Il buon cuore - Anno IX, n. 46 - 12 novembre 1910/Educazione ed Istruzione

Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 46 - 12 novembre 1910 Religione

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Le cronache dei giornali

e la protezione dei minorenni


Un venerando senatore, l’avv. e procuratore generale Calabrese, nell’intento di togliere o almeno diminuire le cause della delinquenza dei minorenni, ha presentato un progetto di legge per porre un freno a quella stampa, la quale, seguendo criterî puramente industriali, asseconda gl’istinti delle folle colla pubblicazione giornaliera delle cronache più scandalose. Il distinto legislatore, come tutti i galantuomini, vede appunto nelle colonne quotidiane di certi giornali dediti alla speculazione, una delle cause principali del pervertimento dei ragazzi e dei giovani d’ambo i sessi, e, col linguaggio della verità, segnala i mali e i rimedi.

Ma la verità punge a guajo, e il progetto dell’onorevole Calabrese, che può dirsi anche il sunto di fiere ma giuste requisitorie pronunciate da altri magistrati in occasione dell’inaugurazione dell’anno giuridico, ha suscitato un vespajo tra giornalisti che gareggiano in abilità nel difendere il così detto patrimonio delle libertà moderne.

Notisi che l’on. Calabrese — da taluni qualificato come uomo fossilizzato nelle dottrine del passato, o come un ingenuo — riconosce la fatalità di certe evoluzioni e quindi la necessità del così detto notiziario interessante; ma s’intende come l’egregio uomo si affretti a soggiungere che «se è inevitabile la pubblicazione sommaria degli avvenimenti, dei misfatti, non è necessaria nè utile la pubblicità depravatrice e contagiosa dei particolari, e bisogna porvi rimedio».

Ogni persona onesta, di buon cuore e di buon senso comprende che il colpo è diretto con parsimonia a quei pubblicisti che speculano sullo scandalo e vi si gettano avidamente per anatomizzarlo e presentarlo ai lettori, ed è purtroppo noto a tutti come ormai migliaja e migliaja di minorenni, apprendano appunto dalle cronache di certi giornali, fatti e particolari, che in tempi di più sana morale si lasciavano nell’oblìo. Eppure, se si dovesse giudicare dalle proteste che si sono stampate di questi giorni, parrebbe che la stampa sia la istituzione innocente per eccellenza e che l’on. Calabrese sia uscito con un affastellamento pessimistico di corbellerie! Certi difensori di cronache sembrerebbero ingenui, se dal loro artificio non emergesse continuamente la contraddizione in cui cadono e se il loro torto non apparisse evidente anche per le prove che si stampano — eloquente contrasto — nel medesimo foglio in cui si fanno sproloqui sull’utilità del giornalismo all’altezza dei tempi e delle necessità moderne.

Anche pubblicisti distinti hanno tirato palle infuocate contro l’on. Calabrese, il quale potrà essere discusso nelle forme d’applicazione del suo progetto, mentre tutti i galantuomini dovranno riconoscere la verità sostanziale delle sue affermazioni e l’elevatezza de’ suoi obbiettivi ispirati da una coscienza che ha sentito il dovere d’intervenire in un argomento cui si tratta delle più gravi responsabilità dinanzi a Dio ed alla società civile.

Uno dei contradditori dell’on. Calabrese non ha trovato da opporre all’egregio magistrato che questo suggerimento: «Sopprimete allora anche la pubblicità dei dibattimenti». In mancanza di ragioni, si va nel sofisma e si giunge al punto di arrampicarsi sui vetri, che scivolano e sono pericolosi specialmente per chi di vetro ha la propria casa. Si intende che anche il problema dei dibattimenti pubblici dovrà essere discusso, malgrado la necessità del controllo; ma intanto sappiamo che la legge provvede nei casi più scabrosi e ordina i processi a porte chiuse. Ma chi è che viola impunemente la legge provvida anche in tali casi? Il cronista, sempre il cronista, che vuole impossessarsi ad ogni costo dello scandalo nascosto per arricchirne il suo giornale! D’altronde [p. 362 modifica] quale enorme sproporzione tra l’esiguo numero dei dilettanti di un dibattimento e i milioni di lettori della cronaca!

