Il buon cuore - Anno X, n. 13 - 25 marzo 1911/Religione

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Educazione ed Istruzione Società Amici del bene

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Vangelo della quarta domenica di Quaresima



Testo del Vangelo.

In quel tempo, passando, vide Gesù un uomo cieco dalla sua nascita: e i suoi discepoli gli domandarono: Maestro, di chi è stata la colpa, di costui, o de’ suoi genitori, ch’ei sia nato cieco? Rispose Gesù: Nè egli, nè i suoi genitori han peccato: ma perchè in lui si manifestino le opere di Dio. Conviene, che io faccia le opere di lui, che mi ha mandato, fin tanto che è giorno: viene la notte, quando nissuno può operare. Sino a tanto che io sono nel mondo, sono luce del mondo. Ciò detto sputò in terra, e fece con lo sputo del fango e ne fece un empiastro sopra gli occhi di colui. E dissegli: Va, lavati nella piscina di Siloe (parola che significa il Messo). Andò pertanto, e si lavò, e tornò che vedeva. Quindi è che i vicini, e quelli che l’avevan prima veduto mendicare, dicevano: Non è questi colui, che si stava a sedere chiedendo limosina? Altri dicevano, è desso. Altri, no, ma è uno che lo somiglia. Ma egli diceva: Io sono quel desso. Ed essi dicevangli: Come mai ti si sono aperti gli occhi? Rispose egli: Quell’uomo che si chiama Gesù, fece del fango e unse i miei occhi, e mi disse: Va alla piscina di Siloe e lavati. Sono andato, mi son lavato, e veggio. E allora gli dissero: Dov’è colui? Rispose: Nol so. Menano il già cieco ai Farisei. Ed era giorno di sabbato, quando Gesù fece quel fango, e aprì a lui gli occhi. Di nuovo adunque lo interrogavano anche i Farisei, in qual modo avesse ottenuto il vedere. Ed ei disse loro: Mise del fango sopra i miei occhi e mi lavai, e veggio. Dicevan perciò alcuni dei Farisei: Non è da Dio quest’uomo che non osserva il sabbato. Altri dicevano: Come può un uomo peccatore far tali prodigi? Ed erano tra loro in scissura. Dissero perciò di nuovo al cieco: Tu che dici di colui, che ti ha aperti gli occhi? Egli rispose loro: Che è un profeta. Non credettero però i Giudei, che egli fosse stato cieco e avesse ricevuto il vedere sino a tanto che ebber chiamati i genitori dell’illuminato. E li interrogarono, dicendo: È questo quel vostro figliuolo, il quale dite che nacque cieco? come dunque ora ci vede? Risposer loro i genitori di lui, e dissero: Sappiamo che questi è nostro figliuolo, e che nacque cieco; come poi ora ei vegga nol sappiamo: e chi gli abbia aperti gli occhi, noi nol sappiamo; domandatene a lui, ha i suoi anni; parli egli da sè di quel che gli appartiene. Così parlarono i genitori di lui, perchè avevan paura de’ Giudei; imperocchè avevan già decretato i Giudei, che, se alcuno riconoscesse Gesù per il Cristo, fosse cacciato dalla sinagoga. Per questo dissero i genitori di lui: Ha i suoi anni, domandatene a lui. Chiamarono adunque di bel nuovo colui, che era stato cieco, e gli dissero: Dà gloria a Dio: noi sappiamo, che questo uomo è un uomo peccatore. Disse egli loro: Se ei sia peccatore, nol so: questo solo io so, che io era cieco, e ora io veggio. Gli dissero perciò: Che ti fece egli? Come aprì a te gli occhi? Rispose loro: Ve l’ho già detto, e l’avete udito: perchè volete sentirlo di nuovo? Volete forse diventar anche voi suoi discepoli? Ma essi lo strapazzarono, e dissero: Sii tu suo discepolo, quanto a noi siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo, che a Mosè parlò Dio: ma costui non sappiamo donde ei sia. Rispose colui, e disse loro: E quindi appunto sta la meraviglia, che voi non sapete, donde ei sia, ed ha egli aperti i miei occhi. Or sappiamo, che Dio non ode i peccatori: ma chi onora Dio e fa la sua volontà, questi è esaudito da Dio. Dacchè mondo è mondo, non si è udito dire, che alcuno abbia aperti gli occhi a un cieco nato. Se questi non fosse da Dio, non potrebbe far nulla. Gli risposero, e dissero: Tu sei venuto al mondo ricoperto di peccati, e tu ci fai il maestro? E lo cacciarono fuora. Sentì dire Gesù, che lo avevan cacciato fuora, e avendolo incontrato, gli disse: Credi tu nel Figliuolo di Dio? Rispose quegli, e disse: Chi è egli, Signore, affinchè io in lui creda? Dissegli Gesù: E lo hai veduto, e colui che teco parla, è quel desso. Allora quegli disse: Signore, io credo. E prostratosi lo adorò.

