Il buon cuore - Anno X, n. 07 - 11 febbraio 1911/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Beneficenza Religione

[p. 50 modifica]Educazione ed Istruzione


La flora Pompeiana risorge


UNA INTERESSANTE INIZIATIVA


Il visitatore di Pompei — che torna fuori con grande lentezza dallo spesso lenzuolo di cenere e lapillo che nella notte di or sono due millenni circa l’avevano sepolta — è rimasto ammirato della bellezza degli scavi degli affreschi e dei pochi marmi non trasportabili, ma freddo di fronte alla invincibile ed infinita teoria di muri nudi e di colonne martoriate e di piedistalli poveri, intorno a cui nel Foro, nella palestra gladiatoria, nell’anfiteatro, nei tablinî, negli atri, nelle terme, crescono le erbe selvagge e s’abbarbicano piante tristi, ranuncoli selvatici e villalbe tisiche.

Nulla che ricordava la vita festosa ed i vivi colori di cui s’abbellivano le case, i ritrovi, le piazze di Pompei imperiale; nulla che fermasse l’occhio indagatore lo facesse riposare un istante senza obbligarlo a guardare il turchino del cielo e la vivida tavolozza delle campagne feconde oltre la porta Marina ed il mare lontano e mutevole.

Tutti coloro che si dettero a frugare nel lapillo omicida ne trassero maraviglie di arte, e, gelosi, le trasportarono lungi, tra le mura dei musei, e le nascosero [p. 51 modifica]all’occhio della folla, formandone la delizia degli iniziati e dei competenti di archeologia; e tutto ciò che poteva, lasciato sul posto o rimesso a posto, riabbellire lo scheletro di Pompei, per portarlo altrove, e soli rimangono i pochi affreschi che non potevano essere scrostati e le iscrizioni lapidarie e le tabulae intrasportabili.

La triste bisogna durò a lungo — più di un secolo — e le sale dei musei divennero troppo cariche di materiali artistici che, lontani dalla sede originaria, diminuirono quasi di valore, tutto un popolo di bronzi, di marmi, di terrecotte, di vetri di smalti, che, catalogati, ordinati, l’uno dopo l’altro, non hanno più significato alcuno e stancano l’occhio più sicuro e tenace.

Ad un valentuomo, archeologo insigne, aiutato da un ministro benevolo, venne l’idea di lasciare gli oggetti scovati al posto in cui erano stati ritrovati dalla febbrile e pur paziente opera del piccone; e con grandissimo stento e tra polemiche assai, rivenne su col plauso di tutti coloro che amano il bello la casa dei Vettii col tablino rifatto, col giardinetto risorto, in cui anche la condottura dell’acqua fu rimessa in ordine ed in funzione, e segnò il giardino della casa del Centauro dove furono visibili i vasi da fiori di terracotta affondati nel terreno molle dai topiarii, e l’orto della casa delle Nozze d’argento dal portico rodiaco con le palme ed il lauro.

Il tentativo, riuscito, ha fatto pensare alla bellezza di un riordinamento dei giardini e degli Orti di Pompei di restaurarne la flora.

Ma come fare? L’impresa non era facile. In generale, sarebbe bastato consultare Virgilio, Tibullo, Columella, Plinio, Vitruvio, Dionisio, Marziale ed altri scrittori dell’epoca, per rintracciare le varie specie di piante necessarie all’uopo, ma si sarebbe riuscito ad avere la rigenerazione della flora del primo secolo dell’Impero, non la flora pompeiana, e si sarebbe raggiunto uno scopo diametralmente opposto a quello che ogni intelligente poteva essersi prefisso.

Il narciso, l’elleboro, l’acanto, sarebbero sorti là dove fiorivano le rose ed il garofano; e si sarebbe commesso un errore imperdonabile e compiuta un’opera dispendiosa ed inutile. Nel giardinetto della Casa dei Vettii, già in sul principio s’erano commessi di simili errori bisognò tornare indietro ed interrogare gli affreschi le decorazioni marmoree, e perfino i bronzi decorativi e le terrecotte diedero il loro responso.

