Il buon cuore - Anno X, n. 10 - 4 marzo 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno X, n. 10 - 4 marzo 1911 Beneficenza

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PRO ERITREA

Nella mattinata di domenica, il bel tempio dei Padri Cappuccini in viale Monforte era rigurgitante di fedeli desiderosi di assistere alla solenne cerimonia della consacrazione vescovile del Vicario Apostolico dell’Eritrea.

Nel semiarco sulla porta maggiore della maestosa chiesa del S. Cuore, una iscrizione di proporzioni modeste ma concettose, così riassumeva lo scopo della festa straordinaria: Religione e patria — implorano ad una voce — i doni dello Spirito Santo — a padre Camillo d’Albino — per augusto volere di Pio X — primo vicario apostolico dell’Eritrea — che oggi in questo tempio — assorge alla pienezza del sacerdozio.

La funzione si svolse maestosa. Consacrante il Cardinale arcivescovo eminentissimo Ferrari, assistite da monsignor Radini-Tedeschi, vescovo di Bergamo — la diocesi di padre Camillo — e da monsignor Paolo Tei, vescovo di Pesaro, per lunghi anni predicatore apostolico e vanto dell’Ordine dei cappuccini. Un altro vescovo cappuccino aveva pur voluto intervenire, monsignor Fiorini di Pontremoli. Delegati erano giunti da tutte le provincie cappuccine dell’Italia: pel padre generale Pacifico da Seggiano, impedito all’ultimo momento di prender parte ad una festa che tanto gli stava a cuore, era presente il suo segretario padre Giovanni Maria da Albino, conterraneo del consacrando; della Toscana salutammo una vecchia cara conoscenza, padre Felice da Porretta, che predicherà la imminente quaresima in San Petronio a Bologna; pure la provincia svizzera aveva tenuto a dare prova di fratellanza inviando il provinciale padre Alessandro da Schmerikon col segretario padre Teodoro da Briga già segretario del defunto generale padre Bernardo da Andermatt: moltissiini i rappresentanti dei conventi milanesi, bergamaschi e bresciani, con fra altri padre Isaia — l’eroico cappuccino del maggio 1898 appunto a porta Monforte la cui figura è lumeggiata anche in una rievocazione di quei giorni dolorosi fatta testè da una penna fiorentina -- padre Paolino da Verdello. E da Albino il sindaco con vari consiglieri comunali; da Bergamo anche un forte manipolo di terziari francescani; da Milano l’Associazione nazionale di soccorso ai missionari italiani col suo presidente nob. Carlo Bassi e col socio A. M. Cornelio; il capitolo del Duomo col canonico onorarior monsignor Luigi Cornaggia-Medici, il capitolo di S. Ambrogio con mons. Vitali, il collegio dei parroci coi prevosti mons. Locatelli di S. Stefano maggiore, Bigatti di S. Francesca Romana e Riva di Santa Maria del Suffragio; rappresentata altresì la famiglia sorella dei Minori francescani.

Al Vangelo salì il pulpito l’eminentissimo Cardinale Ferrari e la sua parola fervidamente cordiale disse delle grandezze, delle benemerenze, dei doveri dell’ufficio di vescovi, cui deve corrispondere nei sacerdoti e nei fedeli il sentimento profondo del rispetto e della venerazione; la mancanza in ciò ad un sol vescovo colpisce l’episcopato intiero, colpisce la Chiesa, ridonda a iattura somma della società; terribile è la responsabilità di chi se ne rende colpevole....

Il pranzo ebbe luogo nell’ampio refettorio del convento. Alla tavola d’onore il Cardinale arcivescovo con alla destra il nuovo vescovo e mons. Tei e alla sinistra mons. Radini e mons. Fiorini: nelle altre tavole, in francescana mescolanza, senza distinzioni di grado ecclesiastico o sociale, frati, sacerdoti e laici.