S. GIOVANNI, Cap. 9.


Pensieri.

«E passando vide un uomo cieco nato. E i suoi discepoli gli domandarono: Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, ch’è nato cieco? Rispose Gesù: Ne lui peccò, nè i suoi genitori; ma perchè in lui si manifestino le opere di Dio.»

Quante volte anche noi, abbiamo uditi discorsi, apprezzamenti come questo che il Vangelo racconta! Di ogni cosa, di ogni avvenimento, si vuol trovare la causa; ma, intendiamoci bene, non la causa determinante ogni effetto; ma una causa più profonda, più sottile... e si sente parlare in modo, come se Dio, ad alcuni, avesse comunicato i segreti divini della sua provvidenza. Un simile modo di parlare dà sempre un senso di disagio: suona così poco umile, così poco caritatevole! Perchè farci noi come i giudici dei nostri fratelli e assumere una funzione così grave, così delicata?

E perchè attribuire a Dio le nostre passioni di vendette, di rivendicazioni? Non è invece meglio vivere di questa fede: che su tutti e su tutto veglia la provvidenza del Signore, che è provvidenza di sapienza e d’amore, che nel mondo, si svolge e si attua un disegno divino; che gli uomini possono agitarsi, ma che Dio li conduce?

Da questa fede viene un senso di benevolenza verso i nostri simili, anche se ci sembran colpevoli: viene un senso di riverenza, quasi, davanti alle loro sventure; viene una grande forza anche nelle nostre proprie pene.

«Non è da Dio quest’uomo che non osserva il sabato.»

Ecco un’altra traccia dell’astio dei Farisei contro Gesù, della loro sistematica opposizione all’opera sua, che si continua nei secoli, che è diventata la opposizione dell’ipocrisia verso la virtù. Essa cerca di mettere le spalle al muro, di trincerarsi dietro un’arida, meticolosa, pedante osservanza di precetti, di leggi e, di là, crede poter lanciare sicuramente e senza danno i suoi strali. E colpisce, e ha vittorie, ma vittorie [p. 103 modifica]singole, non la finale, la definitiva, quella che vive nei secoli! Ciò che non è unito alla virtù, non dura: l’immortalità è solo dal bene e dal vero.

Dopo effimere, parziali vittorie, gli ipocriti restan smascherati, e più fulgida si vede la gloria dolce e schietta dei buoni, dei veri pii, dei veri religiosi.

Non consiste la pietà profonda nel legarsi ad osservanze esteriori, ma nell’essere intimamente pervasa dallo Spirito. Lo Spirito che ha portato a formular delle leggi e delle ordinanze, che sono una sua emanazione e ne diventano un alimento, sa anche, all’occasione, elevarsi su di esse, e tralasciarle quando è opportuno, è buono farlo.

La pietà vera non inalza mai a fine ciò che è mezzo, nè abbassa a mezzo ciò che è fine; e non dimentica lo spirito per la osservanza della lettera.

Rileggiamo attentamente gli ultimi versetti del testo evangelico.

Non è tanto l’amore della legge, sia pure amore gretto e piccino, che stimola i Farisei: è il timore che l’atto da essi biasimato (la libertà interiore di Gesù rispetto alla osservanza della legge e la sua miracolosa potenza) sia ritenuto vero.

Cercano dunque dapprima di negare il fatto; ma ciò non riesce loro: esso s’impone.

I genitori stessi del graziato portano, pur ritraendosi per paura, una testimonianza.... schiacciante. Allora cercano corrompere il graziato da Gesù, cercano corromperlo, abusando della loro autorità religiosa (che orrore! ) ma il povero, già cieco, non ha solo avuto gli occhi tocchi dalle dita divine, ha avuto, dall’amore di Gesù, commosso anche il cuore: egli non può sconfessare la sua fede in Cristo e resiste a tutte le insidie, resiste con una fermezza così sapiente, così amorosa, così fiduciosa!

