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395 IL BUON CUORE


dinale negli anni suoi giovanili in Roma si era dato con fervore allo studio dell’antico e dell’arte ed aveva raccolto note e schizzi numerosi di monumenti e capolavori sui quali il tempo e l’uomo gravavan la loro mano distruggitrice, ed era entrato in dimestichezza coi più insigni artisti suoi contemporanei, primo fra loro il fiammingo. Giovanni Brügel che al suo mecenate dedicò le sue migliori opere. Non gli fu difficile quindi giovarsi del largo suo censo per formare una delle più squisite raccolte che vanti il mondo. La galleria Borromeo fu il primo nucleo, che poi aumentato anche con donazioni cospicue venne a formar questo tesoro che i milanesi conoscono per lo più solo di nome ma che è noto ai cultori d’arte di tutto il mondo. Basti dire che la raccolta comprende un Michelangelo, due Leonardo, dieci Tiziani, e i lavori del Luini, di Giorgione, del Francia, oltre a disegni di Raffaello, di Giulio Romano, a miniature e stampe.

Così chi ha potuto ammirare le meraviglie dei codici vinciani, e sopratutto di quel «Codice Atlantico» che è vanto della raccolta di manoscritti dell’«Ambrosiana» trova vicino nuovo svago e ristoro nella ammirazione dei capolavori più insigni del genio italico e straniero.

Tanto Federico Borromeo, cardinale ed arcivescovo, uomo di fede e uomo di cultura seppe compiere a gloria di quella religione, che invano fu accusata di uccidere l’ingegno, e di volere l’ignoranza delle plebi. E la bonaria figura di prelato che i lettori del romanzo manzoniano ricordano dolce e severo nell’evangelica sua missione, annunciante la legge suprema d’amore ad un mondo che vive di odii e di misfatti, che perpetua delitti, e opprime colla violenza e colla forza, quel prelato istesso non solo alleviò le sofferenze degli umili sostenendoli contro la prepotenza dei grandi, ma diede loro il ristoro spirituale della cultura, per elevarne le anime, ed esaltarne gli spiriti.

Quella figura di prelato, che lo scrittore lombardo ha circonfuso di luce serena, ha creato alla religione un baluardo insigne. Ma non eresse alla sua gloria meno fulgido monumento.

A.



La NONNA è un capolavoro di una freschezza e di una originalità assoluta.




UNA FIGLIA DEL LAVORO

Il freddo intenso e pertinace di quest’anno che ogni dì, si può dire, fa una nuova vittima nelle persone attempate, ha accorciato i giorni anche di una vecchierella, che ha lavorato sino all’ultimo respiro affine di guadagnarsi il pane, avendo disdegnato sempre di ricorrere in qualsiasi modo all’elemosina. Questa buona e brava vecchierella — vera figlia del lavoro — conosciuta ed amata da molti in Milano, era la Carolina Mari.

Un mesto corteggio, costituito appunto dai numerosi che la conoscevano, ne accompagnava oggi le spoglie al Campo Santo, dove uno di questi pronunciava sulla fossa le seguenti parole:

«Io credo di farmi interprete di quanti qui siamo giunti col ricordare in poche parole la vita virtuosa di questa donna, che se tutti noi abbiamo conosciuto, tutti abbiamo anche sinceramente amato.

«Carolina Mari nata da famiglia di ristrettissime condizioni, non aveva mai voluto maritarsi per non creare alla società, com’ella diceva, infelici da mantenere; — eppure la sua fu vita esemplare!

«Rimasta prestamente orfana d’ambo i genitori, visse insieme col fratello lunga pezza lavorando da sarta — il mestiere imparato in famiglia — fino a che anche questo suo unico prossimo parente morì, lasciandola sola al mondo senza più alcun appoggio.

«Ma la nostra Mari non era donna da perdersi d’animo.... e lavorò, lavorò colle sue braccia sino alla fine di sua esistenza, nè mai una volta sola ella ricorse per sussidi alla carità cittadina.

«E tuttavia più di qualcuno fra noi si ricorda d’averla vista o udita spesse volte malata, e malata gravemente; qualcuno anzi fu più fiate presente a momenti che sembravano esser gli estremi della sua vita: anche allora, come sempre, la Mari non si scoraggia; sotto l’usbergo della sua coscienza pura, affrontava ella, quasi scherzando, la morte.

«Ma questa donna ch’ebbe tanto coraggio nel cammino ordinario di tutti i giorni, aveva in sè una forza di spirito anche visibile, e noi sappiamo come nel quarantotto essa fu veduta sulle barricate in questa città nella contrada di S. Maria Fulcorina, ove dimorava la famiglia sua, ajutando impavida gli uomini ed eccitando in loro l’ardire.

«Ove però la nostra Carolina l’abbiamo più ammirata ed amata si fu nella sua stanzuccia, sola, coll’ago o colla forbice in mano, intenta al proprio lavoro di sarta: ecco, io direi, se qui v’e un artista tra noi che un giorno ci vorrà dipingere le di lei sembianze, ecco l’atteggiamento della Carolina Mari più naturale ad imprimersi sulla tela.

«Nondimeno, c’era nella giornata un istante che questa vecchierella non sapeva affrontare, nella solitudine della di lei cameretta, — voglio dire l’Ave Maria.

«I flebili rintocchi delle campane della vicina Chiesa, che annunciano il giorno che si muore, agivano su di lei così prepotentemente, — tale mestizia infondevano nel suo cuore sensibile ad ogni più delicato pensiero, — da costringerla in quel punto ad abbandonare la solitaria cameretta, e a ricercare la compagnia sociale.

Allora approfittava la Mari di restituire a casa dei committenti il lavoro compiuto, e se anche per questo nella giornata aveva affaticato assai, pure la stanchezza sembravale che cessasse, ad un tratto, stante la compiacenza soave ch’ella si sentiva col visitare la sera le varie famiglie conoscenti che se la disputavano quasi pel desio del suo festevole conversare.

Se non che il lavoro di tutta la giornata indefessamente così continuato, ahimè, non poteva sì presto e di leggieri esonerarla all’età sua da un pesante affanno...; questo forse, aggiunto al suo vecchio malore cardiaco e alla pesante rigidità straordinaria della stagione, fu la causa che i giorni abbreviò della nostra Mari.

Pace sia all’anima tua: Dio che tu hai tanto pregato, nella tua fede costante, nei modi virtuosi e sacri che la religione ti suggeriva, accolgati in Cielo ove hai ben meritato un posto.

A noi, che piangiamo la tua dipartita, che qui ti rendiamo l’ultimo tributo d’affetto, a noi che avremo sempre in te scolpito il simbolo dell’onestà e del lavoro, ora più non resta che far ritorno qui qualche volta a pregare sulla tua fossa!


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