Il buon cuore - Anno XI, n. 22 - 1º giugno 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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[p. 172 modifica]Educazione ed istruzione


La ginnastica ottimo mezzo di educazione morale


Appassionato cultore e divulgatore degli esercizi ginnastici, io ho sempre veduto in essi dei mezzi utili, validi ed efficaci non solo per lo sviluppo e la salute del corpo, ma anche per la educazione della mente e del cuore.

Perciò ogni qual volta io ammiro una squadra di baldi giovani ginnasti, i quali, con movenze eleganti e svelte e con inappuntabile precisione eseguiscono marce [p. 173 modifica]ed evoluzioni militari, o con energia e sicurezza volteggiano le loro membra ed il loro corpo in mille guise ai grandi o piccoli attrezzi ginnastici, io provo sempre gradite emozioni, e penso con intimo compiacimento che quei giovani potranno diventare un giorno uomini buoni, utili a sè, alle loro famiglie, alla patria.

Diventeranno utili, perchè gli individui sani e forti, anche se poco istruiti, dispongono sempre di mille risorse, mentre quelli istruiti, ma infermi, sono invalidi bisognosi di continuo aiuto. Diventeranno buoni perchè la salute e lo sforzo del corpo sono ottime condizioni per acquistare tanto una proficua istruzione,quanto una efficace disciplina morale. Non vi ha dubbio, infatti, che in un individuo malato l’opera educativa morale rimane assai sconcertata. È questo un concetto antico, espresso nella formola: «Mens sana in corpore sano» e ripetuto sempre da tutti i più grandi educatori, in espressioni varie, come ad esempio: «La perfezione fisica serve ad assicurare la perfezione morale»; «non v’ha maggior tiranno della volontà di un organismo indebolito»; «nulla impedisce maggiormente il libero svolgimento delle facoltà spirituali che un corpo malato, le cui funzioni languono e per il quale ogni sforzo è un patimento». E ne potrei citare moltissime ancora di tali espressioni, tutte tendenti a dimostrare che «nessun scopo educativo, nè della mente, nè del cuore si può raggiungere, senza la base di una salda educazione fisica».

D’altronde molti avranno potuto esperimentare che in un corpo malato difficilmente può trovarsi uno spirito sereno e forte, capace di nobili affetti, di generose aspirazioni, di atti eccelsi di virtù pubblica e privata.

Ma quand’anche per eccezione un individuo malato avesse uno spirito di potenza non comune, questa potenza non potrà mai espandersi, per la deficenza di forza corporale. Mentre invece:

Che non può un’alma ardita
Se in forti membra ha vita?

Da quanto ho detto appare evidente che è necessario provvedere alla educazione fisica, se si vuole ottenere una buona educazione morale. Ora domando: In che consiste la forza morale? Nell’avere il corpo docile ai voleri dell’anima, risponde il P. Semeria, in un suo discorso.

Il corpo deve servire all’anima come la spada al guerriero; e perciò due qualità gli occorrono: essere docile e forte come la spada, la quale deve essere maneggevole e ben temprata.

Orbene la ginnastica provvede non solo a dare forza e docilità, ma è in se stessa mezzo e strumento di educazione morale.

Essa infatti infonde nell’animo dei giovani lo spirito di disciplina, il sentimento dell’onore, dell’ordine, della puntualità, della ubbidienza pronta e della sottomissione. Essa, abitua ancora i giovani ad una vita attiva e rigida, allo spirito di iniziativa e di risorsa; li rende coraggiosi di fronte a qualsiasi ostacolo, in difesa della propria e dell’altrui libertà, di fermo e tenace carattere.

Accorrano dunque i giovani alle palestre ginnastiche con sollecitudine e costanza. Nell’esercizio dei muscoli acquisteranno: forza, bellezza, letizia. La forza materiale sarà loro fonte di spirituale energia; la bellezza, sorgente di intime compiacenze che disporranno l’animo alla serenità e alla letizia; e l’animo lieto e sereno sarà sempre pronto alla bontà e alla generosità. Nelle palestre i giovani impareranno ancora a combattere l’ozio e la mollezza, che sono cagione di vizi; e coll’abilità di superare ostacoli, di trarsi d’impiccio nei cimenti, di divorare gli spazi, acquisteranno pure la forza di domare i cattivi istinti, di vincere le malvagie seduzioni e di dirigere la volontà al bene.