Due atleti della stampa hanno combattuto in questi giorni sull’argomento spinoso, Ettore Janni, dal punto di vista del Corriere della Sera, e l’arguto Tournebroche dalla Perseveranza, come paladino di chi vorrebbe porre un argine allo scandaloso dilagamento.

Ci piace riportare integralmente le osservazioni da Tournebroche pubblicate in forma di lettera aperta a Ettore Janni.

«Colla tua lettera aperta al comm. Calabrese tu gli hai insegnato molte verità che il valente uomo evidentemente non sospettava neppure. E, inspirato dal tuo solito acuto buon senso, nella chiusa l’hai avvertito dell’opportunità di andare adagio nel proporre rimedi legislativi ai mali morali, più o meno seri, che affliggono il nostro consorzio civile. Nel campo della legislazione sociale educativa non bisogna strafare: è questo il tuo ammonimento eccellente, al quale sottoscrivo a due mani.

«Ma, a diradare le tenebre che avvolgono quel povero Procuratore Generale, tu hai creduto necessaria l’apologia del giornale moderno di gran tiratura: di quello che «per la fatalità della sua natura» è forzatamente cronacaiolo, perchè «fonda il suo carattere sull’equilibrio numerico di coloro che lo comprano». A mio debole parere tu, volendo stradimostrare, hai passato il segno, come un membro qualunque delle innumerevoli Commissioni pro-minorenni.

«Secondo te, coloro che si permettono di criticare un giornale siffatto sono portinai o filosofastri. «I portinai ci trovano infatti troppa filosofia e i filosofastri troppi fatticelli correnti». Sei sicuro d’aver ragione? Sei sicuro che l’Umanità si divida appunto in tre classi: portinai, filosofastri e ammiratori esterrefatti del... del giornale fatale? Ad ogni modo, se è vero quel che dici tu, io m’inscrivo senz’altro nell’ordine dei filosofastri; e forse mi ci troverò in buona e numerosa compagnia.

«So bene che in Italia nessun giornale s’è plasmato finora sul tipo del Matin, che ogni giorno reca in prima pagina un’antologia di delitti «narrati al popolo» in forma suggestiva, corredata di inchieste particolari e adorna di ritratti d’apaches, di souteneurs e di cadaveri di vecchie assassinate. Ma la tendenza c’è e si va accentuando. E’ proprio una necessità fatale? E’ vero che il palato del pubblico sia così grossolano da non poter gustare altro cibo? E se è tale, la colpa è tutta sua? L’avidità di cronache scandalose o raccapriccianti sarebbe dunque una passione naturale come la libidine e la gelosia? L’abbiamo ereditata dagli aborigeni abitatori d’Italia, o non ci fu per avventura inoculata di recente dal giornalismo tiraturista a oltranza? Nel quale ultimo caso, che valore conserverebbe la tua apologia?

«Un uomo pieno d’ingegno e vuoto di ubbie sentimentali, fondò, meno di quarant’anni fa, un giornale quotidiano, lo fece prosperare e lo lasciò, morendo, fortissimo. Soleva dire: «al pubblico bisogna imbandire del fieno»; ma nel suo giornale non ammise mai certe stramaglie. Non credeva necessario d’arrivare fin là. O

che il mondo è radicalmente trasformato, dalla sua morte in poi? Vent’anni fa un giornale poteva vivere e diventar grande senza vendersi a nessuno: ed ora, come dici tu, se non fa «il semplice commercio coi lettori» dovrà, pena la vita, impegolarsi in peggiori «commerci d’altro genere».

«Amico mio, tu disprezzi il pubblico oltre ogni limite ragionevole. Non è vero che l’Italia incretinisca di giorno in giorno e che i suoi gusti si facciano sempre più volgari. Si cammina adagio, ma si cammina. Ed io non vedo perchè sulla via del progresso, il giornalismo, invece di mettersi alla testa delle moltitudini, debba fatalmente seguire alla coda. La gente non ci vuole pedagoghi indigesti, ma neppure ci pretenderebbe servitori umilissimi delle sue tendenze più basse. Eppure noi giornalisti arriveremmo senz’altro a quest’ultima «bella posizione sociale» se applicassimo fino alle estreme conseguenze logiche la tua teoria del a semplice commercio col pubblico» e «sull’equilibrio numerico di coloro che comprano il giornale».

