.

Un nuovo colpo, più violento del primo, echeggiò nel quadro, seguito da uno scricchiolìo.

— Chi batte? — ripetè il ferito.

Una voce rauca s'alzo dal piccolo boccaporto: — Aprite!...

— Il padrone!... — esclamò l'indiano, trasalendo. — Ma non l'hanno adunque ucciso?...

Senza perdere tempo si trascinò verso il boccaporto, e si lasciò scivolare giù dalla scaletta.

Il salotto era tutto inondato: le casse, le sedie e perfino la tavola galleggiavano, urtandosi ogni volta che l'acqua veniva turbata dall'alzarsi o dall'abbassar si delle ondate esterne. L'indiano s'immerse fino alle anche, dicendo:

— Siete voi, padrone?

— Sì, sono io — rispose la voce di prima. — E tu, chi sei?

— Sciapal.

— Sciapal!... Ma non sei fuggito, tu?

— No, padrone.

— Hai una scure?

— Vi è sul cassero quella che ha adoperato Garrovi per spaccarmi la fronte.

— Garrovi!... — esclamò l'uomo che si trovava prigioniero, con accento feroce. — È ancora vivo quell'uomo?

L'indiano non rispose. Aveva risalita la scala e trascinatosi a poppa, aveva raccolto una scure che era ancora macchiata di sangue.

— Eccomi, padrone — disse, ridiscendendo la scala.

— È vivo Garrovi? — ripetè il padrone, con maggior rabbia. — Rispondi, Sciapal.

— Lascia che ti apra.

— Rispondi!...

— È fuggito, padrone.

— E Hungse?

— Con lui.

— E gli altri malabari?

— Tutti fuggiti.

— Maledizione su loro!... E la mia grab?

— È perduta.

— Arenata, forse?

— Sì, padrone.

— Lo avevo sospettato. Apri!... Soffoco!...

L'indiano alzò la scure e percosse la porta della cabina, ma le sue forze erano così deboli ed il legno così resistente, che la intaccò appena. Raddoppiando però i colpi e percuotendo soprattutto i cardini, dopo alcuni minuti riuscì a farla cadere.

Un uomo si slanciò allora fuori, risalì come un lampo la scala e si precipitò in coperta, girando attorno gli occhi iniettati di sangue.

Quell'uomo era Alì Middel, il comandante della Djumna.