Così, la casa dei Vettii diede alla luce l’acanto, le rose porporine, l’edera, i malvoni ed il papiro: la casa del Centauro l’oleandro e l’agave; quello degli Amorini dorati il garofano, la Casa di Pansa propose l’orto fiorito di limoni, e di cedri dorati, e la Casa del Gallo un pergolato squisito. Uno scenziato illustre, il Comes, fu il primo a riconoscere la flora pompeiana, e dietro i suoi consigli, la direzione di Pompei lavora a tradurre in fatto il bel sogno fioreale.

Le rozze sepolture preromane avevano vivai coltivati dalla cura pietosa dei discendenti, e dei passanti; le abitazioni a mare erano cinte di giardinetti, e le case avevano terrazze pensili e perfino le ictiotrofie (peschiere) erano contornate di piante. Tutto un elenco botanico si è ritrovato chiaro sui capitelli e sulle ringhiere dei rostri, dal pino alla palma fibrosa, dalle liliacee alle ombrellifere, alle querce del bosco sacro dedicate a Giove, alle agavi, e poi, viti sorelle dei pioppi, mandorli, peri, castagni, e giù giù a tutta la minuta specie dei narcisi, dei croco, degli anemoni, del timo, dei mirtilli, dei petroselino, e presso le tombe dei soldati morti in guerra, degli eroi, dei viri, l’asfodelo commemorante.

E l’orto pompeiano era ricco di alberi anche fruttiferi, delizia del palato, dal ciriegio che Lucullo ghiotto trasportò, pel primo, dal Ponto, al fico che si donava — benevolo augurio di vittoria — agli atleti del Circo, al melograno di fuoco sacro a Pallade Atena. Ma l’edera pompeiana aveva un colore che Pausania chiamò tragico: era scuro assai (nigra haedera) e costeggiava le marmoree bianche nitide tavole del giardinetto centrale della casa, e ornava il capo di Bacco, ebbro tra i fauni, poggiato sul ventre di Sileno: l’acanto lucido s’infoltiva nei vialetti, scivolando tra gli oleandri lussureggianti e i bossi canori (buxur vocant Berecyntia matris) come Virgilio cantava, e l’ara di Ciprigna s’ornava del mirto sacro e l’edera screziata rompeva con le vene sanguigne I’ incanto del verde, e dovunque tripudiavano gigli e rose, le belle rose che conquistarono Sibari e lo cinsero fino alla morte; le magnifiche rose che il Conforti cantò, inebbrianti i conviti della terra della Bellezza.

Così, piaceva ai pompeiani ornare i viali e le case ed i tempii di marmo ed i luoghi di riposo e di gioia.

Così, all’ombra della dorata pergola arcuata volte le spalle al mare perlucido, l’occhio alle montagne di Stabia, rileggevano il poeta favorito o conversavano o contemplavano il passeggio lungo la via Sacra ed il traffico febbrile nel Foro e quello molle delle Terme, si mischiavano al tripudio del teatro ornato di rose di corimbi d’edera, o indugiavano nel foro dove anche la mortella folta e bassa faceva riparo alla folla dava rilievo maggiore alle colonne ed alle statue, alle erme ed alle tabulae nitidissime.

Lungo la via dell’Abbondanza le trichile dallo scheletro ligneo piegavano sotto il peso dell’edera e le fanciulle passavano a schiere ornate di narcisi e di gigli scambiavano sorridendo il ramoscello di lauro augurale mormorando a fior di labbro:

Laurus bona signa dabit....