Verso la fine, il nob. cav. Carlo Bassi, quale presidente dell’Associazione Nazionale di soccorso ai Missionari Italiani, prese pel primo la parola, e accennò rapidamente ai rapporti colla Missione nell’Eritrea dal suo inizio, alle ore trepide, ai momenti di gioia e di dolore in comune col rimpianto padre Michele da [p. 74 modifica]Carbonara; formò quindi fervidi voti per il successore ed espresse devota riconoscenza a S. S. Pio X che si compiacque affidare la Missione ai Cappuccini lombardi elevandola a Vicariato Apostolico.

P. Gerolamo da Lomazzo, guardiano del convento di viale Monforte — autore della bella iscrizione sulla porta del tempio — volse il pensiero alla cara Eritrea per l’Italia campo di sacrifizio e d’eroismo; i confratelli vi accompagnano padre Camillo ed i suoi collaboratori colla preghiera e col voto che, secondo l’espressione del grande cardinal Massaia, mercè il vangelo vi trionfi la civiltà. Porge omaggio riconoscente al Cardinale ed ai vescovi; e comunica le adesioni telegrafiche del padre generale Pacifico da Seggiano, del vescovo di Treviso mons. Longhin (cappuccino egli pure), del bergamasco mons. Signori, nuovo vescovo di Fossano, del commendatore Schiaparelli, dei prevosti di Albino e di Verdello, di varie provincie cappuccine, e degli onorevoli Meda e Nava.

Monsignor Tei — frate Paolo della Pieve di Cotrone, predicatore in Vaticano per oltre quindici anni, fino al 1904 — si rivolge al cardinal Ferrari facendosi eco delle parole dette dal venerato nostro pastore sul pulpito. Al vescovo si deve rispetto, obbedienza, riconoscenza; chi non è col vescovo non è col Papa e chi non è col Papa non è con Cristo. «Voi dovete sentirvi confortato, in questi giorni, dall’esplosione generale d’affetto e di adesione di fronte ad accuse indegne. Eminenza, qui veggo vescovi, religiosi sacerdoti, popolo di Milano e di Lombardia e d’Italia; io invito tutti ad applaudire all’arcivescovo di Milano (applausi entusiastici). La vostra dignità, Eminenza, è superiore a tutte le offese; nessuna penna giungerà mai a portare col suo inchiostro una macchia sulla vostra porpora. Vi hanno assalito come vescovo, noi vescovi partecipiamo al vostro dolore (applausi fragorosi). Questi applausi di cuori a voi attaccati e per voi attaccati al Papa, salgono al cielo; solo l’insulto piega e cade in basso. Chi insulta il vescovo insulta a Cristo. Noi vogliamo la Chiesa quale Cristo l’ha istituita.....» (nuovi applausi).

Indirizzandosi poi a padre Camillo, monsignor Tei ricorda di avere cooperato all’istituzione della Missione Eritrea. Leone XIII a lui affidò la scelta dei primi missionari cappuccini. E ricorda pure come quando giunse a Roma l’oscuro telegramma fatale annunciante il disastro di Abba Garima, trovandosi egli appunto in Vaticano per la consueta predica quaresimale, questa terminata, il grande Pontefice lo chiamasse e stringendogli forte le mani gli chiedesse: «Ditemi, non avete nessuna notizia più precisa di quei poveri figlioli massacrati laggiù?... Padre Michele non ha telegrafato?... Troppo laconica è quella comunicataci; noi temiamo che il disastro sia maggiore....» Ho veduto piangere il Papa, quella mattina!... Alzò le mani al cielo e:«Poveri miei figli! Iddio vi chiami all’eterno riposo!» E quando da padre Michele da Carbonara arrivarono notizie dolorosamente più precise e diffuse, Leone XIII volle gli si scrivesse di suffragar ampiamente colle preghiere della Chiesa le anime dei caduti e di soccorrere con ogni miglior modo i superstiti rendendo meno dolorosa la catastrofe terribile.

