Il buon cuore - Anno VIII, n. 50 - 11 dicembre 1909/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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La gloria di Federico Borromeo

Il tranquillo recesso dell’Ambrosiana, non ignoto ai cultori delle arti e delle lettere, noto ai milanesi più per la luce che ne irradia, di quel che non possa dirsi per la frequenza delle visite, ha celebrato l’8 dicembre la gloria del suo illustre fondatore. Monumento insigne che l’uomo chiaro eresse a sè stesso, pur rifuggendo da ogni clamore, in un momento storico in cui vanità e vacuità eran erette a vessillo, l’Ambrosiana nei secoli ha dimostrato quanto il fondatore suo avesse antiveduto i bisogni del suo popolo, quanto amore del loco natio lo avesse spinto quando ai concittadini egli offriva i tesori di quella cultura che egli stesso aveva appreso ad apprezzare e stimare.

Nel secolo più aspro per l’italica stirpe, nel secolo in cui parve per un momento che le energie si fiaccassero e l’oppressione politica spegnesse anche ogni geniale iniziativa d’arte o di lettere. Federico Borromeo cardinale ed arcivescovo, metteva a servizio della cultura del suo popolo il largo suo censo, e le forti influenze che la posizione sua privilegiata, potevan assicurargli.

L’uomo che avrebbe potuto creare a buon diritto una «Biblioteca Borromeo» se fosse stato un sognatore ambizioso, o un mecenate vanitoso, l’uomo che avrebbe potuto formare attorno alle meraviglie da lui raccolte una chiesuola, od un hartus conclusus a cui solo gli eletti si accostassero, e che invece con esempio nuovo e contrastante colle idee de’ tempi volle che tanto tesoro fosse alla portata di chiunque desiderasse studiare merita larga la riconoscenza dei posteri.

In vero quando l’8 dicembre del 1609, festa di [p. 394 modifica]Maria Immacolata, il cardinale Federico inaugurava solennemente alla presenza delle maggiori autorità e rappresentanze cittadine la Biblioteca Ambrosiana, egli compiva un atto assolutamente insolito per quel tempo, in quanto metteva a contatto del popolo una preziosissima raccolta, una fonte di cultura ricca come il largo censo del fondatore e l’amor suo immenso per le cose belle gli avevan permesso di riunire.

Uomo dottissimo nelle lettere e nelle lingue, nel diritto e nella storia, nell’eloquenza e nell’arte, colto di latino e di greco e delle lingue orientali, il cardinale Federico ricercava la compagnia dei bibliofili e degli eruditi. E nei 36 anni che durò il suo ufficio pastorale dal 1594 al 1631 le molte cure date al suo ministero, colle frequenti visite pastorali, coi 14 sinodi diocesani, e col concilio provinciale che tenne, non gli impedirono di escogitar mille modi per far incetta di manoscritti e libri vari. Vescovi e missionari in Egitto, in Asia, nelle regioni più lontane, forniti di grosse somme procedevano a trattative lente, pazientissime che procuravano al Cardinale meraviglie d’ogni genere.

Fu così che dall’inizio la biblioteca Ambrosiana potè vantare una superba ed invidiabile raccolta di manoscritti: 75 codici eran venuti dal monastero benedettino di Bobbio, competitore in quel tempo di quello celeberrimo di Montecassino; dal nord e dall’ovest dell’Europa eran stati raccolti in buon numero codici latini, dal sud d’Italia e dall’Arcipelago s’eran ricavati in gran numero manoscritti greci: l’Oriente e l’Egitto avevan fornito i manoscritti siriaci, ebraici, arabi, copti, etiopici: e al tempo istesso si praticavan ricerche presso confraternite, presso privati illustri ed oscuri, talchè all’inaugurazione della biblioteca, essa già poteva vantare un tesoro di 15,000 codici. Tra questi un manoscritto della «Commedia» della fine del trecento, un «De Officiis» miniato dei primordi del cinquecento, un «Virgilio» alluminato con postille di mano del Petrarca. Accanto ai manoscritti il cardinal Borromeo collocò una ricca suppellettile letteraria di stampati, già dalla fondazione ammontante a circa 30,000 volumi, e che nei tempi posteriori si accrebbe d’assai per cospicui acquisti, generose donazioni e illuminati lasciti. Il cardinal Federigo istesso donò morendo la sua ricca raccolta e l’esempio fu da moltissimi seguito: oggi la biblioteca vanta così oltre 250,000 volumi.

