Il buon cuore - Anno XIV, n. 17 - 24 aprile 1915/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno XIV, n. 17 - 24 aprile 1915 Religione

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Il Palazzo di un faraone egiziano


I Faraoni egiziani costruivano i loro palazzi con materiali molto meno resistenti di quelli con cui erigevano le «case eterne» delle loro divinità; perciò mentre dei templi egiziani si trovano ancora avanzi abbastanza considerevoli, ben poco rimane dei palazzi nei quali abitavano i sovrani di quel paese.

Uno dei più completi, fra questi palazzi, o meglio quel tanto che di questo palazzo resta, torna un po’ per volta alla luce, grazie agli scavi che vi stanno facendo.

Esso fu esplorato per la, prima volta nell’inverno del 1888 - 89, e gli scavi regolari cominciarone nel 1900, diretti dall’inglese Newberry e dall’americano Tytus.

Oggi molte delle costruzioni di cui esso si componeva, sono state liberate dalla sabbia che li copriva, e i pochi visitatori che la curiosità richiama sul luogo di quegli scavi, possono visitare a loro agio la residenza favorita di uno dei più illustri sovrani della decimottava dinastia.

Il palazzo sorge in prossimità della riva sinistra del Nilo, a sud di Medinet, nella provincia di Faium (Alto Egitto), su di un terreno alluvionale, che presentemente è coperto dalla sabbia, ma che in quell’epoca lontana era ben irrigato e si prestava all’impianto di bei giardini.

Risiedendo colà, Amenotis III si trovava ad un’ora di distanza da Tebe, così vicino da potervisi recare da un momento all’altro, quando fosse ne-

cessario, e nello stesso tempo così lontano da evitare il chiasso della turbolenta capitale.

Intorno al palazzo reale s’era formata una piccola città, abitata da principi e alti funzionari, nonche da artefici scelti che per quella ricca e brillante popolazione lavoravano e delle cui botteghe si vedono ancora qua e là gli avanzi, sopratutto delle fabbriche di vetro e di smalti multicolori che allora erano in gran voga. Questi prodotti dell’industria vetraria — coppe, ampolle, vasi d’ogni sorta, amuleti, perle, ecc., — sono notevoli, e formano la nostra ammirazione per la vivacità dei colori, per l’eleganza della forma e per la finezza dell’esecuzione.

La pianta del palazzo era rettangolare; lo cingeva un muro di mediocre spessore, con poche porte, dalla facciata completamente liscia e nuda. Entrando per una di queste porte, si penetrava in un vero labirinto di stretti cortili, di sale con colonnati, di camere, di corridoi. Oggi gli avanzi dei muri superano di poco l’altezza di m. 1.50; ma una volta arrivavano all’altezza di circa 5 metri. I frammenti dei soffitti, che sono stati messi in luce dagli scavi, conservano le traccie di pitture di color chiaro, del tipo di quelle che si vedono nelle tombe e nei templi; quelle sale avevano dipinti nei soffitti degli aveltoi, colle ali spiegate, e altri uccelli; lungo le pareti danzavano delle figure di donna; i pavimenti imitavano degli stagni o delle paludi con piante acquatiche, in mezzo alle quali guizzavano dei pesci, mentre tra i fiori di loto volteggiavano e scherzavano vaghi uccelli.

I ruderi che sinora sono stati messi allo scoperto, non ci permettono ancora di distinguere in tutto e per tutto la ripartizrone dei locali; ma già si può fare una divisione fra gli appartamenti destinati alle pompe ufficiali e quelli che servivano ai bisogni quotidiani della vita.