«Quei nostri poveri fratelli — prosegue monsignor Tei — son morti vittime del dovere; il loro dovere devon compiere gli altri italiani che laggiù vanno e voi, padre Camillo, co’ vostri compagni, ne sarete esempio....»

In seguito, A. M. Cornelio si fece interprete dei poveri del quartiere, presentando i loro auguri al nuovo Vescovo, vero ideale di bontà e di carità inesauribile. Ho imparato ad amare i cappuccini fin da fanciullo egli disse — sulle pagine dei Promessi Sposi, ed ancor oggi, quando vedo una bella barba di frate, mi par di scorgere il prototipo creato dal grande poeta lombardo, il padre Cristoforo. — Alludendo agl’inqualificabili attacchi della Riscossa e facendo eco alle ispirate parole di mons. Tei, esclamò: — Lasciamo gracidare i ranocchi nei lor pantani: noi tutti affermiamoci figli affezionati dell’eminentissimo Principe, che regge quest’Archidiocesi, e stiamo sicuri di esser così col Sommo Pontefice, con tutti i vescovi viventi e anche coi defunti (ilarità).... Sì, anche coi defunti: mi sovvengo di un vescovo illustre, il rimpianto Scalabrini, il quale in un’ora di dolore, stigmatizzando le esorbitanze di certa stampa sedicente cattolica, così sintetizzava la sua fatidica requisitoria: Guai se venisse un giorno in cui i vescovi fossero costretti al silenzio! — Dopo questa rievocazione, il Cornelio rivolge parole affettuose al Vicario Apostolico, dicendogli: Vi accompagnano sulle sponde africane i più fervidi voti dei vostri conterranei, di tutti i vescovi, di tutti i confratelli, di tutti gl’italiani che armonizzano in cuore i santi amori alla Religione e alla Patria.»

Mons. Radini.Tedeschi, confermando ciò che doverosamente ed eloquentemente dissero i precedenti oratori ed espressa la fiducia nel crescer dell’opera che in terra africana diffonde la civiltà e rende glorioso il nome italiano all’ombra della croce, insiste sulle parole di monsignor Tei al Cardinale arcivescovo; non solo all’alto dignitario ecclesiastico, ma anche alla persona di Carlo Andrea Ferrari va il plauso di tutti i vescovi di tutti i fedeli. Il Cardinale di Milano è, così per dire, un prisma: tutti i raggi ch’esso riflette sono smaglianti e puri. «Stamane gli ho portato l’omaggio non solo mio, ma di tutta la mia diocesi; in quest’ora difficile egli dev’esser lieto delle spontanee e generali manifestazioni a lui rivolte.»

Monsignor Cornaggia-Medici riafferma nell’ora attuale la venerazione del clero milanese verso il suo pastore e s’allieta della nuova splendida testimonianza che colla nomina di padre Camillo il S. Padre ha dato ai religiosi lombardi.

P. Camillo da Albino — d’ora innanzi monsignor Carrara — ringrazia commosso. Il cuor suo è lieto ed esulta non per la dignità conferita alla persona sibbene per l’onore che ne proviene all’Ordine cui ha consacrato la sua vita. Fa vibrare con vigorosa delicatezza la nota patriottica e religiosa; manifesta la vivissima riconoscenza sua e de’ suoi confratelli al Santo Padre; alle prove di benevolenza dategli dal Cardinale risponde: [p. 75 modifica]«Noi vogliamo seguir l’esempio vostro d’apostolato infaticabile.» Ringrazia i vescovi consacranti, il presidente dell’Associazione di soccorso ai missionari, le rappresentanze della sua Albino e di Bergamo, tutti; le odierne manifestazioni saranno sprone a lui ed ai compagni per un’opera intensa del servizio della Chiesa e della patria italiana.