«Su questa teoria tu assicuri che si può fondare una morale solidissima. Poichè la parola morale, negli odierni libri di filosofia, ha i significati più varî e più discordi, non posso dire che tu abbia torto. Forse l’hai presa nel senso di costumanza; forse in quello di azienda...Chissà? Ad ogni modo tu, da quel galantuomo che sei non hai l’aria di gabellare questa «morale nuova» per un sublime ideale realizzato: anzi fai intendere che l’adotti perchè nel nostro ambiente è la meno falsa possibile. Ti viene il sospetto che sia cinica; ma poi crolli le spalle e ti rassegni. Non vuoi dar di cozzo nelle Fata.

«Ma le Fata son proprio cosi dure come tu te le raffiguri? Vediamo un po’. Nei paesi in cui le masse sono meno arretrate delle nostre, il giornalismo, a norma della tua teoria, dovrebbe ormai aver assunto un colore uniforme giallo sbiadito. Dovrebbe essere quasi tutto cronaca obbiettiva e quasi niente opinioni recise, perchè queste ultime non possono piacere a chiunque e rischiano di rompere «l’equilibrio numerico dei compratori». In Francia non potrebbe vivere se non il tipo Matin e Petit Journal; in Inghilterra il tipo Daily Mirror o peggio. Eppure non è così. Giornali come il Temps, i Debats, l’Echo de Paris e lo stesso Figaro, fatti all’antica perchè intendono di guidare la opinione pubblica e non di seguirla, vivono dignitosamente, senza intingersi nella mala pece di certi contratti. Spacciano meno copie dei giornali gialli, ma hanno un’influenza e un prestigio infinitamente superiore. Le esigenze dei tempi nuovi non sono riuscite a sopprimerli e nemmeno a scalzarli. Altri giornali del loro stampo sono morti: è vero. Ma erano quelli fatti male. E quale gazzetta è meno gialla del Times? E mi vorrai dire che il Times viva di male accattate sovvenzioni?

«La fatale tendenza al giornale cronacaiolo e obbiettivamente incolore non mi sembra dunque una conseguenza necessaria del nostro sviluppo civile. E, se non è necessaria, non conviene rassegnarvisi. Tu per il primo, tu che proclami la tua rassegnazione, quando hai la penna in mano l’adoperi come intendo io e non come l’intende la redazione del Chicago Advertiser. Tu scrivi [p. 363 modifica] ciò che pensi e non ciò che pensa il gran pubblico; tu non descrivi mai le interiora della donna tagliata a pezzi, tu cerchi di persuadere e di guidare, non di fare il caudatario e il magot chinese che, a dargli un buffetto, dice di si per un quarto d’ora.

«Tu sei un falso rassegnato, amico mio. Lascia che ti stringa la mano». {{A destra|margine=1em|Tournebroche.

AMOR VERO


RACCONTO


(Continuazione e fine, vedi numero 44).


— Oh! sì, la salveremo!

— Rreghiamo.

— Preghiamo.

E salutata la Suora, salì da Clotilde.

Tutti i giorni, alla medesima ora, si vedeva l’uffiziale incamminarsi verso casa Delrio. Stava a lui provocar nell’inferma quel momentaneo ritorno alla vita, senza il quale la guarigione radicale non era sperabile. Certuni ne dubitavano, ma Rodolfo tenea sicurissimo che il viaggio alle acque salvatrici sarebbe stato, un dì o l’altro possibile. La sua speranza si trasfondeva in Clotilde, che pareva rinascere. Sciolta ornai da qualunque inquietudine, vedendo contento il tutore, lieto il fidanzato, non udendo che parole di speranza, proteste di affezione, la sua bell’anima, sì lungo tempo oppressa, si espandeva liberamente in quel nuovo aere, e sicchè ne stava meglio anche il corpo.