Due grandi sale rettangolari, con due file parallele di colonne, servivano indubbiamente ad accogliere nei giorni d’udienza o di festa, i funzionari di Corte, gli ambasciatori stranieri, che venivano a recare al Sovrano i doni e i tributi dei loro principi, i generali che tornavano da qualche spedizione vittoriosa. I notabili di Tebe e di tutto [p. 130 modifica]l’Egitto venivano colà a recare al Faraone i loro omaggi, accompagnati da canti e dalle genuflessioni rituali; e in quei ricevimenti, e in quelle feste, si spiegava tutta la semibarbara pompa della corte egiziana, con i suoi contrasti di raffinatezze estreme e di rozzezza africana, con le sue numerose figure, quali vestite di tela finissima, quali di pelli d’animali feroci, con i suoi belletti, i suoi tatuaggi, in mezzo ad una profusione di fiori e di profumi. Forse in quella sala si tenevano i banchetti solenni e delle bestiali gozzoviglie succedevano alle cerimonie nelle quali il Sovrano e i suoi sudditi si scambiavano i più iperbolici complimenti, nè più nè meno di quello che fanno ai nostri giorni col loro linguaggio immaginoso i sovrani degli staterelli dell’Africa e dell’India. Da questa sala, attraversando un’anticamera di modeste dimensioni, si arriva al gabinetto particolare di Amenotis III. Coloro che erano ammessi all’onore della presenza reale, quando varcavano la soglia, vedevano sorgere davanti a sè, fra due colonne di legno dipinto, il trono, su cui spiccava in mezzo alla semioscurità la figura luminosa del Faraone, simile ad una divinità, impassibile, gli occhi fissi, il simbolico diadema sulla fronte, nelle mani lo scettro e la croce ansata, tutta rilucente di ori e di smalti. 1 visitatori dovevano coprirsi gli occhi, come se fossero stati incapaci di sostenere il fulgore della faccia divina; poi dovevano stendersi bocconi al suolo e aspettare che il re rivolgesse loro la parola. l’atteggiamento che dovevano prendere i visitatori variava secondo il loro grado e secondo la benevolenza del Sovrano; alcuni dovevano rimanere prosternati addirittura: altri in ginocchio, altri in piedi, ma curvi in avanti, altri, finalmente, avevano il diritto di stare in piedi, chinando soltanto la testa. Come il culto degli dei, così anche i ricevimenti reali erano una specie di azione coreografica, inframmezzata da parole, ciascun atto- della quale era regolato con una minuzia tale da far disperare un maestro delle cerimonie bizantino. La persona ricevuta in udienza dal Sovrano si presentava a lui in mezzo a suoni e canti, e in mezzo a suoni e canti si ritirava; l’etichetta inoltre imponeva che anche le parole dette durante il ricevimento, dovessero essere pronunziate su ritmo, e con intonazioni prestabilite; occorreva, insomma, la t voce giusta» quando unosi presentava al Sovrano d’Egitto, signore della terra, come occorreva per implorare gli dèi, signori del cielo. Numerose erano le sale da bagno, come conveniva a un principe, considerato quale un semidio, e a cui le funzioni sacerdotali imponevano la più scrupolosa pulizia. In tre di queste sale si trovarono delle lastre di pietra e le condutture dell’acqua. In vicinanza di questi furono tratti in luce gli avanzi di alcune camere da letto con la piattaforma sulla quale il letto doveva sorgere. Altre stanze, molto più piccole e nude, sembra appartenessero ai domestici.

Finora non si è trovato alcun indizio dei locali destinati alla cucina, ma, molto probabilmente, col proseguire degli scavi, verranno in luce anche questi; e lo stesso si dica dei magazzini, dei granai, delle cappelle e di altri locali che facevano parte integrante di ogni residenza reale e principesca. Come fosse intensa la vita che in queste residenze si svolgeva, è dimostrato dai bassorilievi che adornano le tombe di El "A marn, nei quali sono rappresentati i palazzi che, ad imitazione di quello di Amenotis, aveva fatto fabbricare il figlio di lui, il fanatico Cuniatonu. Le rappresentazioni di questi bassorilievi sono interessantissime. Vi si vede in una sala il Faraone e la sua famiglia, che ricevono un funzionario: alle porte stanno le guardie, e alcuni ciambellani introducono il visitatore, mentre alcuni schiavi portano i rinfreschi e i regali d’uso. In una delle cappelle si vede un sacerdote, il quale offre dei sacrifici alle divinità; in una cameretta si scorge una domestica intenta a rifare il suo letto; in altre camere stanno gli scribi o altri impiegati, i quali mangiano. In un angolo del palazzo si vede una danzatrice, la quale sta provando un passo, accompagnata sulla chitarra da altre donne, che, insieme a lei, si preparano per la festa della sera. Basta-trasportare queste scene a Medinet, per ripopolare il palazzo rovinato, e per rivederlo quale era nei giorni del suo splendore. In quei bassorilievi, la cura con cui gli artisti egiziani rappresentavano tutti gli episodi della vita famigliare, è così scrupolosa, che certe volte al disopra dei personaggi più caratteristici, sono incise le parole che essi pronunciavano, sicchè sembra veramente che arrivi alle nostre orecchie, indebolita da tanti secoli di lon-’ tananza, l’eco delle loro conversazioni. Il visitatore che conosce le antichità egiziane e che percorre gli avanzi di quelle camere, oggi abbandonate e deserte, rimette istintivamente i mobili al loro posto, i letti sostenuti da zampe di leone, coi materassi rossi, i sedili, i cofanetti di vari colori, i vasi contenenti i profumi e le ampolle di ogni sorta; tutti gli ornamenti, insomma, e tutti i gingilli della civetteria egiziana; e in verità egli non proverebbe una grande meraviglia se in qualche angolo remoto trovasse qualche scriba addormentato o qualche danzatrice intenta a provare un passo.