E i Farisei lo cacciarono fuori; ed egli fu uno dei primi adoratori di Gesù.... Sono le meraviglie della provvidenza divina!



CARLOTTA MASSA GAGGIERO



A Chieri, il 16 corrente, chiudeva gli occhi alla vita terrena, Carlotta Massa nata Gaggiero, eletta creatura della quale si può dire coll’Ecclesiastico (XXVI. 24): «Come eterni sono i fondamenti gettati sopra salda pietra, così i comandamenti di Dio nel cuore della donna santa.»

Fu alla luce di quella legge divina che ella accese la propria lampada per il cammino della vita, recandola sempre vivida e smagliante a traverso le difficoltà e i dolori inevitabili di quaggiù, elevandola con gratitudine a Dio nelle ore di gioja. — Con quella fiamma Ella diradava le ombre, le oscurità, projettava raggi oltre il confine mortale, per ricordare essere questa vita il preludio della futura e, sacrificando ogni cosa per la educazione dello spirito, illuminava la cara famiglia sua, di quella luce che non muore, la luce della Fede, del Dovere, dell’Esempio. — Nel santuario domestico, col profondo affetto per il degno compagno della sua vita, Ella trasfuse tutto quanto la sua coltura, la sua fine educazione, la sua esperienza potevano dare, informando la direzione dei figli ad una santa e intelligente austerità di studio e di disciplina, unita a una tinta geniale di classicismo attico, — austerità che ne rese forti e saldi i caratteri e iniziò forse l’orientamento di due fra i suoi figliuoli, alle grandi abnegazioni della vita religiosa.

C’è in Piemonte una Suora di San Vincenzo, c’è un Missionario Salesiano al Brasile, che divinarono probabilmente dalle energie materne, il vasto orizzonte degli eroismi cristiani. E, fra di noi, c’è un’altra figliuola, la quale, fervida combattente per la santa causa del bene, vi dedica la penna e la alata fantasia di poeta. Ad essa, al suo venerando genitore, alla famiglia sua tutta, il nostro compianto in quest’ora dolorosa. Sia di conforto il richiamo delle virtù della cara defunta, quello del suo fidente commiato, santificato dalle sofferenze, benedetto dai carismi cristiani: sia di dolce ricordo la sua ultima voce: «Lascio Dio a’ miei figli, ed i miei figli a Dio.»

Avrebbe potuto soggiungere con la grande santa di Siena:

«Tutti voi che mi siete così cari, consolatevi con me; lascio una terra di miserie per un regno di pace.»

G. C.




IL CONTE UMBERTO OTTOLENGHI



Sono trascorsi non molti giorni dacchè lo avevamo incontrato e dalle sue labbra avevamo inteso il sentimento d’una profonda gioia paterna per l’unica, diletta bambina, la quale era guarita dopo momenti di atroce trepidanza. Sempre gentile e buono, esprimeva la gratitudine sua, quella della contessa, dei nonni e dei parenti per l’interessamento affettuoso alla salute della cara creaturina che aveva tenuto in grande agitazione tutta la famiglia. La battaglia era vinta, e nessuno avrebbe pensato mai che egli stesso, il padre felice, si sarebbe trovato quasi tosto alle prese con una malattia ribelle a tutte le cure più intelligenti e affettuose.

A soli 43 anni, quell’Uomo buono, benefico, affabile con tutti, è scomparso dalla faccia della terra, lasciando nella desolazione l’amatissima sua signora, indivisa sempre negli affetti famigliari come nelle predilette opere di carità; e la notizia della sua precoce dipartita ha suscitato unanime rimpianto.

Noi che abbiamo avuto più volte occasione di apprezzare la nobiltà degli ideali del Conte Umberto Ottolenghi; noi che da Lui abbiamo avuto tante prove della sua generosità spontanea, della sincerità de’ suoi affetti, della elevatezza de’ suoi sentimenti, esprimiamo le più vive condoglianze ai superstiti in lacrime, assicurandoli che il loro strazio è condiviso da centinaia di cuori memori e riconoscenti.

A. M. C.