Un dì Rodolfo la trovò che passeggiava nei viali del giardino senza un braccio che la sorreggesse, e seppe che già da un’ora continuava quell’esercizio. E ricordando le parole del dottor Gradi, la prese per mano e le disse:

— Clotilde, in questa settimana bisogna partire.

In certi momenti questa idea del partire dava alla giovane una cupa malinconia. Faceva prova di distrarsi, si sforzava di sperare, ma in realtà non si sentiva guarita, e l’idea di morire lontana dal luogo nativo, lontana da Rodolfo, la faceva rabbrividire. Udendo ora quelle parole così risolute che le intimavano la partenza, ne fu terribilmente colpita. Sentendosi venir meno s’assise, e si coperse con ambe le mani la faccia, onde celare le lagrime che scorrevano suo malgrado.

A una voce di Rodolfo era accorsa la famiglia, e le stavano attorno tutti mesti e rannuvolati. Quel presentimento, quel pianto, quella fiacchezza ancor così grande facevano pensare che la meschina non isfuggirebbe alla morte, a quella crudele che accenna talvolta di abbandonar le sue vittime per poi piombarle sul più bello delle speranze nelle tenebre del sepolcro.

Allorchè Clotilde sollevò la testa e vide sugli altrui volti il doloroso effetto del suo piangere, si sforzò di sorridere.

— Perdonate, disse: io sono una pazzerella e, che è peggio, ingrata a Dio. Ma non posso in modo alcuno vincere questo terrore che mi mette nell’animo il pensiero di dover presto morire, e morire, o Rodolfo, lontana da te. E arrestò in faccia a Rodolfo. gli occhi umidi ancora.

Questi, a dir vero, era stato assai volte tormentato anche lui dall’idea d’una lontananza che poteva essere eterna. Quantunque vasta sia la scienza d’un medico, vi sono pur casi ne’ quali egli non può rispondere nè anco dell’effetto da lui presagito. Se la guarigione era

possibile, non poteva essere che a Vichy; ma restava pur sempre l’incertezza d’ogni giudizio sull’avvenire pronunziato dalla parola dell’uomo. Separarsi in un tal momento, vivere l’un dall’altro lontani quando l’una delle due vite a un menomo soffio può spegnersi, era, bisogna dirlo, per quelle due anime, unite da un affetto sì forte e sì puro, un gran sacrifizio.

Rodolfo, stato lungamente pensoso, d’improvviso si levò e quasi illuminato in faccia da una rivelazione celeste, disse:

— Mi balena alla mente un’idea. Sarò io libero di effettuarla?

E guardava i Delrio. Questi fecero col profondo chinar del capo un gran segno d’assenso.

— Uditemi dunque: Fra otto giorni io e Clotilde partiremo per Vichy e partiremo maritati.

E poichè tutti lo guardavano in viso onde vedere se diceva da senno:

— Si, maritati, ripeteva a Clotilde, io non posso lasciarti, voglio avere il diritto d’accompagnarti a Vichy, voglio assistere ora per ora alla tua risurrezione.

Questo disegno, a prima giunta sì strano, in realtà era l’unico che potesse acquetare i terrori di Clotilde, il meglio pensato per assicurare l’effetto delle acque salutari. L’unico che avrebbe avuto un vero interesse ad opporvisi era colui che lo proponeva.

— E s’io muoio? domandò Clotilde con un accento che diceva come questa paura fosse per dileguarsi.

— E se tu muori, tu morrai mia; il mio lutto farà testimonianza a tutti del mio dolore.

— Oh Rodolfo! Tu sei troppo buono e troppo mi ami per dover temere che Dio non esaudisca i tuoi voti! Fa pure di me quel che meglio ti piace.

E tutti e due si risolsero in lagrime.