Il Cardinale arcivescovo Ferrari prende occasione dal titolo episcopale di Agatopoli (città dei buoni) oggi stesso conferito al P. Camillo, per constatare come il vicario apostolico dell’Eritrea, avendo per punto di partenza due città dove i buoni sono in così grande numero: Bergamo e Milano — e l’elogio di Milano viene a Sua Eminenza dal cuore, con frasi veramente paterne — abbia per punto di arrivo una contrada dove merce l’opera sua e dei cappuccini i buoni si moltiplicheranno e dove i nomi inseparabili di cattolicismo e d’Italia saranno benedetti. Ringrazia per le commoventi testimonianze d’affetto: «Prego il Signore che tutti ricompensi per tanta carità e tutti benedico.»

Al loro uscire l’Eminentissimo e mons. Carrara sono fatti segno a nuove vive e generali dimostrazioni di plauso.

Nel pomeriggio in chiesa, P. Ezechia da Iseo parlo eloquentemente della Missione eritrea; la benedizione solenne coi Santissimo fu impartita dal Vicario Apostolico dell’Africa italiana.



Convegno nel Salone dei Ciechi


L’adunanza ebbe la caratteristica speciale dei convegni più culminanti, come quelli tenutisi per l’inizio della Missione nell’Eritrea, ispirati a schietto amor di patria e a santo amore della religione.

Ai posti d’onore sedevano i due vescovi dell’Ordine dei Cappuccini, mons. Tei e il primo Vicario Apostolico dell’Eritrea, mons. Carrara.

I ciechi diedero un magnifico saggio di musica istrumentale e vocale; poi monsignor Tei, levandosi nella sua maestosa figura di francescano operoso, parlò con efficacia della missione nell’Eritrea. Ricordò l’affidamento dato dal Papa, in nome del padre generale, in nome proprio, in nome degli ascoltatori. L’eloquente oratore francescano ricorda i suffragi del compianto padre Michele da Carbonara per i caduti sulle sabbie africane; accenna ai propositi pacifici del defunto padre Michele, ed evocando le ombre dei caduti sulle ambe della Eritrea, afferma che il sangue dei soldati uccisi dal ferro nemico metterà germi di civiltà, di progresso, di redenzione sociale e religiosa.

Si levò poi l’onorevole ing. cav. Cesare Nava, noto per accento vibrato e per facondia. Egli, mandato al nuovo prefetto dell’Eritrea il saluto augurale a nome di Milano, tocca delle sue doti elette di mente e di cuore, ne tratteggia l’indole equilibrata dell’animo umile, mite e pio; doti che gli meritarono i suffragi onde i confratelli suoi il chiamarono, sebbene in ancor giovane età, a uffici delicatissimi; nè tace delle importanti missioni commessegli dal Sommo Pontefice e dal ministro generale dell’ordine suo. L’oratore rammenta il rapporto della difficile e delicata missione del Maranhao e ne mette in rilievo la umiltà, lo spirito di sagrificio come l’acume del giudizio e la prontezza dei provvedimenti. Lo commuovono, giustamente, i miracoli di carità, di redenzione religiosa, civile, sociale di cui furono oggetto i ragazzi della colonia di Sant’Antonio da Proto. E prosegue:

«Ebbene — eccellenza — Iddio appaga finalmente ogni vostro desiderio, ogni aspirazione vostra: ed apre davanti a voi, alla vostra attivita, al vostro sapere, alla vostra carità, alla vostra fede, un vastissimo campo di azione. Egli vi crea padre spirituale di una immensa regione, dove le differenze di stirpi, di credenze, di civiltà, opporranno — è vero — difficoltà gravissime alla efficacia del vostro lapostólato: ma dove voi, coll’aiuto di Dio, e colla serena energia vostra, saprete compiere molto e molto bene; conquistando nuove anime alla fede, nuovi figli alla civiltà e facendo rispettato, ma sopratutto amato, il nome di Italia.»

Accenna l’oratore rapidamente alle difficoltà della missione per l’esistenza nella colonia di tribù diverse per origine, per tradizioni, per costumi e sopratutto per religione. Quasi non bastasse, si oppone all’opera del missionario cattolico la propaganda protestante delle missioni svedesi.

