Il buon cuore - Anno XI, n. 14 - 6 aprile 1912/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

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Sulla via delle anticipazioni....

Chiavenna, 24 marzo.

Quando si incomincia con una fortuna anticipata, si può aspettarne delle altre. Oggi, agli sgoccioli della Quaresima, contrariamente alle costumanze del Milanese, mi venne offerto lo spettacolo della solenne prima Comunione dei ragazzi. Francamente ero scettico sulla riuscita, almeno dal lato imponenza, signorilità, finitezza squisita come si vede da noi. Ma ho dovuto ricredermi subito. Quei trecento comunicandi, tutti raggianti di gioia, lindi, leggiadri come stelle, schierati per il lungo dell’ampia magnifica Collegiata di S. Lorenzo, presentavano un colpo d’occhio semplicemente magnifico anche per la serietà, compostezza, disciplina insperata. E per tutta la giornata quei frugolini si incontravano di qua, di là, ovunque a folleggiare, a mettere una nota di festa, un senso di sollievo, di piacere, un’onda purificatrice; a suscitare ricordi lontani che perdeansi in un sospiro subito represso, ma pieno di soave, acuta mestizia. Preso così a tradimento, così fuor di tempo, e così scettico, ne fui impressionatissimo. Forse mai mi vidi forzato mio malgrado a pensare io pure.

Ritrovavo la prima Comunione del mio bel S. Ambrogio, ma delle emozioni più intense; l’istessa grandiosità di preparativi e di riti e di commossi spettatori in gran parte mamme o sorelle dei comunicandi — l’occhio arrossato, brillante di lacrime furtive ma imperiose e dolci quant’altre mai.

Questo avvenimento, per la sua splendida riuscita, diciamo così, anche estetica, ha finito di riconciliarmi colla privazione così prolungata della mia Milano. Riuscita dovuta in bella parte — è giustizia riconoscerlo — anche a quell’inestimabile gruppo di Suore della Croce che, durante i tre giorni di spirituali esercizii, il giorno delle Confessioni e il giorno della Comunione hanno prestato un eccellente servizio di assistenza. Tutti avranno notato e apprezzato come me la loro prestazione, assurgendo ad un augurio che possano allargare la loro sfera d’azione, la loro influenza, il loro prestigio. Quanto di guadagnato, specialmente per la gioventù femminile: tra cui quelle Suore sarebbero in grado di esercitare il più nobile apostolato!



Il libro più bello, più completo, più divertente che possiate regalare è l’Enciclopedia dei Ragazzi.


STORIA ed ARTE

nella Campania e nell’Abruzzo

La piccola ma ridente città di Sessa Aurunca, la patria di Caio Lucilio, di Taddeo da Sessa e Agostino Nifo, dev’essere assai grata al suo vescovo monsignor Giovanni Maria Diamare, poichè questi ha messo in valore gli importanti monumenti esistenti colà, ha provveduto e provvede, nel miglior modo che gli sia possibile, alla migliore conservazione del ricco e cospicuo patrimonio artistico di quel paese, e sopratutto perchè ha dato alla luce una preziosa opera dal titolo: «Memorie storico-critiche della chiesa di Sessa Aurunca» (2 volumi, Napoli, tipografia Artigianelli). Nella prima parte, riguardante la chiesa di Sessa e i suoi vescovi, l’A. ha trattato l’argomento propostosi con serenità di storico e con acume di critica, e di ciò gli sia lode. Egli ha investigato antiche memorie, documenti e tradizioni per affermare quello che non è noto o obliato, o almeno tenuto ancora avvolto nella caligine dei secoli scorsi. Pregio particolare del lavoro è di aver accertato, confutando gli errori di diversi storici, che il primo vescovo di Sessa fu S. Casto, martirizzato nel 292. Altro pregio è di aver dimostrata l’esistenza di Sinuessa, negata dal celebre storico Natale Alessandro, e di aver mostrato chiaramente che Sessa e Sinuessa erano due distinte città, l’una più importante dell’altra.