Grandissimo fu lo stupore di tutti, quando si diffuse per la città la voce di nozze tali. Pur troppo non si sanno immaginare dai più i sacrifizi ond’è capace l’amor vero, l’amore cristiano. Sposare una moribonda, che è a dire, acquistare il diritto d’esserne l’infermiere e forse il seppellitore, era cosa che passava i termini e teneva o del pazzo, dice vasi, o dell’eroico. Non ci si voleva credere, ma bisognò bene arrendersi all’evidenza.

S’era alla vigilia della partenza; le nozze dovevano celebrarsi il domani per tempissimo; e molti, più curiosi che discreti, s’erano proposti di godere di sì nuovo spettacolo. Ma mentre la gente cominciava a spasseggiare nella via, gli sposi, traversando un giardino attiguo, entravano per una porta segreta nella cappella interna delle Figlie della carità. Suor Marta era sull’entrata a riceverli con un viso proprio da festa.

Era un ridente mattino d’estate; il sole inondava di luce i viali per cui passava il corteggio; da’ rami, dall’erbe, dai fiori usciva quasi un’armonia, dappertutto si espandeva la vita e la pallida vergine ne pareva ravvivata anche lei e quasi rinata nella sua antica beltà. La delicata persona aveva ravvolta entro un lungo burnous di casirniro bianco, che mentre lasciava spiccare l’eleganza delle forme, ne celava l’estrema macilenza; sotto il velo e la corona bianca luccicavano al s&e le trecce nere, e gli occhi grandi, vellutati, nerissimi si volgevano sotto le lunghe palpebre sempre splendidi e appassionati. Ma il giallore della pelle: il pallor delle labbra, il muoversi affaticato della persona troppo dicevano che quell’apparente miglioramento era dovuto più alle commozioni del momento che al ritorno della salute.

Uscita di chiesa, mutò il candido vestimento di sposa con un semplice costume da viaggio, e due ore dopo giungeva alla stazione, accompagnata dal tutore e dal marito, sul cui braccio si lasciava cadere. I curiosi, indispettiti, s’erano recati ad aspettarla colà.

Tostochè comparve, abbattuta da tante scosse, sorretta dal marito, si diffuse nella folla un mormorìo generale di compassione. [p. 364 modifica] Poi gli sguardi si volgevano a Rodolfo, e:

— Povero pazzo! dicevano taluni; così bello e gagliardo s’è legato a un cadavere!

— La ricondurrà nella bara, soggiungevano altri.

— Fa proprio male al cuore, diceva una donna, vederli partire così!

— Sapete che è? diceva un’altra mentre partivano: È lo sposalizio della morte.

III.


Sopra Vichy romoreggiava un temporale; la pioggia a goccioloni grandi e radi batteva sul fogliame de’ platani e de’ tigli del parco, e le persone sedute a quel rezzo fuggivano chi qua e chi là per ogni verso. I più paurosi riparavano a’ loro alberghi, gli altri ricoveravansi alle terme dove si trova il gabinetto di lettura, e sofà per sedere e lunghe gallerie per passeggiare. La galleria dei quadri, che traversa l’edilizio per il largo era allora animatissima per la frequenza de’ passeggieri e de’ curiosi che, seduti qua e là, si diletta. vano di vedere il viavai dei bevitori d’acqua.

In fondo a questa galleria due persone di età matura, di nobile aspetto, sedevano e conversavano.

— Perchè così tardi quest’anno a Vichy? domandava la signora.

— Che vuole? rispondeva l’altro; un medico è uno schiavo. Sono due mesi che mando gente a Vichy senza poterci venire io.

— E ci avete mandato dei malati serii stavolta?

— Come sempre, disse l’altro sorridendo; di quelli che lo sono e di quelli che si credono di esserlo. In tutti due i casi le acque fanno bene.

— Come vi burlate dei poveri infermi, che vi riguardano come la loro provvidenza!

— Burlarcene poi no. Mi spiacque di non poter venir prima a Vichy, per una giovane che desiderava trovarci. Una giovane che faceva compassione a vedere, tanto era distrutta. Oh! sapesse, signora mia, che storia commovente era la sua!

— Che male aveva, di grazia?

— Mal di fegato.

