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IL BUON CUORE 51


all’occhio della folla, formandone la delizia degli iniziati e dei competenti di archeologia; e tutto ciò che poteva, lasciato sul posto o rimesso a posto, riabbellire lo scheletro di Pompei, per portarlo altrove, e soli rimangono i pochi affreschi che non potevano essere scrostati e le iscrizioni lapidarie e le tabulae intrasportabili.

La triste bisogna durò a lungo — più di un secolo — e le sale dei musei divennero troppo cariche di materiali artistici che, lontani dalla sede originaria, diminuirono quasi di valore, tutto un popolo di bronzi, di marmi, di terrecotte, di vetri di smalti, che, catalogati, ordinati, l’uno dopo l’altro, non hanno più significato alcuno e stancano l’occhio più sicuro e tenace.

Ad un valentuomo, archeologo insigne, aiutato da un ministro benevolo, venne l’idea di lasciare gli oggetti scovati al posto in cui erano stati ritrovati dalla febbrile e pur paziente opera del piccone; e con grandissimo stento e tra polemiche assai, rivenne su col plauso di tutti coloro che amano il bello la casa dei Vettii col tablino rifatto, col giardinetto risorto, in cui anche la condottura dell’acqua fu rimessa in ordine ed in funzione, e segnò il giardino della casa del Centauro dove furono visibili i vasi da fiori di terracotta affondati nel terreno molle dai topiarii, e l’orto della casa delle Nozze d’argento dal portico rodiaco con le palme ed il lauro.

Il tentativo, riuscito, ha fatto pensare alla bellezza di un riordinamento dei giardini e degli Orti di Pompei di restaurarne la flora.

Ma come fare? L’impresa non era facile. In generale, sarebbe bastato consultare Virgilio, Tibullo, Columella, Plinio, Vitruvio, Dionisio, Marziale ed altri scrittori dell’epoca, per rintracciare le varie specie di piante necessarie all’uopo, ma si sarebbe riuscito ad avere la rigenerazione della flora del primo secolo dell’Impero, non la flora pompeiana, e si sarebbe raggiunto uno scopo diametralmente opposto a quello che ogni intelligente poteva essersi prefisso.

Il narciso, l’elleboro, l’acanto, sarebbero sorti là dove fiorivano le rose ed il garofano; e si sarebbe commesso un errore imperdonabile e compiuta un’opera dispendiosa ed inutile. Nel giardinetto della Casa dei Vettii, già in sul principio s’erano commessi di simili errori bisognò tornare indietro ed interrogare gli affreschi le decorazioni marmoree, e perfino i bronzi decorativi e le terrecotte diedero il loro responso.

Così, la casa dei Vettii diede alla luce l’acanto, le rose porporine, l’edera, i malvoni ed il papiro: la casa del Centauro l’oleandro e l’agave; quello degli Amorini dorati il garofano, la Casa di Pansa propose l’orto fiorito di limoni, e di cedri dorati, e la Casa del Gallo un pergolato squisito. Uno scenziato illustre, il Comes, fu il primo a riconoscere la flora pompeiana, e dietro i suoi consigli, la direzione di Pompei lavora a tradurre in fatto il bel sogno fioreale.

Le rozze sepolture preromane avevano vivai coltivati dalla cura pietosa dei discendenti, e dei passanti; le abitazioni a mare erano cinte di giardinetti, e le case avevano terrazze pensili e perfino le ictiotrofie (peschiere) erano contornate di piante. Tutto un elenco botanico si è ritrovato chiaro sui capitelli e sulle ringhiere
dei rostri, dal pino alla palma fibrosa, dalle liliacee alle ombrellifere, alle querce del bosco sacro dedicate a Giove, alle agavi, e poi, viti sorelle dei pioppi, mandorli, peri, castagni, e giù giù a tutta la minuta specie dei narcisi, dei croco, degli anemoni, del timo, dei mirtilli, dei petroselino, e presso le tombe dei soldati morti in guerra, degli eroi, dei viri, l’asfodelo commemorante.

E l’orto pompeiano era ricco di alberi anche fruttiferi, delizia del palato, dal ciriegio che Lucullo ghiotto trasportò, pel primo, dal Ponto, al fico che si donava — benevolo augurio di vittoria — agli atleti del Circo, al melograno di fuoco sacro a Pallade Atena. Ma l’edera pompeiana aveva un colore che Pausania chiamò tragico: era scuro assai (nigra haedera) e costeggiava le marmoree bianche nitide tavole del giardinetto centrale della casa, e ornava il capo di Bacco, ebbro tra i fauni, poggiato sul ventre di Sileno: l’acanto lucido s’infoltiva nei vialetti, scivolando tra gli oleandri lussureggianti e i bossi canori (buxur vocant Berecyntia matris) come Virgilio cantava, e l’ara di Ciprigna s’ornava del mirto sacro e l’edera screziata rompeva con le vene sanguigne I’ incanto del verde, e dovunque tripudiavano gigli e rose, le belle rose che conquistarono Sibari e lo cinsero fino alla morte; le magnifiche rose che il Conforti cantò, inebbrianti i conviti della terra della Bellezza.

Così, piaceva ai pompeiani ornare i viali e le case ed i tempii di marmo ed i luoghi di riposo e di gioia.

Così, all’ombra della dorata pergola arcuata volte le spalle al mare perlucido, l’occhio alle montagne di Stabia, rileggevano il poeta favorito o conversavano o contemplavano il passeggio lungo la via Sacra ed il traffico febbrile nel Foro e quello molle delle Terme, si mischiavano al tripudio del teatro ornato di rose di corimbi d’edera, o indugiavano nel foro dove anche la mortella folta e bassa faceva riparo alla folla dava rilievo maggiore alle colonne ed alle statue, alle erme ed alle tabulae nitidissime.

Lungo la via dell’Abbondanza le trichile dallo scheletro ligneo piegavano sotto il peso dell’edera e le fanciulle passavano a schiere ornate di narcisi e di gigli scambiavano sorridendo il ramoscello di lauro augurale mormorando a fior di labbro:

Laurus bona signa dabit....

Uomini di scienza, uomini che hanno squisito senso d’arte, debbono essersi riportati a quei tempi ed a quella vita per foggiarsi uno spettacolo interiore simile a foggiarne di fatto uno tangibile agli occhi corporei della folla che trascorrerà, ammirando, dalla casa del Fauno e quello del Trageda, dalla casa delle Nozze d’Argento a quella dei Vettii, dalla riva dell’Abbondanza a quella di Stabia indefinita che andava oltre, lontano e portava lungi dalla indimenticabile città il fervore d’una vita intensa, il fremito ininterrotto d’una gioia indefinibile che solo l’ira del Vesuvio potette due volte spezzare e seppellire non tanto da impedirne il ritorno alla luce.

I cavalli del Circo attaccati alle quadrighe assillati dalle palme, frenati dai guidatori impazienti scalpita-