La seconda parte dell’opera tratta della Cattedrale e delle altre chiese di Sessa e può considerarsi come una guida dei monumenti sacri di quella cittadina. La magnifica cattedrale con i suoi cospicui monumenti, tra i quali eccellono il pergamo, il candelabro del cereo e una pila dell’acqua lustrale, è da lui illustrata dottamente. A buon diritto il nostro A. deplora l’abbandono in cui trovasi il tempio monumentale, il quale dovrebbe tornare all’antica sua nudità e bellezza. Con quell’amore gagliardo ed indomito che sentiamo per i monumenti della nostra provincia, per quel culto profondo che abbiamo per la storia e per l’arte del nostro paese, noi uniamo la nostra modesta voce a quella autorevole del Diamare e di tanti valentuomini, affinchè, chiuso una buona volta il periodo delle verifiche e delle ispezioni, si ponga mano all’opera di restaurazione e di ripristino.

Nel secondo volume del Diamare abbiamo notato un interessantissimo capitolo, riflettente un artistico pregevolissimo dipinto su tavola, un trittico del 1500, che si conserva nel Museo Campano ed è oggetto di frequenti discussioni.

L’A. si occupa di questo quadro perchè apparteneva al Monastero di Sant’Anna in Sessa. Dopo averlo descritto, egli si ferma su due punti intorno ai quali vi è gran divergenza, come egli dice, tra il Salazaro ed il Venturi. Anzitutto noi sentiamo il dovere di rettificare un’inesattezza, in cui è incorso il Diamare. Non è il Venturi che si occupò del noto dipinto confutando in due punti le opinioni del Salazaro, ma Gino Fogolari e precisamente nell’opera citata dall’autore, [p. 107 modifica] intitiolata «Le gallerie nazionali italiane», la quale è una raccolta di scritti di vari autori, fatta a cura del Venturi. L’equivoco si spiega facilmente, ed è inutile perciò indugiarsi su questo punto. Dunque la controversia si dibatte tra il Salazaro e il Fogolari. La prima questione riguarda l’identificazione di due personaggi che si vedono nel lunettone insieme con la croce e con sant’Elena, la madre di Costantino, scopritrice del sacro legno, la quale e a destra della croce. Il Salazaro insieme col Jannelli sostenne che il personaggio genuflesso a sinistra della croce fosse Carlo VIII e l’altro il principe Zizim e Djem, musulmano, che si abbraccia alla croce.

D’altra parte il Fogolari sostiene essere Costantino il primo personaggio, e l’altro un barbaro cavatore che solleva la croce. Il Diamare con buone ragioni, specialmente storiche, conferma l’opinione del Salazaro. L’altra questione è sull’autore del famoso quadro. Il Salazaro insieme col Jannelli sostene che fosse di Antonazzo Romano, mentre il Fogolari lo attribuisce a Cristoforo Scacco, veronese.

Qui il Diamare accetta, al par di noi, la esauriente dimostrazione del Fogolari.

Fatto questo rapido cenno di un argomento che, in verità, meriterebbe di essere trattato largamente, siamo costretti, per ragioni di spazio, a far punto. E conchiudiamo lodando lo zelo con cui il nostro A. ha raccolto memorie, documenti, tradizioni ed altro, l’imparzialità con- cui ha vagliato le altrui opinioni e infine la dottrina di cui ha arricchita la sua commendevole opera.

Ci resta solo da dar notizia di una memoria dello stesso autore intorno ad «Un’epigrafe sepolcrale, ritrovata nel territorio dell’antica Sinuessa». (Editore Giannini, Napoli).

L’interpretazione che mons. Diamare dà dell’epigrafe e specialmente del primo verso, a noi sembra la più attendibile, e la sua dissertazione noi giudichiamo frutto di vasta e soda cultura archeologica.

Il P. Girolamo Costa ha pubblicato, con i tipi delle officine grafiche Vecchioni di Aquila, un pregevole volume, adorno di 43 fotoincisioni fuori testo, intitolato «Il convento di S. Angelo di Ocre e sue adiacenze».

Prima che il P. Giuseppe Ciavattoni pubblicasse il suo interessante lavoro intorno al Convento di Sulmona, non esistevano speciali monografie dei conventi francescani negli Abruzzi. Sicchè questa sul Convento di Sant’Angelo d’Ocre, che noi presentiamo ai lettori, è la seconda di dette monografie. Essa è frutto di coscienziose fatiche, fatte in massima parte su documenti inediti.