A questo punto l’on. Nava, colla scorta di documenti stampati, cita un bel periodo dell’on. Ferdinando Martini, pur troppo dimenticato più tardi dal Martini medesimo:

«Penso — scriveva egli allora — il governo gioverebbe a sè e ad altri se, cogliendo la palla al balzo, pregasse i missionari protestanti che portano a spasso per l’Eritrea le loro barbe fluenti e i loro soprabiti attillati, di andarsene altrove. Già, la propaganda fatta tra gente che muore di fame, a furia di dura e di talleri, non so quanto giovi alla religione; certo è che offende il sentimento morale. Inoltre, questi signori che muovono dalle lande della Svezia e se ne vanno in Africa col solo fine di strappare dall’anima di un popolo il culto della Vergine, sola poesia che gli rimanga, credono, non v’ha dubbio, di fare opera santa, ma la fanno iniqua.

«È giusto riferire — egli scrive — quanto affermano gli Abissini medesimi, che, cioè, tra il missionario cattolico e il protestante corre grande divario. Il cattolico sta a sè, non cerca gli indigeni, attende che attratti dalla pietà delle opere o dalla esemplarità del costume, si rivolgano a lui: il protestante invece, irrequieto, con la speditezza pertinace e febbrile delle razze nordiche, s’imbuca nei più oscuri angoli delle capanne, s’inoltra pei reconditi penetrali delle famiglie e s’attacca e tormenta e assilla e non lascia. Noi, ai quali conviene essere su questo punto scrupolosi e guardinghi, largheggiammo fin qui con gli svedesi, regalando loro terreni per chiese e scuole.»

E largheggiammo — commenta l’on. Nava — nonostante che nelle loro scuole tutto si insegni, all’infuori della lingua italiana e della storia d’Italia.

[p. 76 modifica]«Qualche mese fa si levò bensì una voce nel nostro Parlamento, contro la indifferenza del nostro governo, rispetto all’opera anti-italiana di questi svedesi; ma cosa strana, chi ne prese le difese fu appunto il Martini, il quale, dimenticando quanto aveva scritto pochi anni or sono, ebbe il coraggio di dire che gli sembrava molto inopportuno che il governo avesse a richiedere alle missioni svedesi, che attendessero all’insegnamento della lingua e della coltura italiana, perchè ciò le distrarrebbe evidentemente da molti altri lavori che esse compiono in Eritrea.

Oh! se invece di protestanti si fosse trattato di missioni e di missionari cattolici, chissà quali invettive contro una propaganda, fatta nei nostri possedimenti, a tutto danno certamente della nostra influenza politica civile!

Ma voi — eccellenza — guardate serenamente a tutte queste difficoltà che rendono anche più spinoso il compito vostro, fidente come siete nell’aiuto di Dio!

Tutta una folla di sacri ricordi si presenta del resto, in questo momento, alla vostra mente e reca conforto coraggio all’animo vostro, e vi fa sicuro che l’opera che state per iniziare sarà benedetta e feconda di copiosi frutti; i ricordi degli eroismi, dei martirii, delle fatiche sopportate da tanti vostri confratelli nei tempi passati, ed in quelli a noi vicini, per la evangelizzazione dell’Africa.

Deplora l’oratore la deficienza dei soccorsi che il governo italiano largisce alle nostre missioni. Le nostre scuole all’estero costano 1.650.000 lire, e di questa somma solo l’8 per cento si assegna alle scuole confessionali che contano 22000 allievi, mentre il 92 per cento viene assegnato alle scuole laiche con 16000 allievi soltanto.

Quale differenza con la Francia — ferocemente anticlericale all’interno — ma che assegna alle scuole delle sue missioni, la metà del suo bilancio per le scuole all’estero: ed anche con la Germania, protestante, che largamente sussidia le scuole delle missioni cattoliche tedesche!