Prof. Cajelli.

NELL’ANNIVERSARIO DI UN GRANDE


NICCOLÒ PAGANINI

(Dal Corriere d’Italia).

Sembra che il tempo, che pur tante cose dissolve e travolge, non abbia potere sulla memoria di alcuni uomini privilegiati, i quali del loro nome riempirono il mondo, assicurandosi una popolarità universale. Niccolò Paganini è uno di questi: egli che sintetizzò tutto un periodo musicale, e che, vivente, seppe, per l’arte sua prodigiosa, suscitare entusiasmi senza confronti e leggende stranissime, così da creare intorno a sè tutta un’atmosfera di romanzo e di favola. Ed ancora oggi, a settantadue anni di distanza dalla sua morte, la figura di lui nulla perde del suo fascino singolare; la fama di lui è ancora intera, salda, granitica; ancora il suo nome è famigliare ad ogni classe di persone, come allorquando correva il mondo col suo Guarniero magico, dietro il quale si traevano le folle ammaliate.

V’hanno alcune manifestazioni artistiche di cosi straordinaria potenza, da suscitare sulle moltitudini una specie di ammirazione superstiziosa, eccitatrice della fantasia popolare, creatrice di leggende. Ciò doveva necessariamente e specialmente verificarsi anche per il grande violinista genovese, il quale — oltre che per le sue doti di artista sbalorditivo — per la bizzarria del carattere, per la stessa sua figura strana e sparuta, per il mistero, più apparente che reale, onde amò talvolta circondarsi, offrì facile presa alle fantasticherie e passò fra i suoi contemporanei come una specie di mago e di stregone.

Originalità, bizzarria, stranezza, egli manifestò fin dai primi anni della sua esistenza.

Figlio di un modestissimo impiegato del porto di Genova, si diede assai per tempo allo studio del violino. «Verso i cinque anni — narra il Paganini in una breve autobiografia — il Salvatore apparve in sogno a mia madre e le disse di chiedere una grazia. Ed ella domandò che suo figlio diventasse un grande violinista; ciò che le fu accordato». Apprese da suo padre i primi elementi del violino, e in pochi mesi fu in grado di eseguire «ogni specie di musica a prima vista». La sua prima sonata per violino fu da lui scritta a otto anni; e qualche mese dopo egli eseguiva in una chiesa, con straordinario successo, un concerto di Pleyel.

[p. 174 modifica]A undici anni non solamente sapeva tutto quello che i maestri avevano potuto insegnarli, ma portava già nell’anima i germi di un sogno suo, un’aspirazione indefinibile a qualche cosa di cui non sapeva rendersi ben ragione, ma che intuiva confusamente, e verso la quale si sentiva attratto con tutte le sue giovani forze.

I maestri erano spaventati della indocilità del loro allievo, che sembrava non curarsi affatto delle tradizioni classiche, e andava ricercando sul suo strumento effetti curiosissimi ai quali nessuno aveva mai pensato.

Le stesse imperfezioni tecniche con le quali il bimbo prodigioso eseguiva quella sua stravagante musica, sembrava dar ragione ai rimbrotti dei maestri; ma in realtà Paganini aveva già scoperto la sua via e ne andava tentando il sentiero, che doveva condurlo rapidamente alla gloria.

Egli si compiaceva di inventare le più ardue difficoltà e di risolverle, eseguendo un passaggio in mille modi differenti, studiandolo per dieci, per dodici ore di seguito, fino a cadere esaurito.

Naturalmente gli ammonimenti paterni non mancavano; e il ragazzo, insofferente di freni, prese ben presto in uggia la vita di famiglia. Così nel 1799, a quindici anni, conoscendo a perfezione tutte le opere dei grandi maestri: Corelli, Tartini, Pugnani, Vivaldi, Viotti, scappò di casa, e, sola ricchezza il suo violino, se ne andò per le vie del mondo in cerca di fortuna.

I successi non gli mancarono; ma libero dalla rigorosa sorveglianza paterna, la vita del giovine virtuoso non fu certo esemplare, che egli si lanciò abbandonandosi specialmente al demone del gioco.