Codesto edifizio di S. Angelo d’Ocre, che fu prima monastero dei Benedettini e poi convento dei Francescani, è tra i più antichi monumenti medioevali dell’Abruzzo aquilano; perciò non si può disconoscere la importanza del lavoro del Costa, il, quale molto opportunamente ha preso prima ad illustrate le antiche città limitrofe al luogo, sul quale fu poi eretto il convento di S. Angelo d’Ocre, cioè Forcona, Aveja e Fossa con la chiesa di S. Maria ad Cryptas. Poi, dopo aver parlato della terra d’Ocre e del suo Castello, si è occupato diffusamente del Convento di S. Angelo di Ocre. Quindi ha disteso la biografia del P. Bernardino da Fossa ed ha fatto particolari ricerche sugli scritti di lui, completando quanto altri storici avevano detto al riguardo. Il volume si chiude con una serie di documenti inediti e con un elenco delle principali opere consultate.

Degna di particolare attenzione è la chiesa di S. Maria ad cryptas in Fossa, la quale, costruita nel IX e X secolo, appartiene all’arte che è romana e bizantina insieme, ma risale al principio di quell’ultimo periodo di evoluzione artistica, nel quale l’arte romana — dal secolo VI in poi sempre più scadente — viene finalmente dall’ottavo al duodecimo secolo soppiantata dalla bizantina e dalla moresca, trionfando il regime feudale.

Tale periodo prelude a quello in cui l’arte romana, risorta e trasformata dai nuovi bisogni della società italiana nell’epoca dei comuni, divenne arte romanza o neolatina.

L’interno della chiesa è tutto dipinto a fresco. Il fronte del grande arco a destra di chi guarda la parete meridionale e le lunette della cappella a capo della chiesa presentano le più antiche pitture, le quali rimontano al secolo duodecimo.

Questi affreschi e quelli del secolo tredicesimo, che si ammirano in S. Pellegrino presso Boomiraco, dimostrano l’esistenza di una scuola di pittori abruzzesi nel XII e XIII secolo, capace di produrre opere cospicue, e sopratutto importanti per la storia dell’arte.

Noi ci auguriamo che il bel lavoro del Costa sia di valido incitamento a trarre altre monografie dalla miniera aurifera delle memorie francescane d’Abruzzo, perchè tanti altri conventi di quella nobile regione sono degni di essere illustrati.

La voce di Napoli nell'India lontana


Parlando con Fortunino Matania


In questi giorni è passato per Napoli e vi si è trattenuto poche ore uno dei più geniali artisti che abbia l’Italia e certamente uno fra i più grandi illustratori che si conoscano in Europa, voglio dire Fortunino Matania, figliuolo di Edoardo, anch’egli pittore e illustratore dei più celebrati.

I due Matania si sono trasferiti da parecchi anni a Londra perchè la loro arte — è doloroso dirlo — è molto più apprezzata laggiù che non da noi; ma il loro cuore è con noi, qui, in questa Italia ancora costretta a concedere ad altri i suoi figliuoli migliori, e il loro amore è per Napoli dove nacquero entrambi, dove appresero ad amare l’arte e a intenderla, dove lavorarono primamente, il padre accanto ai più grandi pittori del suo tempo come il Morelli e il Palizzi, il figlio accanto al padre che fu l’unico suo grande maestro.

[p. 108 modifica] Il loro amore è per Napoli di cui essi, artisti d’una sensibilità squisita, intendono tutta la vita e tutta la poesia, e di Napoli diletta una continua nostalgia li punge anche in mezzo agli onori che l’Inghilterra prodiga loro costantemente per conquistarne lo spirito come già ne conquistava l’opera.

E forse questo lavoro lento, assiduo... lusinghevole di conquista, sarebbe giunto al suo termine se i due artisti non fossero napoletani. Perchè il napoletano rimane tale anche quando abbia trascorso metà della sua vita in paese straniero e lo diventa di più proprio quando tutto tende ad allontanarlo dal suo luminoso paese. È come una protesta che si determina in lui e che gli fa, in mezzo ad estranei, accentuare i coloriti della sua gente e di più al suo paese lo avvicina quanto maggiormente tendano gli altri ad allontanarvelo.