Uomini di scienza, uomini che hanno squisito senso d’arte, debbono essersi riportati a quei tempi ed a quella vita per foggiarsi uno spettacolo interiore simile a foggiarne di fatto uno tangibile agli occhi corporei della folla che trascorrerà, ammirando, dalla casa del Fauno e quello del Trageda, dalla casa delle Nozze d’Argento a quella dei Vettii, dalla riva dell’Abbondanza a quella di Stabia indefinita che andava oltre, lontano e portava lungi dalla indimenticabile città il fervore d’una vita intensa, il fremito ininterrotto d’una gioia indefinibile che solo l’ira del Vesuvio potette due volte spezzare e seppellire non tanto da impedirne il ritorno alla luce.

I cavalli del Circo attaccati alle quadrighe assillati dalle palme, frenati dai guidatori impazienti [p. 52 modifica]scalpitavano forte, e fremevano traendo scintille dall’arena calda nel meriggio, tra la folla irrompente oltre le siepi odorose e fittizie e le balaustre infiorate.

Non so, ma coloro che si votarono alla risurrezione della flora pompeiana debbono avere tutta questa visione indimenticabile negli occhi, tutta questa vita che fu, questo rifluire magnifico di vita, deve sfolgorare ancora per essi da potere con esattezza riprodurre al vivo tanta bellezza scomparsa, almeno in una piccola parte come la flora antica che adornava Pompei.

Ed il mare era vicino allora: la porta Marina era battuta dalle onde, e le triremi e le vele latine s’accostavano e deponevano i tesori portati, con innumerevoli, disagi dal Ponto, dalla Siria, dalla Grecia, dal mondo conosciuto e dominato di Roma.

Ora il mare è lontano, oltre la porta Marina, oltre la cinta che fiorita, apre l’accesso agli scavi, oltre la via provinciale nuova, lontano di chilometri, incurvandosi mollemente fino a raggiungere da un lato Stabia e dall’altro Torre del Greco e Resina, la sorella Herculanum, l’emula di Pompei che vide Nerone e che dorme nel sepolcro di lava composto da millennii, e che nessuno più spezzerà per ridare al sole vivo il tesoro che contiene geloso.

Così quando la ricostruzione, nei punti principali, sarà completa; quando, per la flora risorta, qualche cosa di vivo palpiterà di nuovo a Pompei, tra cipresso e cipresso, da mirto a mirto, tra gli intrecci di acanto, tra agoree ed agoree, tra cespo di rose e gli asfodeli, aleggerà di nuovo come al tempo dell’edile Marcello l’invocazione classica:

O Vestilia regina pompeianarum
Anima dulcis, Ave!

Terth.


PRO VITTORIA1



Avvezzo ai sogni, ai fascini,
all’ineffabil cura
dell’arte, onor dei popoli;
dell’arte grande e pura;
avvezza all’onda liberal, giuliva
del plauso e degli evviva;


oggi d’un novo fremito
quest’aura si commuove;
e, per consenso unanime,
vibra e si effonde in nuove
forme di bene l’ideal sublime
che affratella e redime.


Oh se adeguato al palpito
d’entusiasmo santo
che ci conquide, sciogliere
oggi sapessi, un canto!
Di quest’ora esaltar ne’ versi miei
la poesia vorrei.


Ma queste che c’inebbriano
soavi melodie,
meglio e più assai traducono
l’intime voci pie:
a noi del genio e del dolor l’arcana
profondità le emana;


e del dolor, del genio
divina è la parola.
Dietro le alale musiche
lieve il pensier s’invola,
e ogni ardor che di cose alte non sia
or qui tace e s’oblia.


Monza, o vetusto, o nobile
fior dell’insubre suolo,
di figli tuoi, di giovani
figli un concorde stuolo
acclama a te, nel giubilo di questa
auspicata festa;


e voi saluta o provvidi
fratelli, o generosi,
che, d’ogni ben solleciti,
per ogni mal pietosi,
agl’inesperti del mortai viaggio
date guida e coraggio.