— Allora non tema, chè la è di certo guarita; anche quest’anno le acque fanno miracoli. Osservi, dottore, que’ due giovani, uomo e donna, fermi in atto di contemplare il quadro che porta il n. 123.

— Li vedo.

— Osservi specialmente la giovane, alta, svelta, bella, graziosa, animata. Or bene, costei, due mesi sono, io la vidi, pareva uno scheletro. Al cancello, quando s’accostava lei a bere sorretta dal marito, tutti le facevano largo per compassione. Di giorno in giorno la comincia a pigliar colore, poi a camminar diritta sulla persona, poi a parlare, a ridere, finchè riuscirà a tornarsene affatto guarita. A tutti qui, anche a’ medici, pare un prodigio.

— Ah! se sapessi che la mia malata avesse fatto altrettanto e sposato colui che amava!....

Frattanto i due osservatori del quadro n. 123 si erano rimessi a passeggiare di quel passo veloce, svelto, leggiero che suole la gioventù; passeggiavano, ciancia vano, ridevano in mezzo alla folla, come fossero soli. Giunti in fondo alla galleria, stavano per dar volta, quando il giovane, colpito alla vista del medico colà seduto, si soffermò, mormorando non so che all’orecchio della compagna. Questa trasalì, alzò il velo nero che le copriva gli occhi e sclamò — E lui!

— Perdoni, signore, disse il giovane, accostandosi; fra tanta gente forestiera si scoprono talvolta delle rassomiglianze strane. Ella somiglia perfettamente a persona che ha diritto a tutta la nostra gratitudine: al dottor Gradi.

— Ed io gliel credo, signore, rispose il medico alzandosi, dacchè ognuno deve almeno rassomigliare a se stesso.

— Ed ella non ci riconosce? disse la giovane.

— No, signora.

— Che? non ricorda la malata di B... ch’ella mandava alle acque tre mesi or sono?

— E’ impossibile! diceva il dottore fregandosi gli occhi e fissandola in volto.

— L’ho pure scritto a suor Marta che non sarei più riconoscibile Oh! mio signore! non ci siamo veduti che una volta, ma io l’ho subito raffigurato. Si, è lei; è proprio lei che mi ha salvata! a lei devo la vita!

Il dottore dovette pur finalmente arrendersi. Non avea veduto Rodolfo che pochi istanti in assisa d’uffiziale, ed era le mille miglia lontano dal pur sospettare che fosse anch’egli a Vichy. Quanto a Clotilde, ci correva tanto tra l’inferma scolorata, affralita, invecchiata di tre mesi prima, e la svelta, gaia, vivace giovinetta che avea dinanzi, che la sorpresa di lui era ancor più naturale.

Siffatta sorpresa fu maggiore e generale fra cittadini di Clotilde, allorchè finalmente ella ricomparve in mezzo ad essi. Tutti stupivano, si congratulavano, gridavano al miracolo, alla risurrezione. Che bella ricompensa fu quella pel disinteressato amor di Rodolfo!

In un villino presso la città di B... vivono al dì d’oggi due belle anime unite dai più saldi vincoli dell’amor puro e cristiano. Sono amati, ben voluti, benedetti da tutti. Vedono tratto tratto gli amici, fra quali certi Delrio, conoscenza vecchia, e una suor Marta, figlia della carità, caro oggetto della loro gratitudine e delle loro beneficenze. E sono, quanto è possibile quaggiù, tranquilli e felici, tanto più felici quanto più lunghe e crudeli sono state le prove che ebbero a vincere.

Tant’è! noi siam così fatti che non apprezziamo de• gnamente il bene che Dio ci manda, se non quando fummo sul punto di perderlo; son quasi per dire, quando l’abbiamo perduto.