Era a Livorno, e una brutta sera giocò tutto quel che possedeva. Non gli restava che il violino; e giocò e perdette anche quello. Come fare per il suo concerto imminente? Un ricco negoziante francese, certo Livron, mosso a compassione dalle ansie del giovine scapestrato, acconsentì a prestargli un magnifico Guarniero. Il concerto ebbe esito trionfale; e quando Paganini volle restituire lo strumento al suo proprietario, questi gli rispose commosso: «Mi guarderei bene dal permettere che altri toccasse quelle corde che sono state toccate dalle vostre dita. Il mio violino è vostro».

E fu questo il violino magico sul quale Paganini suonò per tutta la vita, e che legato dal grande artista alla sua città natale, è ora sotto una campana di vetro al Museo municipale di Genova, conservato come cosa sacra.

Dopo questi successi iniziali incomincia la prima delle misteriose sparizioni di Paganini, intorno alle quali si affaticarono invano tutti i suoi biografi. Sembra che egli avesse vissuto per quattro anni in un castello, ospite di una nobile dama; certo a questo periodo risale la simpatia ch’egli prese per la chitarra, nella quale si perfezionò rapidamente. Più tardi, quando egli voleva riposarsi delle fatiche del violino tornava con grande amore al popolare strumento; e la fama corse di alcune memorabili serate musicali -precluse inesorabilmente a tutti — in cui, accompagnato dal violinista tedesco Sina, Paganini passò lunghissime ore a trarre dalla sua chitarra i più straordinari effetti.

Nel 1805 è alla corte di Lucca, dove resta per tre anni; ed è là che una sera, dopo aver tolto le due corde di mezzo al violino, improvvisa col cantino e col sol la Scena amorosa, una specie di dialogo musicale in cui la quarta corda rappreseti ava l’uomo (Adone) il mi la donna (Venere).

Questa è l’origine confermata dallo stesso Paganini, della consuetudine che egli prese di suonare poi su una corda sola, e specialmente sulla quarta, alla quale, giovandosi degli armonici dava l’estensione di tre ottave.

Dal 1808 al 1813 una nuova lacuna appare nella vita di Paganini; ed a questa mancanza di notizie sicure particolareggiate si deve principalmente il dilagare delle mille assurdità, a smentire le quali egli dovè lottare tutta la vita.

Si disse, tra le altre cose, a proposito della suaccennata maestria del violinista a suonare in una sola corda che, avendo assassinato una sua innamorata, fosse rimasto quattro anni in prigione, dove il carceriere per tema s’impiccasse, gli aveva tolto tutte le corde al violino, eccetto una: e su quella egli si avvezzò a compiere miracoli di abilità.

Nel 1813 ritroviamo Paganini a Milano, dove su un’aria di ballo che si eseguiva allora: «Il noce di Benevento» compose le famose variazioni «Le Streghe», uno dei suoi più celebri cavalli di battaglia. Negli anni successivi viaggò tutta l’Italia, rinnovando continuamente il suo programma, oggetto dell’ammirazione dell’entusiasmo generali.

Intanto l’eco di queste sue incessanti e vittoriose peregrinazioni varca i confini dell’Italia e si spande in Austria, in Germania, in Francia, in Inghilterra; l’Europa è ansiosa di conoscere il «Mago del Mezzogiorno» il «re del violino»: e il 29 marzo 1828 Paganini esordisce a Vienna.

L’accoglienza che il pubblico gli fece fu straordinaria: l’entusiasmo divampato fin dai primi colpi d’arco raggiunse man mano ir delirio. Quando egli eseguì le sue Streghe, i brividi corsero nella sala; molte signore svennero: un allucinato affermò di aver visto a lato del violinista. il diavolo in persona che gli guidava l’archetto, e faceva delle smorfie grottesche: e il diavolo rassomigliava stranamente a Paganini!

A Vienna non si parlò più che dell’artista italiano: la moda s’impossessò del suo nome: ogni cosa che volesse divenir popolare si collegò ad esso.

In trattoria tutto quel che c’era di meglio e di più costoso era «alla Paganini». Vi furono costolette alla Paganini, e panetti alla Paganini, in forma di violino. Le signore portano abiti, nastri, piume, guanti, bottoni alla Paganini; si fumarono sigari alla Paganini; si crearono tabacchiere d’oro alla Paganini....