Così mentre la loro casa di Londra, in una delle più aristocratiche avenues della metropoli, è un cantuccio di Napoli trasportato o meglio faticosamente e minuziosamente ricostruito all’ombra di Westminster, i loro disegni sullo Sphere e i loro quadri esposti nelle più importanti gallerie londinesi rievocano nei concetti, nei tipi, nei colori l’Italia che essi amano e Napoli che mise nella loro anima il calore e la luminosità dei suoi incantevoli meriggi.

È trascorso poco più di un mese da quando Edoardo Matania, che ha trascorso la sua maturità operosa a illustrare le pagine più belle del nostro Risorgimento, disegnò per lo Sphere un allegoria che impresse un fremito di gioia e di fervore ad ogni cuore italiano. In essa l’Italia brandiva la spada dell’antica Roma per la riconquista del suolo africano e il concetto di alto sentimento patriottico era svolto con una grande genialità di dettagli e con una vivacità di tecnica assolutamente giovanile, sì che a vederlo era difficile immaginare che lo avesse pensato ed eseguito un uomo che da parecchi anni ha superato i sessanta. Ma Edoardo Matania, tutto bianco nei capelli e nella piccola barba a punta, ha un cuore che non invecchia mai e mentre egli celebrava nel piccolo quadro, che racchiudeva venti secoli di speranze, la rinnovata grandezza della sua patria lontana, il figliuolo, Fortunino, navigava verso le Indie per celebrare con l’arte italiana il trionfo del Monarca inglese sui popoli dell’Oriente asserviti al suo imperio.

Al ritorno da questo lunghissimo viaggio compiuto parte sul mare, parte sul dorso di elefanti. Fortunino ha voluto rivedere anche per breve ora la città che egli ama ed alla quale deve la fiamma dell’arte che tiene accesa nel petto. E noi abbiamo trascorso un giorno assieme, — poichè ci lega l’affetto della puerizia vissuta da presso — rievocando e sognando come ai bei tempi della nostra adolescenza, mescolando i ricordi del nostro paese alle visioni dell’Oriente, confondendo in un quadro unico le impressioni nuove con i tratti sbiaditi e sempre percettibili delle nostre tentazioni lontane.

Fortunino Matania parla come dipinge, impegnando una fantasia che non si affievolisce mai, colorendo con le parole, chiedendo, al più spontaneo e fresco dialetto napoletano le imagini concettose, disegnando col gesto che non ha riposo. Egli mi ha descritto col suo linguaggio frastagliato, di cui ogni parola somiglia una pennellata insuscettibile di pentimenti, le sue corse attraverso le pianure indiane, le sue soste in vecchie moschee crollanti, assediate da turbe di sciacalli che neppure i fuochi accesi da un fedele servo indigeno valevano ad allontanare, la grande città angusta per i suoi abitanti, fetida di aromi bruciati agli Dei, più popolata da scimmie e da avvoltoi, che da creature umane, sotto un cielo turchino, limpido, luminoso — mi diceva — come quello di Napoli.

Egli che conosce tutta l’Europa, che ha percorso parte dell’America settentrionale e che tornava appena da un lungo soggiorno in Asia, elevava spesso Napoli a termine di paragone più per una compiacenza, lo credo, che per rendere meglio accessibile a me le sue descrizioni. Sentendolo parlare mentre insieme seguivamo la via tortuosa che dalla collina del Vomero pare voglia fermarsi al mare, senza giungervi mai, io avevo l’impressione netta, decisa che egli aveva attraversato le Indie inglesi recando nel cuore, in segreto, come un prezioso amuleto, la visione di Napoli che si offriva in quel momento al nostro sguardo, nitida per le pioggie recenti. E di questa mia impressione, verace solamente in parte, io mi resi conto più tardi, quando Fortunino giunse a descrivermi la cerimonia solenne della incoronazione di re Giorgio.

Presso alla città di Delhi era stata costruita una nuova città, tutta tende, per ospitarvi circa duecentomila fra sudditi inglesi accorsi da ogni parte dell’India, dell’Europa, dell’Africa ad assistere alla solenne funzione.