Nè era questo sogno ambizioso di Mecenate, nè vaghezza di collezionista ostinato: poichè forse sull’animo di quest’uomo coltissimo, avezzo a riconoscere i pregi ed i vantaggi di quest’arma valida di difesa contro l’errore, molto potè l’intento ch’egli si prefiggeva di ammaestrare i venturi ed armarli alla difesa della religione insidiata dal propagandarsi della Riforma, all’intelletto sereno del cardinal Federigo certo apparve nell’atto di dar effetto al suo grande progetto quanto vantaggio la scienza e l’erudizione avrebbero potuto portare nella lotta che in quel momento si combatteva, e perciò non solo raccolse la materia di studio, ma curò con ogni mezzo che essa non si trasformasse troppo facilmente in un museo di cose morte quando invece da essa doveva vibrare l’affiato della vita e squillar la diana della difesa della religione. Così aprì i battenti della biblioteca al pubblico, aggiunse una stamperia di caratteri orientali e creò i collegi dei Conservatori e dei Dottori che durano ancora oggi, e quelli degli Alunni e degli studi classici provvedendo al tempo istesso ad ottenere dalla Santa Sede che si largissero borse di studio a quei giovani di provata capacità che nel Seminario studiassero in servigio dell’Ambrosiana.

I primi due Collegi hanno continuato insino a noi e non solo hanno conservato ed aumentato il patrimonio di cui il fondatore aveva dotato la biblioteca, ma hanno provveduto all’incremento degli studi giusta la norma espressa nel motto voluto per essi dal cardinal Federigo: «Singuli Singula», ciascuno una cosa, dedicandosi cioè ciascuno a qualche speciale ramo di sapere e rendendo conto di tempo in tempo dei loro studi col dare alle stampe qualche importante opera di erudizione.

Troppo lungo sarebbe qui citare la lunga schiera di dotti che diedero lustro all’Ambrosiana: basti ricordare il Muratori e quel cardinale Angelo Mai che fu detto il Cristoforo Colombo dei manoscritti. Ai giorni nostri meritan speciale menzione la edizione tipica del Messale Ambrosiano curata con trent’anni di pazienti ricerche dal dottor Antonio Ceriani, e la pubblicazione dei frammenti dell’Iliade dipinta del terzo secolo, frutto degli studi del Ceriani stesso in unione al dottore Achille Ratti.

Nè il sogno del cardinal Federico potè considerarsi conípiuto colle provvide istituzioni di cui abbiam detto: l’uomo che «baciava per ammirazione» il bel manoscritto del «De Divina Proportione» di Luca Paciolo, l’innamorato dei libri belli e delle cose belle, l’uomo che rimpiangeva e deplorava che il secolo dì Leonardo, Raffaello, Michelangelo tramontasse tra le vacuità ridondanti di un’arte fiacca ed esausta in vani sforzi verso lo stravagante, non poteva non riconoscere quale elemento possente fosse l’arte per integrar la coltura.

E così per eccitar allo studio dei grandi modelli antichi istituiva presso alla biblioteca una accademia di belle arti dove il disegno, la pittura, la scultura, l’architettura venissero insegnate in modo che ne uscisse elevato il livello spirituale della sua Milano. Specie delle attinenze dell’arte al culto divino si preoccupava il cardinal Federigo, e come aveva trattato l’argomento nell’opera sua «De Pictura sacra» così aveva inteso opporsi al malgusto dilagante che conduceva a vere profanazioni della casa di Dio. E dall’accademia non tardavan a sortire tutti eccellenti. I nomi di Procaccini e di Daniele Crespi basterebbero ad illustrarla e a ricordarla ai posteri, se l’Accademia di Brera sorta nel 1775 per iniziativa del governo austriaco quasi in continuazione di quella dell’Ambrosiana non ne costituisse ancor oggi il ricordo vivente.

Ma accanto all’accademia di belle arti il Cardinal Federigo volle anche raccogliere una pinacoteca. Il [p. 395 modifica]cardinale negli anni suoi giovanili in Roma si era dato con fervore allo studio dell’antico e dell’arte ed aveva raccolto note e schizzi numerosi di monumenti e capolavori sui quali il tempo e l’uomo gravavan la loro mano distruggitrice, ed era entrato in dimestichezza coi più insigni artisti suoi contemporanei, primo fra loro il fiammingo. Giovanni Brügel che al suo mecenate dedicò le sue migliori opere. Non gli fu difficile quindi giovarsi del largo suo censo per formare una delle più squisite raccolte che vanti il mondo. La galleria Borromeo fu il primo nucleo, che poi aumentato anche con donazioni cospicue venne a formar questo tesoro che i milanesi conoscono per lo più solo di nome ma che è noto ai cultori d’arte di tutto il mondo. Basti dire che la raccolta comprende un Michelangelo, due Leonardo, dieci Tiziani, e i lavori del Luini, di Giorgione, del Francia, oltre a disegni di Raffaello, di Giulio Romano, a miniature e stampe.

Così chi ha potuto ammirare le meraviglie dei codici vinciani, e sopratutto di quel «Codice Atlantico» che è vanto della raccolta di manoscritti dell’«Ambrosiana» trova vicino nuovo svago e ristoro nella ammirazione dei capolavori più insigni del genio italico e straniero.

Tanto Federico Borromeo, cardinale ed arcivescovo, uomo di fede e uomo di cultura seppe compiere a gloria di quella religione, che invano fu accusata di uccidere l’ingegno, e di volere l’ignoranza delle plebi. E la bonaria figura di prelato che i lettori del romanzo manzoniano ricordano dolce e severo nell’evangelica sua missione, annunciante la legge suprema d’amore ad un mondo che vive di odii e di misfatti, che perpetua delitti, e opprime colla violenza e colla forza, quel prelato istesso non solo alleviò le sofferenze degli umili sostenendoli contro la prepotenza dei grandi, ma diede loro il ristoro spirituale della cultura, per elevarne le anime, ed esaltarne gli spiriti.