Alcuni ammiratori scrissero per lui poemi, sonetti, acrostici; l’imperatore lo nominò «Virtuoso di Camera», e la città di Vienna gli fili una medaglia d’oro appositamente coniata.

E pure i trionfi di Vienna, che sembravano rappresentare il non plus ultra delle manifestazioni entusiastiche, impallidirono di fronte a quello che accadde a Parigi.

[p. 175 modifica]Le leggende intorno a Paganini, mangiatore d’uomini, assassino di donne, forzato evaso, l’eco dei suoi delitti immaginari, le notizie dei trionfi tedeschi, erano giunte nella capitale di Francia e si erano diffuse e moltiplicate, dando luogo a una curiosità quasi morbosa di conoscere l’uomo eccezionale. Si aggiunga ancora che in quel tempo Paganini aveva fatto pubblicare i suoi studi per violino, apparsi a tutti gli artisti come enigmi indecifrabili, e che uomini ferocemente canzonatori, come Rossini, e non facili agli entusiasmi come Mayerbeer, si erano dichiarati tra i p«i ferventi ammiratori di lui, e sarà facile dedurre quale enorme aspettativa ci fosse per il primo concerto di Paganini all’Opera di Parigi, la sera del 9 marzo 1831.

(Continua).

Enrico Boni

I fidanzamenti collettivi nella Bretagna


Tra le regioni francesi che, malgrado quel soffio di modernità che oggi spira dappertutto, conservano attualmente le antiche tradizioni, la Bretagna è certamente da collocarsi nel primo posto. È così che nel dipartimento di Finistère, la maggior parte della bassa Bretagna, si ritrovano ancora quelle vestigia dei periodi feudali, che sono i fidanzamenti collettivi.

L’origine di questi è indubbiamente sorta dal fatto che in tempi antichi, difficilissimi erano i mezzi di comunicazione in quelle regioni così accidentate, e che la Chiesa vietava i matrimoni fra parenti fino all’undicesimo grado. È noto come ancor oggi nei piccoli centri siano così numerose le parentele: in quei tempi questo fatto si doveva verificare in modo assai maggiore. Da ciò ne derivava una grande difficoltà circa il contrarre matrimonio. Era quindi necessario cercar la sposa altrove, fuori del paese, e a queste ricerche contribuivano il prete e il signore del luogo col far incetta in altri paesi di fanciulle da marito, le quali venivano poi condotte nel feudo ove avvenivano i matrimoni: su ciascuno di questi poi il signorotto percepiva una tassa. È a tal modo che si stabilì in ogni feudo una serie di feste nelle quali giovanotti e ragazze si conoscevano e chiedevano poi al signore il diritto di fidanzarsi.

Al giorno d’oggi queste feste di fidanzamento, che in gergo si chiamano «chinodec», si fanno generalmente in primavera, e la più importante di queste è quella che si fa a Saint-Jean du-Doigt il lunedì santo. Verso le tre le ragazze dei paesi circostanti si recano a vespro nella vecchia chiesa gotica, vestite con abiti a vivi colori e portando il libro da messa ed un parapioggia. Come la funzione è finita escono di chiesa e si allineano, in parecchie centinaia talvolta, innanzi al portico della chiesa, qui re stando tutto il pomeriggio e talvolta anche la sera ad attendere l’ignoto fidanzato. Sulla strada intanto gli uomini camminano a gruppi, con aria indifferente. Ogni tanto però qualcuno di questi si stacca dai compagni, s’accosta ad una ragazza, la saluta con cerimonia ed incomincia a parlare. Se la fanciulla gradisce il suo interlocutore, dopo un’esitazione di prammatica, gli consegnerà il parapioggia.

Dopo di che accetterà la compagnia del giovanotto, il quale secondo le regole le offrirà uno spuntino. Tosto gli alberghi sono pieni di coppie gioconde, che poi a tarda ora se ne vanno verso la casa della fidanzata, ove è imbandita una buona cena.

Durante tutto questo frattempo le ragazze che non sono state scelte attendono senza impazienza l’ipotetico fidanzato.

Qualche volta questi fidanzamenti improvvisi non hanno seguito; sovente i giovani, per meglio conoscersi, si dànno appuntamento pel venturo «chinodec», ma in generale ad ogni fidanzamento segue a breve distanza il matrimonio.