Più lontano ancora di molti chilometri, in mezzo ad una pianura sterminata, una di quelle radure che chi conosce solo l’Europa non può immaginare, sorgeva un enorme anfiteatro del raggio di parecchi chilometri, in mezzo al quale si levava verso il cielo, ad un altezza quasi fantastica, il trono reale: due sedie dorate e incastonate di gemme preziose che rilucevano ai raggi di un sole accecante.

Al momento della cerimonia il vastissimo anfiteatro conteneva oltre 300,000 persone; una marea di piccoli uomini che vederla dal trono pareva una densa colonia di formiche agitata per l’angustia dei confini impostile. Vi erano lords, consoli, rajahs, soldati delle colonie, umili indiani miseramente coperti, tutti raccolti senza eccessiva distinzione di caste, in una grande confusione delle più strane foggie di vestire, intorno al Re e alla Regina seduti sul loro trono, al culmine del gigantesco castello che li avvicinava più al cielo che agli uomini, come due idoli irraggiungibili.

Ad un tratto, al momento in cui la corona preziosa, fatta tutta di gemme strappate ai tesori dell’arte e della fede braminica, veniva posata sul capo biondo del Conquistatore, le bande musicali, raccolte ai piedi del trono, intonavano un inno d’una solennità materiata di luce e di poesia a celebrare l’avvenimento inobliabile.

— E sai tu che cosa hanno suonato, in un magnifico unisono, centinaia di stromenti che rilucevano al sole? — mi ha chiesto Fortunino Matania, con un po’ [p. 109 modifica] di tremito nella voce. — Hanno suonato, capisci, — ha proseguito — ’O sole mio! la nostra bella, la nostra cara, la nostra indimenticabile canzone napoletana.

«Io non so descriverti con parole l’impressione profonda che ho provata. A circa due mesi di viaggio dal mio paese, fra una turba innumerevole di gente che mi era estranea per sentimenti, per usanze, per fede, io con qualche altro italiano, ma io solo, capisci, io solo napoletano, nel sentire la voce della mia città esprimersi sotto un cielo luminoso come il suo, ma tanto, tanto lontano; nel sentire la bella melodia grata al mio orecchio e dolce al mio cuore, ho pianto come un fanciullo, senza ritegno, perchè altri piangevano con me, ma diversa era la causa del loro pianto.

«Io rievocavo le parole di cui solo potevo intendere, fra tutto un popolo, il significato e la poesia e lasciavo scorrere le lacrime, le quali non erano amare di nostalgia, no, ma erano piene di dolcezza, ed erano balsamo al mio cuore di napoletano sbalzato, per le esigenze della vita, in una terra tanto lontana. Erano lacrime, non ti sembri esagerato ciò che ti dico, di vera soddisfazione e di fierezza. Io ero fiero, è la parola, di vedere un popolo dissimile dal nostro perfino nel colorito della sua epidermide, prostrarsi e commuoversi ad una melodia nostra, ad una canzone napoletana, come ero fiero che la canzone, che è la espressione più gentile di nostra gente ed è la voce della città nostra, avesse valicato i monti e superato i mari per soggiogare un popolo semplice ed esuberante dal quale tutte le nostre arti più belle trassero origine.

«E da quel giorno il pensiero della mia Napoli non mi si è tolto più di mente, suscitandomi nell’anima un nostalgico desiderio di rivederla».

Ecco perchè la mia sensazione, all’udire le parole dell’artista, non era del tutto infondata. E’ impossibile immaginare che cosa sia per un napoletano la sua canzone udita lontano dalla città che ne produce infaticabilmente. E’ il richiamo che supera ogni altro, è la voce della città che si manifesta, con lusinghe amorevoli, con tenerezze materne. A Londra o a Pechino ’O sole mio o Duorme Carmè, rievocheranno, in ogni circostanza, le più caratteristiche espressioni della passionalità napoletana, rievocheranno il paesaggio incantevole, il golfo luminoso, il Vesuvio, rievocheranno Napoli o parrà da questo esser chiamati con lusinghevoli blandizie come da una sirena incantatrice.

Ed è bello che Napoli; fra tutte le città, abbia nella canzone la sua voce che non conosce confini, la sua voce che ci raggiunge lontano, che ci rianima, che ci esalta, che parla, con la sua musica, al cuore di popoli stranieri e li induce al pianto o alla gioia.