Ancora sulla "Gzzarra attorno al corpo di un Santo„


Siamo fin troppo persuasi che il lettore debba averne ornai una satolla della disgraziata, malaugurata controversia sull’ubicazione del sepolcro dei SS. Satiro e Vittore. Perciò questa — dopo alcune righe che vogliamo aggiungere al già detto nello scorso numero — vuole essere l’ultima volta che ne parliamo, dichiarando chiuso per sempre da parte nostra l’incidente, almeno in questo periodico, e se non ci vengono provocazioni; nel qual caso diciamo il resto e con qualche nome. E parliamo perchè proprio, è l’impudente panegirico tessuto nei giornali in lode della Commissione ultima, che ci ha indignati, rivoltati. Loro sono padronissimi quei signori avversarii di proclamare il proprio lavoro, spassionato, concorde, coerente, sereno, ecc., ma noi non lo crederemo mai.

Poi ci ripugna che il lettore venga facilmente turlupinato; per questo altresì riprendiamo la penna. La riprendiamo per denunciare un’altra volta la deplorevole pubblicità data a un fatto che doveva restare lontano dalle passioni della piazza; deploriamo i mezzi di quella pubblicità; tutto questo non fa onore certo, perchè prova la difficoltà ad entrare in rango, accenna ad una inversione di procedura, appellando in un disperato appello, dal Sovrano ai sudditi, condotta che [p. 365 modifica] non sarebbe neppure conforme alla disciplina più ortodossa in qualunque ordine sociale.

Del lavoro vostro come lavoro, per quanto magnificato dal vostro panegirista, abbiamo già detto che persuade poco. Se l’Autorità non credette tampoco di prenderlo in considerazione, è già qualche cosa contro di voi.

Ma c’è dell’altro. Voi stessi avete, con una strana contraddizione, deprezzata, svalutata l’opera vostra sia a voce, sia per scritto come è facile vederlo nel vostro Riassunto al quale rimandiamo il lettore. Noi, oltre il già detto nel numero passato, soggiungiamo che il vostro lavoro somiglia molto a quegli edifizii che si innalzano su palafitte, cioè campati quasi in aria e non aventi fondamento comune; voi avete fabbricato su documenti e autorità del secolo XVI; ma importava invece e più largheggiare di argomenti tolti dai secoli precedenti; allora avreste fatto breccia anche sui più renitenti e difficili. Dovevate dirci del culto di S. Satiro p. e dal IV secolo in avanti, e che cosa si era fatto pel detto Santo in quella Porziana dove vorreste collocare il suo tumulo. Invece vi accontentate di scrivere che il culto di S. Satiro è posteriore al secolo IX o X. A noi intanto consterebbe il contrario; che cioè, traccia di culto a S. Satiro ce n’ha avanti, molto avanti il mille, et quidem, non nella Porziana, in cui non venne mai acceso un sol moccolo a quel modestissimo, ma nella Basilica Fausta inclusa nella Basilica Ambrosiana. Gli avversarii frughino nelle Biblioteche e troveranno.

Bellina poi questa, di prendersela un po’ con tutti invece di risalire più in là, più in alto a esalare l’amarezza che trasuda, stilla fra linea e linea degli articoli di autodifesa e autopanegirico di questa disgraziata campagna. Simili a quei cani — scusate il paragone alquanto basso, lo vediamo anche noi, che però è molto espressivo — simile a quei cani che rincorsi e sferzati da mano robusta, o si avventano alla schioccante coda della frusta, o vanno ad addentare rabbiosamente un sasso, un legno, tutto, fuorchè il braccio percuotitore. È chiaro il senso della parabola? Più in sù, più in alto dovreste dirigere le vostre doglianze e spiegazioni e panegirici. Si avventano contro tutto e tutti....

Quando vediamo p. e. che quei signori dotti avversarii prendono sul serio anche il Buon Cuore, anche il signor Meregalli, ahi! bisogna dire che a forza di usare del senso critico, e scientifico e storico, hanno finito col fare a meno del senso comune; bravi, excelsior, excelsior!...

Quanto a coerenza e a logica e assenza di passione nel lavoro dei nostri avversarii, ecco un esempio tipico. Ad un certo punto del Riassunto della Commissione contraria alla Basilica Ambrosiana, troviamo bollato come sognatore il Biraghi.