Ebbene signori, che almeno là dove il governo non arriva e fino a quando non arrivi, giunga il patriottisnio dei cittadini: e che mons. Carrara, partendosi di qui per recarsi ad educare ed istruire i figli della nostra colonia, non abbia più a dover ripetete l’amaro lamento del suo venerando predecessore e ad arrossire nel fare il confronto per la larghezza di mezzi di cui dispongono le missioni svedesi, e che permette loro di fondare scuole ed asili con ogni modernità di suppellettile didattica, e la miseria delle missioni nostre.

Ed a rnons. Carrara, che dimostrò sempre, di apprezzare l’alta funzione del sapere, anche nel campo della propaganda religiosa, tanto che volle che i migliori fra i suoi studenti frequentassero la Università di Friburgo ed istituti superiori di Roma; a monsignor Carrara poi dobbiamo dare i mezzi onde possa tutta esplicare l’opera di civilizzazione alla quale è chiamato della quale è capace.

E sia questa la promessa che noi gli facciamo oggi dandogli il saluto della patria, prima della sua partenza; sicchè egli si rechi laggiù maggiormente confortato ad intraprendere il rude e difficile lavoro che gli fu affidato.

L’opera dei cappuccini ha un carattere schiettamente patriottico e nettamente italiano.

Intanto l’ordine stesso dei cappuccini è nostro, perchè è nostro Francesco; e non nostro soltanto, perchè nato in Italia, ma perchè egli rappresenta e riassume squisitamente il genio della gente italica. La quale, pure nella povertà, sa trovare la poesia della vita; sa apprezzare e va in estasi davanti alle bellezze della natura. I canti del nostro popolo, che magnificano la bellezza di una rosa, di una viola, di un gelsomino e che danno un’anima al sole, alla luna, alle stelle; la sua schietta letizia anche nella povertà il bisogno irrefrenabile di squillare a piena voce una canzone negli scarsi momenti di riposo, dopo un lavoro duro ed accasciato; tutto ciò, che costituisce l’anima del popolo italiano, trova in Francesco la più elevata e più nobile espressione.

E la stessa vita dell’ordine, attraverso a sette secoli, che fu sempre vissuta in mezzo al popolo nostro, del quale gli umili fraticelli divisero le miserie ed i dolori — che lo soccorsero nei bisogni, con una carità semplice ed immediata, che potrà sembrare meno opportuna alla scienza economica moderna, ma che è benedetta da tanti affamati; che il popolo consolarono negli ospedali e nei lazzaretti; e questa vita, semplice nelle manifestazioni e tanto ricca di frutti, ha fatto dei cappuccini un ordine schiettamente popolare in Italia; e tale popolarità la letteratura sintetizzò e impersonò nella nobile figura di Fra Cristoforo, difensore ardimentoso dei deboli contro la prepotenza dei tirannelli e vittima generosa e serena della carità, nel lazzaretto di Milano.

Ebbene eccellenza — ditelo altamente che nel vostro cuore e in quello dei vostri confratelli — pure ricoperti dal rude saio del frate — canta puro e sincero l’amor di patria, fatto più sublime e santo dalla fede che vi riscalda i cuori; proclamatela la vostra italianità, della quale per l’opere vostre passate e per quelle che vi apparecchiate a compiere siete ben degni.

E dite, che se all’animo vostro di religiosi, sorride alta l’idea di poter conquistare laggiù nella nostra colonia, molte anime alla luce della fede di Cristo: al vostro patriottismo di italiani non sorride meno la speranza di conquistare figli devoti all’Italia, di fare il nome di questa rispettato ed amato per quei popoli — sicchè quella colonia possa presto considerarsi ed essere veramente una nuova provincia d’Italia.

Oh! che la croce ed il tricolore si accompagnino sempre laggiù nelle lande africane, simboli, non di conquista fondata sulla forza, ma di pacifica redenzione civile e religiosa.