Fra l’ansie dell’invidia
che, muta e violenta
del giovin cuore all’integre
forze vitali attenta,
fra i veli che contendono al pensiero
la vision del vero;


deh come in voi nell’egida
del vigile amor vostro
s’affida o buoni il trepido
passo e l’ingegno nostro!
Quanto per voi, nella crescente vita
traviam fraterna aita!


Dì maschie gare, d’utili
e geniali studi,
di vigorosi stimoli
e di sani tripudi,
un vasto campo libero per voi
s’apre e sorride a noi.


Così, fra le ginnastiche
prove (viril Palestra
che nuovi atleta all’itala
madre prepara e addestra),
noi già vincemmo, ed è pur vostro il merlo
più d’un ambito serto!


Possa, deh possa vindice
d’incontrastabil gloria,
centuplicarsi il giovine
stuol sacro alla vittoria;
a radîar nel suo baldo fervore
luce immortal d’amore.


L’onda degli anni rapida
che freme, incalza e doma;
l’ombra fatai che i triboli
sparge e piacer si nona,
del sentier nostro faticoso i duri
passi e i cimenti oscuri,


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nulla potrà nell’intimo
nostro, turbar la fiamma
buona dí fede e d’alacre
virtude che c’infiamma;
questa fede, questa forza buona,
sarà vostra corona


e gaudio vostro o provvidi
fratelli, o generosi
del nostro ben solleciti,
pel nostro mal pietosi!...
Studenti od operai, chiari od ignoti,
soldati o Sacerdoti;


tutti qual sia dell’opere
nostre la meta o il fato,
del vivo esempio memori
che ognun di voi ci ha dato
a Crsisto ed all’Italia assiduamente
darem l’opra e la mente.


Lieti qui intanto al simbolo
che i padri nostri accese
d’eroica fiamma, inchinasi
la gioventù Monzese;
la gioventù che acclama in viril coro,
fede, onestà, lavoro.

Maria Motta.

Maestra Cieca.


LA VITA


PICCOLE E GRANDI COSE


Al conte Lao per ricambio d’omaggio.

Di fuori a poco a poco s’affievolisce la luce e l’ultimo raggio di sole striscia ancor un istante sulle foglie ingiallite che guardano, dall’alto dei rami spogli, la terra al basso, con un desiderio d’abbandonarsi come tant’altre a una corsa folle nello spazio. E le rattiene quel po’ di vita che ancora rimane, ma che sfiorisce sempre più e s’annienta. Il sole le accarezza, le indora, le bacia con una tacita promessa di ritornare, per riscaldarle ancora un poco, prima che un nuovo soffio gelato non le trascini inesorabilmente lontano, lontano, in basso, ove s’immedesimeranno colla terra.

Anche l’autunno vuole un piccolo sacrificio di piccole vite; esso le fa sue, le scuote, le annienta e le ridona alla terra, di dove vengono. Anch’esso ha una voce insistente che chiama e soggioga e a lei rispondono le cose e si sottomettono. E la sua voce è come un tenue sussurro, un wisto di rimpianti, di abbandoni, un vago sentire di morte cose. Ma ad essa una notà più cupa, più sorda e più dolorosa s’insinua a quando a quando con un suono ripetuto e sembra dire: Ancor io finisco! ’e da vicino e da lontano rispondono ancor tante altre: E anch’io.... anch’io.... di tra le foglie morte i ricci dei castagni ridono e occhieggiano ricolmi di frutti!

Sono i tuoi doni, o autunno, e i grappoli vermigli che si cullano dai rami contorti e le prime nevi che ci salutano dalle vette vicine! Ma ancora, gli ultimi fiori, pallide imagini di quei tanti che furono, ma più cari al nostro cuore perch’essi ancora posano sulle tombe dei nostri morti, reclinando sulle fredde pietre le loro corolle umide e molli del nostro pianto che, tacitamente dicono ad uno ad uno i nostri pensieri, perchè li sappiano i nostri cari che più non sono.