Quella figura di prelato, che lo scrittore lombardo ha circonfuso di luce serena, ha creato alla religione un baluardo insigne. Ma non eresse alla sua gloria meno fulgido monumento.

A.



La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.




UNA FIGLIA DEL LAVORO

Il freddo intenso e pertinace di quest’anno che ogni dì, si può dire, fa una nuova vittima nelle persone attempate, ha accorciato i giorni anche di una vecchierella, che ha lavorato sino all’ultimo respiro affine di guadagnarsi il pane, avendo disdegnato sempre di ricorrere in qualsiasi modo all’elemosina. Questa buona e brava vecchierella — vera figlia del lavoro — conosciuta ed amata da molti in Milano, era la Carolina Mari.

Un mesto corteggio, costituito appunto dai numerosi che la conoscevano, ne accompagnava oggi le spoglie al Campo Santo, dove uno di questi pronunciava sulla fossa le seguenti parole:

«Io credo di farmi interprete di quanti qui siamo giunti col ricordare in poche parole la vita virtuosa di questa donna, che se tutti noi abbiamo conosciuto, tutti abbiamo anche sinceramente amato.

«Carolina Mari nata da famiglia di ristrettissime condizioni, non aveva mai voluto maritarsi per non creare alla società, com’ella diceva, infelici da mantenere; — eppure la sua fu vita esemplare!

«Rimasta prestamente orfana d’ambo i genitori, visse insieme col fratello lunga pezza lavorando da sarta — il mestiere imparato in famiglia — fino a che anche questo suo unico prossimo parente morì, lasciandola sola al mondo senza più alcun appoggio.

«Ma la nostra Mari non era donna da perdersi d’animo.... e lavorò, lavorò colle sue braccia sino alla fine di sua esistenza, nè mai una volta sola ella ricorse per sussidi alla carità cittadina.

«E tuttavia più di qualcuno fra noi si ricorda d’averla vista o udita spesse volte malata, e malata gravemente; qualcuno anzi fu più fiate presente a momenti che sembravano esser gli estremi della sua vita: anche allora, come sempre, la Mari non si scoraggia; sotto l’usbergo della sua coscienza pura, affrontava ella, quasi scherzando, la morte.

«Ma questa donna ch’ebbe tanto coraggio nel cammino ordinario di tutti i giorni, aveva in sè una forza di spirito anche visibile, e noi sappiamo come nel quarantotto essa fu veduta sulle barricate in questa città nella contrada di S. Maria Fulcorina, ove dimorava la famiglia sua, ajutando impavida gli uomini ed eccitando in loro l’ardire.

«Ove però la nostra Carolina l’abbiamo più ammirata ed amata si fu nella sua stanzuccia, sola, coll’ago o colla forbice in mano, intenta al proprio lavoro di sarta: ecco, io direi, se qui v’e un artista tra noi che un giorno ci vorrà dipingere le di lei sembianze, ecco l’atteggiamento della Carolina Mari più naturale ad imprimersi sulla tela.

«Nondimeno, c’era nella giornata un istante che questa vecchierella non sapeva affrontare, nella solitudine della di lei cameretta, — voglio dire l’Ave Maria.

«I flebili rintocchi delle campane della vicina Chiesa, che annunciano il giorno che si muore, agivano su di lei così prepotentemente, — tale mestizia infondevano nel suo cuore sensibile ad ogni più delicato pensiero, — da costringerla in quel punto ad abbandonare la solitaria cameretta, e a ricercare la compagnia sociale.

Allora approfittava la Mari di restituire a casa dei committenti il lavoro compiuto, e se anche per questo nella giornata aveva affaticato assai, pure la stanchezza sembravale che cessasse, ad un tratto, stante la compiacenza soave ch’ella si sentiva col visitare la sera le varie famiglie conoscenti che se la disputavano quasi pel desio del suo festevole conversare.

Se non che il lavoro di tutta la giornata indefessamente così continuato, ahimè, non poteva sì presto e di leggieri esonerarla all’età sua da un pesante affanno...; questo forse, aggiunto al suo vecchio malore cardiaco e alla pesante rigidità straordinaria della stagione, fu la causa che i giorni abbreviò della nostra Mari.

Pace sia all’anima tua: Dio che tu hai tanto pregato, nella tua fede costante, nei modi virtuosi e sacri che la religione ti suggeriva, accolgati in Cielo ove hai ben meritato un posto.

A noi, che piangiamo la tua dipartita, che qui ti rendiamo l’ultimo tributo d’affetto, a noi che avremo sempre in te scolpito il simbolo dell’onestà e del lavoro, ora più non resta che far ritorno qui qualche volta a pregare sulla tua fossa!


L’Enciclopedia dei Ragazzi spiega e insegna tutto divertendo.