Così e soltanto così l’Italia potrà compiere l’alta sua missione di incivilimento e sentirsi degna di continuare nei tempi nostri, l’opera di civiltà della madre Roma.

Eccellenza! Fra pochi giorni voi sarete laggiù, fra i nuovi vostri figli; in quelle terre, che il generoso sangue italiano ha rese sacre per la patria.

Forse negli alti silenzi della notte, parrà a voi [p. 77 modifica]talvolta di udire come l’eco di lontane voci: le voci dei nostri fratelli caduti vittima della prepotenza del numero sulle ambe abissine. Ascoltatele! In esse non sarà invocazione di vendetta; esse vi diranno soltanto di perseverare e di ardire nella missione di pace e di civiltà che vi siete assunta nella pienezza della vostra coscienza di vescovo e di italiano.

Perchè è soltanto col mezzo di queste opere validamente sostenute a difesa dalla virtù dei nostri soldati e dalla coscienza patriottica del governo e del popolo italiano, che il sogno radioso che fu l’ultimo per quegli eroi, e cioè che la bandiera italiana avesse a sventolare sempre sulle terre intrise del loro sangue, che quel sogno potrà diventare realtà!»

L’applauso caloroso, che già aveva accolto monsignor Tei, fu ripetuto per il brillante oratore; e con eguale fervore fu rinnovato quando si levò il nuovo prefetto dell’Eritrea. Egli, con modesto accento e sobrietà di linguaggio temprato alla consueta mitezza francescana, ringraziò anzitutto delle avute attestazioni; toccò della missione dell’Eritrea affidata ai cappuccini per l’interessamento di monsignor Bonomelli e per la volontà del Papa. Brevemente manifestò i suoi propositi di generosa carità verso gli abitatori della colonia commessa alle sue cure per volontà del Papa. Ma qui ricordò i bisogni della colonia ed ebbe accenti di apostolico fervore accennando che occorrono asili, scuole, orfanotrofi, e all’uopo egli, che già sperimenta la generosità dei milanesi, si affida alla loro carità, e spera che i voti da lui formulati per il miglioramento della colonia troveranno munifica corrispondenza nei milanesi, dei quali conosce l’animo temprato a benevolenza e singolare pietà.

A proposito di “Un Figlio„1


Nelle ore di silente meditazione, quando il pensiero indietreggia rievocando il passato, o si posa scrutando l’ora presente, è specialmente la visione femminile che si affaccia con tutta la suggestiva potenza del suo fascino. Poichè, malia sottile e inafferrabile, questo fascino ha sempre avvolto la donna di una nube di poesia, foss’ella passata serenamente grande o dolcemente modesta nella missione sua di bontà, di grazia e di sorriso, foss’ella passata, tutto travolgendo in un turbine di colpa e d’errore: fiore fragrante, erba velenosa. In tutti i gradi e le sfumature del bello e del brutto, del buono e del cattivo, essa portò e porta sempre la sua nota caratteristica: il pudore che ne difende la dignità; la debolezza che ne può fare una preda: elevazioni sublimi e taciti sacrifici; cadute clamorose e colpe nascostamente coscienti.

Ma ora, ora si vuole sfrondare la donna di questo fascino col quale appunto ha sempre regnato; di questo misto di rassegnazione, di grazia e di ritrosia, e chi vuol sfrondarnela è appunto una donna. E questa donna non attenta alla sposa ed alla madre, no; ella si rivolge alla nubile, ed in nome di chi sa quali esigenze ed istinti, in nome di chi sa quali diritti, le ripete: — È giunta l’ora tua. Se la sacra missione di madre che il matrimonio prepara, ti è negata, perchè sfiorire nell’inutilità del sacrificio, accettando passiva l’ingiustizia di un destino che ha l’inesorabilità del Fato? — E la matura donzella che finora credette sacra la legge che vieta o consente, che d’un nobile senso di moralità fece la sua forza, ora questa matura donzella saprà che le è aperta la via, perchè una donna lo disse. Oh, l’ingegno della donna! Quell’ingegno che la fa sacerdotessa d’un nuovo vero, in un’epoca che sembra permettere tutte le emancipazioni e tutte le libertà! Forse un uomo non avrebbe osato permettersi tanto, perch’egli può bensì abusare della sua forza, ma non sottoscrivere spontaneamente al capovolgimento dell’ordine sociale, all’annichilimento d’ogni più nobile prerogativa femminile.