Di fuori la luce si spegne. Il fuoco acceso nel camino manda i suoi rossi bagliori attorno a me, intanto che la fiamma scoppietta e sibila, lanciando faville su per l’ampia cappa affumicata. Come si sta bene qui, in questa grande cucina di campagna, silenziosa e tiepida, così lontana da quel gran mondo cittadino che agita stanca! Come si sta bene, colle membra stese al tepore di questo fuoco puro, di questo gran fuoco che arde e consuma e illumina! E mentre tutto tace e assorte nel gran silenzio le cose nell’ombra adorano, penso ch’è bello vivere così un poco lontani da tutti, solitarii, in questo gran mondo che vive e palpita, questo gran mondo che freme e s’affanna; ma dove spesso noi stentiamo a ritrovar noi stessi, ove diciamo di vivere e pare non sempre riusciamo ad afferrare il senso preciso di questa grande parola che, sovente ci agita noi diciamo: vita.

Qualche volta appena ci siamo domandati che cosa essa vuole da noi, che cosa ci dà. E molto spesso, assecondando il nostro io egoistico, abbiamo guardato strettamente ai nostri desiderii, a quei diritti personali che ciascuno di noi s’è formato e ci fruttano un benessere voluto, in cui il cuore s’adagia. Non abbiamo guardato più in là di questi? Qualche volta sì, e allora abbiamo sentito che noi dovremmo molto più dare che pretendere. Ma questo dare, abbiamo visto che ci può costare degli sforzi e dei sacrifici e l’animo nostro, che sempre accarezzerà quest’alto ideale di bene, rifuggirà però al sacrificio volontario, ch’è una rinuncia alla pace al benessere consueto.

Si sta così bene tranquilli!... cullati da queste nostre abitudini! perchè dunque avventurarci per una via sconosciuta che ci domanda grandi cose?! Grandi cose, ecco il nostro spavento Ma se la vita, quella d’ogni giorno io intendo, è più spesso formata di piccole cose, piccoli sacrifici inavvertiti. Se noi afferrassimo bene il senso d’ogni cosa, il cammino non ci spaventerebbe e noi ci troveremmo sulla giusta via senza grandi fatiche, sicuri di quello che dobbiamo fare, colla visione netta di quello che ancora potremmo compiere, per vivere una vera vita, non agitata tra dubbi e timori.

Piccole cose! Ora è una parola buona che a noi si domanda; domani la rinuncia d’un piacere per procurarne uno più grande a qualcuno che soffre; più tardi il riparare un’offesa involontaria che cagionò ad altri dispiaceri e, tanti, tanti altri ancora a noi si domandano di questi piccoli sacrifici, che noi dobbiamo compiere serenamente, senza farli pesare su chi ce l’ha richiesti. E così senz’avvedercene, lentamente ascenderemo verso il bene, anche agendo nell’ombra, senza che queste nostre tenui rinunce, a cui tutta l’anima prende parte con uno slancio, suscitino una parola di plauso o di lode. Noi soli dobbiamo avere la percezione di quello che siamo, ma anche di quello che dovremmo essere; [p. 54 modifica]sarà spontaneo allora in noi il desiderio di non arrestarci mai e di non stancarci mai di questo cammino anche se difficile.

La vita: in questo momento il mio spirito è affascinato da una grande visione. E un’ampia distesa di terreno incolto, dai confini luminosi. Tutta la luce è là: oltre quei confini, ove un’immensa quantità d’acqua sembra confondersi col cielo. Attraverso quel piano erboso serpeggiano due corsi d’acqua, l’uno dal corso uguale e tranquillo; l’altro precipita tra dirupi e scogliere e rimbalza e spumeggia con forza contro i massi che gl’intralciano il cammino. Tra le due sorgenti un piccolo sentiero è tracciato e segue il corso del ruscello; accanto al torrente, nulla. Più alto, ove quell’acqua scaturisce e si dirama, un giovinetto dall’aspetto ardito guarda e pensa. Egli segue per un istante il sentiero che costeggia il ruscello e mena diritto a quella distesa d’acqua, egli guarda quel filo d’acqua disteso sull’erba come un nastro d’argento. Nel fondo un po’ di ghiaia; oh è ben chiaro! ma se quello prosegue così senza fatica, dona anche poco, a seguire quel sentiero, con sicurezza si giungerà in salvo alla meta, ma lungo esso nulla v’è da raccogliere e bisogna restare a mani vuote.