La notte era scesa sul mare quando Fortunino, un po’ triste, mi disse:

— E se questa voce un giorno dovesse spegnersi?

Ma il mio vecchio amico aveva appena manifestato questo tormento, che una voce, una sottile voce che partiva da una finestra aperta sul golfo, quasi a rispondere alla sua domanda, si pose a cantare il ritornello di una canzone nuovissima, che entrambi udivamo per la prima volta:

E basta sulamente ’o mandulino
pe canta ’e ttrezze belle e ll’uocchie doce
n’aria ’e ciardino
un filo e’ voce
stu core nuosto
ca, ride o chiagne, vo’ sempre cantà.

Ed entrambi soddisfatti, udimmo il canto che si perdeva lontano e dicemmo a noi stessi che la voce di Napoli non si spegnerà mai.

Pasquale Parisi.

LE SUORE A DERNA


Un collaboratore della Stampa manda da Derna al suo giornale quanto segue:

Le monache, che da anni sono qui, dove hanno aperte delle scuole, dove da anni esercitano il loro apostolato di carità e di fede, guadagnandosi la riconoscenza, l’affetto e la simpatia degli abitanti da loro beneficati, dopo una breve assenza da Derna, al principio della campagna, assenza, alla quale furono costrette dai pericoli della guerra e dalla incertezza delle sorti della città, sono da tre mesi tornate alla loro casa, nel centro del paese, dove hanno ripreso, con maggiore zelo il loro ministero di pietà.

È già noto come allo scoppiare delle ostilità, esse, a malgrado delle promesse di protezione, fossero dal Bimbasci turco, imprigionate, insieme ad altri italiani, in una casa, in riva al mare, e custodite severamente. È anchè noto come esse furono liberate dall’intervento pronto ed energico di alcune nostre navi da guerra. La salvezza la dovettero alla devozione di Alì, un loro giovane servo arabo, affezionato e fedele. Imprigionato insieme con loro, Alì potè evadere audacemente dalla prigione, e, con una marcia celere e forzata di due giorni portarsi a Tobruk, dove al comandante la squadra, colà ancorata, potè riferire della prigionia degli italiani. Furono inviati sollecitamente soccorsi, e le navi da guerra di fronte a Derna intimarono la consegna immediata dei prigionieri, minacciando il bombardamento della città. La scarcerazione avvenne subito, e gli italiani detenuti furono accolti con gioia dalle navi e trasportati altrove.

Ma sbarcato il 22° fucilieri, al comando del colonnello Zuppelli, a Derna, occupata stabilmente la città, ed eseguiti i primi trinceramenti sull’altipiano, le monache vollero tornare al loro posto ed al loro ministero, e Derna accolse festosamente il piccolo stuolo capitanato dalla dolce suor Maria Teresa. Esse cooperarono efficacemente al buon funzionamento di un ambulatorio sanitario, aperto per gli indigeni, dagli ufficiali medici, e diretto dal, valente chirurgo capitano Verando; esse ripresero le loro funzioni di maestre dei piccoli arabi; esse si improvvisarono infermiere attente e premurose dei soldati ammalati, esse furono le sorelle affettuose dei soldati feriti nei vari combattimenti, e i soldati ora si inchinano al passaggio delle suore e loro sorridono con espressione di gratitudine. [p. 110 modifica]Oggi il piccolo; drappello delle religiose fece una breve passeggiata lungo gli accampamenti militari, scortate dal fedele Alì. Quando giunsero agli accampamenti del 22° fucilieri, e passarono dinanzi alla sentinella, all’ingresso, suor Teresa, la madre superiora, si staccò dalle compagne, si appressò alla garetta, e sul piovente di zinco del piccolo tetto, depose un fascicoletto di preghiere e di immagini. E il piccolo, grande atto gentile, suor Maria Teresa compì sorridendo soavemente, senza rivolgere pure una parola alla sentinella estatica, poichè ella sapeva che il regolamento militare proibisce alla sentinella qualunque colloquio con gli estranei. Ma fu eloquente lo sguardo carezzevole della suora pia, ma fu eloquente il velo di commozione di cui si copersero le pupille della fiera sentinella immobile. Proseguirono le monache e giunsero nel piazzale dove suonava la musica, e si soffermarono tra la folla per niente intimorite, per niente imbarazzate, sorridendo ai soldati, mentre questi ricambiavano saluti e sorrisi. Varii ufficiali si appressarono a ossequiare le dame soavi della pietà, e con essi suora Maria Teresa scambiò cortesi parole.