Occorreva la donna, e questa fu una!

Myriam Cornelio Massa.

La nostra collaboratrice scrive pure quale interprete di signore e signorine, le quali l’hanno incitata a protestare contro la novissima teoria esposta da Ada Negri nel Marzocco, teoria che ha suscitato un senso di sdegno, di disgusto profondo e di ribellione.

La nostra collaboratrice, per un giusto sentimento di decoro, non ha voluto commentare la prosa di Ada Negri, deplorata anche dal Secolo, che ha dimostrato tutta la fallacia della tesi colla quale la scrittrice caccia in una intricatissima selva le fanciulle.

Non aggiungiamo altro, perchè il senso morale è generalmente profondo e tale da non lasciarsi fuorviare da teorie che non si saprebbe come qualificare.

(Nota della Redazione).


MANZONI E LA MUSICA

Il Manzoni amava molto la musica che gli abbelliva tutto ciò che facesse. Non era certo un tecnico, nè aveva disposizione nè orecchio per quell’arte, nè infine era da essa ammaliato al punto di rompere le sue abitudini per andare a teatro a sentirla. Ma pure era riuscito a tenere a mente e canterellare certe canzonette popolari francesi in un ritmo difficile, senza una chiara melodia, strane tanto che pur un maestro avrebbe stentato a ripeterle. E quando nel pomeriggio non aveva visite e quando a sera nessuno era venuto a tenergli compagnia, se qualcuno dei suoi si fosse messo al piano e avesse suonato fino all’ora di coricarsi, sarebbe stato certo di non annoiarlo. Egli continuava a leggere ed affermava di trovar più bello ciò che leggeva. Fra le altre una sera si suonava a quattro mani la Sinfonia in la del Mendelssohn, quella che si chiama appunto la Sinfonia italiana perchè fu concepita ed in parte scritta tra noi. Quando il Manzoni udì impostare e [p. 78 modifica]svolgere il tema dell’andante, il secondo tempo che ha l’impronta grave e jeratica di un canto di processione, si riscosse dalla lettura ed esclamando: «Quanto è bella, stupenda questa cosa» ne chiese la replica. Dopo la prima ne venne un’altra, poi una terza, e avrebbe fatto ripetere quel canto chi sa quante volte....

L’udito sul Manzoni non influì che poco; ma la sua sensibilità uditiva era squisitissima, tanto che egli non poteva tollerare rumori di sorta. A ciò si deve forse l’antipatia strana che egli aveva per gli uccelli. Tra le fronde della villa di Brusuglio, a sciami, generazioni intere di uccelli cantavano quasi volessero inneggiare al poeta, e il poeta se ne infastidiva e al castaldo gridava: «Ammazzateli! ammazzateli!» Era un effetto della nevrosi onde era vittima il grande scrittore.... Il Manzoni non poteva soffrire gli applausi del pubblico a teatro, e specialmente non poteva soffrire i fischi!.... Ma è innegabile che un gran senso di musicalità pervade le più belle pagine del Manzoni. Una curiosa notizia è questa: che il Cinque maggio fu composto a suon di piano. Egli tenne per due giorni inchiodata al pianoforte la sua sposa perchè suonasse, suonasse qualunque cosa, ripetesse lo stesso motivo purchè suonasse continuamente. Enrichetta Blondel suonò più che potè e finchè da quei suoni uscirono le strofe immortali.

  1. Il Marzocco del 5 febbraio.