Ma il torrente lì vicino colla sua voce potente, richiama alla sua attenzione quel giovane pensoso. Ed egli guarda. Che fascino tutta quell’acqua spumeggiante, ardita più d’un corsiero in fuga! Ma come seguirla? Chi può dare la certezza di giungere vittoriosi laggiù, ov’essa si getta e l’oceano s’inarca, come ad aprire due grandi braccia per accoglierla trionfante nel suo seno, tutta quell’acqua? Eppoi tutti quegli sterpi che si parano dinanzi come barriere, e quel masso più sotto, diritto e fiero, che sembra imporsi a qualunque forza!? Come fare? Nel volto del giovinetto passa un’ombra di tristezza. Oh egli vorrebbe lanciarsi al di là di quegli ostacoli; egli sente che solo al di là di quel masso lo attende la luce e la ricompensa alle fatiche, e fors’anche (è troppo ardito il suo pensiero?!) la gloria! Ma pure quel cammino troppo faticoso lo accascia ed egli non sa, non può ancora muoversi.

Quel giovinetto non è un poco l’imagine di ciascuno di noi? Quante volte all’aprirsi d’un nuovo orizzonte, d’un nuovo ideale nella nostra vita; ci siamo guardati attorno smarriti, spaventati degli ostacoli che ci si paravano dinanzi, pronti a retrocedere, nonchè rinunciare alla lotta! Sentimmo che questo nostro sacrificio, questa rinnovatrice opera nostra ci avrebbe fruttato del bene e ne avrebbe procurato anche ad altri, ma pure il timore, l’incertezza, ci tennero indietro. Allora quasi inconsciamente, abbiamo seguito la via piana, la via facile come il sentiero di quel piccolo ruscello, che nulla dona e si getta nell’oceano senza ch’esso neppur l’avverta. Oh l’oceano aspetta l’acqua impetuosa del torrente, che ha dovuto lavorare e lottare per farsi strada, come Dio vuole l’anima nostra purificata dal dolore e dal sacrificio.

Ricordo: non sono passati molti anni, ero affatto bambina e nel giorno di festa d’un triste autunno, ascendevo l’erta di una collina che, staccata dalle altre ergeva dal mare, bella e severa, un poco triste in quel giorno così solenne. Dinanzi a me sfilava in processione una comitiva raccolta e ciascuno recava in mano un piccolo cero acceso. Tutte le voci unite pregavano sommessamente, non so quale mite preghiera. La piccola chiesa, emergendo tra il verde, era poco discosta e nell’ombra pareva attendere il lungo corteo. Il mare calmo e trasparente mandava verso noi il suo mormorio, come a levare anch’esso la sua preghiera. In quel momento, non so per quale rivelazione speciale, intuii che cosa è la vita: un lungo, lungo sentiero per cui tutti dobbiamo ascendere, recando ciascuno in sè un po’ di luce.

Sì, cerchiamola questa in noi, siamo buoni, ma senza ostentazione; avrà sorrisi per noi la vita e, forse qualche anima incerta e smarrita, riceverà un riflesso di quel raggio buono che ci riscalda e ci illumina e, al suo tocco forse, risorgerà.

Dai monti della Valsesia - Novembre.

Itala Maria Costa.




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  1. Inno preparato in occasione che la Società ginnastica Monzese Pro Vittoria celebrava una festa sociale nel teatro Raiberti.