Il cappuccio delle «balayeuses»


Una classe umile, modesta, poco nota, di paria femminili è venuta fuori dall’ombra che la nasconde alla folla e s’è affermata in una lettera aperta al Prefetto della Senna, una lettera collettiva che non si chiude con nessun lampo di minaccia, con nessuna lista di «rivendicazioni» ; ma con la richiesta di un indumento francescano: un cappuccio. Sissignori, le «balayeuses» municipali chiedono un cappuccio; un cappuccio che renda loro meno duro il lavoro, a cui sono costrette per tener pulita Parigi, e la cui descrizione fa rabbrividire le Parigine eleganti, sorridenti e spensierate....

Perchè, sapete quante sono le Parigine le quali ignoravano, prima d’oggi, che il compito di tener pulita e bella la loro città, di lavarla all’alba o prima dell’alba di tutte le brutture accumulate il giorno prima, è affidata in gran parte ad un migliaio di lavoratrici loro sorelle?

Ogni notte alle tre, all’ora in cui i meno pigri si rannicchiano ancora sotto le coltri, quando l’idea sola di affrontare il freddo intenso della notte fa rabbrividire, esse cominciano il loro lavoro. Per giungere al punto fissato, la maggior parte han già dovuto camminare forse una lunga ora attraverso vie deserte o quartieri pericolosi.

Vengono dalla periferia al centro elegante della capitale; giungono da Belleville, da Vaugirard, dai confini della Villette, talvolta persino dalla «banlieue...».

Lasciano furtivamente le povere dimore per non svegliare i bimbi; e con la testa ravvolta nei loro scialli bianchi si mettono in cammino. Vanno naturalmente a piedi: i trams e gli omnibus non corrono in quell’ora. E prima del crepuscolo sono al posto di servizio. Più tardi una vicina avrà cura dei bimbi lasciati in casa, li vestirà, li condurrà a scuola o alla «crèche»: la povera gente, a Parigi, è generosa....

Quando scoccan le quattro, il capo cantoniere procede alla chiama. Le «balayeuses» fanno cerchio intorno e rispondono al loro nome. Guai a chi manca: tre ritardi in un mese ha per effetto una diminuzione sensibile di salario e l’applicazione di varie pene disciplinari.

Il capo distribuisce il lavoro alla sua squadra. Sino alle 6 d’estate, sino alle 6 e mezzo d’inverno, le «balayeuses» spazzano le vie.... Venti minuti di riposo per lo spuntino. Poi s’incamminano verso i carri. Mentre gli uomini vuotano le casse delle spazzature, le donne puliscono dietro di loro, raccogliendo verso le cloache le immondizie sfuggite ai veicoli.... Ora il sole è già alto. Le macchine da spazzare, al passo stanco dei vecchi ronzini stimolati, ad ogni tratto, dalle bestemmie dei vecchi carrettieri, hanno percorso le vie: le fontane sono aperte, l’acqua scaturisce lungo i marciapiedi. Le «balayeuses» la ricacciano nei solchi fissati e spazzano e lavano il marciapiede. Un’ora prima di mezzogiorno, il lavoro è finito.

Sottoposte agli stessi obblighi dei loro colleghi del sesso forte, esse sono pagate molto meno: tre lire al giorno: un salario di fame. Gli uomini han diritto alla pensione; esse no. Ma, dopo vent’anni di servigi, la città accorda loro un assegno annuo. Tutte non l’ottengono perchè non possono sopportare le fatiche del lavoro notturno e le intemperie dure.

...Ora appunto per difendersi dalle intemperie, tornate più aspre in questo scorcio di inverno, le «balayeuses» parigine domandano al Prefetto della capitale il dono grazioso di un cappuccio, di un cappuccio impermeabile che permetta loro di sfidar la pioggia, il vento diaccio e la neve.

Come farà a dir di no, il primo magistrato parigino?

Domenico Russo.