Ora noi non abbiamo mai potuto capire nè la ragione di tanto disprezzo di quell’uomo, e la ragione di mettere lui solo al bersaglio delle poco caritatevoli qualificazioni di cui quella di sognatore è un gingillo. Perchè p. es. separare Biraghi dal Proposto Rossi di S. Ambrogio col quale fu in comunione di lavoro, di vedute, di

sogni anche, ’riguardo ai ristauri e alle rivendicazioni della tradizione nostra per ciò che si compendia attorno a S. Satiro e S. Vittore? Perchè il Rossi è sempre lasciato nel silenzio quando si sa cosa ha scritto nella sua Cronaca Ambrosiana intorno ai detti Santi, e alla Basilica Fausta? Due pesi e due misure? Servitevi pure, ma allora cancellate dal vostro panegirico le mentite lodi di uomini dal lavoro sereno, spassionato, ecc.

E ancora quanto a Biraghi, si lasci se si vuole al Mommsen di lanciargli l’oltraggio; quel grande avrebbe se mai un’attenuante; ma i novizii in archeologia non hanno diritto di insultare maestri venerandi. Sì, maestro fu il Biraghi e tanto più degno di lode o di compatimento in quanto lavorò, osò, sognò anche, allora che i nostri sbarbatelli non erano ancora nati e nata da poco l’archeologia cristiana, allora che non c’erano ancora insegnanti insigni, libri, guide, scuole come vi sono oggidì, e un tesoro di esperienze, di scoperte, di criterii, di precetti, di rettifiche, di denuncie, di falsificazioni, di pericoli, di errori; ad ogni modo, ad un pioniere coraggioso, anche se sbaglia strada, anche se si smarrisce nella nebulosità di boscaglie selvagge, di lande sperdute lontano, va perdonato molto in grazia degli ardori sublimi delle sue audacie. Ma si che certa gente è in grado di assorgere a considerazioni così facili di senso comune, di giustizia, di gentilezza! Gli studii inaridiscono certi cuori, li rendono freddi, immiti, senza più fiamme di amore.

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ECHI E LETTURE


Anche la bandiera del governo provvisorio portoghese è... provvisoria; il rosso al sangue e il positivismo al verde cederanno il luogo al tradizionale bianco e azzurro: così anche quel provvisorio vessillo passerà negli armadi in attesa... di una rivoluzione avvenire. E deve essere così, infatti: «Una bandiera non si improvvisa!» aveva detto il signor Amedeo di Ponthieu nella sua interessante raccolta delle feste leggendarie: «ciò che la rende nazionale è la lunga e solenne consacrazione di tutto un popolo, ciò che la rende gloriosa è il suo battesimo di vittorie; è il fatto che essa fu durante parecchi secoli, il testimonio oculare dei più grandi sacrifici generati dal patriottismo. E a questo proposito la Francia ha il diritto di essere fiera dei suoi tre colori: essi hanno fatto il giro del mondo!». Ed infatti — ricorda la Croix du coeur — la prima bandiera francese, nota sotto il nome di cappa di S. Martino, consisteva in velo taffetas bleu ciel, sul quale era dipinto S. Martino, uno dei più antichi apostoli della Francia e apparve alla testa delle armate francesi nel 498 per il fatto che allora i re di Francia erano ereditariamente considerati come abati di S. Martino de’ Campi. Così il bleu simbolo della costanza, fu il primo colore francese. Più tardi i re di Francia erano diventati abati di S. Denis, e l’orifiamma rosso dato da Dagobert all’Abazia nell’anno 63o, succedette alla cappa di S. Martino e diventò lo stendardo della Francia. I re francesi adottarono infine il bianco per distinguere la loro bandiera da quella degli inglesi, poichè ai tempi di Carlo VI gli invasori avevano abbandonato il bianco, che era il colore di S. Giorgio, per adottare [p. 366 modifica] il rosso e affermare la loro sovranità sulla Francia. È infatti curioso questo scambio di colori nazionali fra due popoli rivali sì spesso in guerra. Carlo VII fu il primo re che riunì i tre colori. Nel 1788 i colori che si adottarono in Francia furono anzitutto il bleu e il rosso; La Fayette vi aggiunse il bianco, non volendo che la nazione rompesse assolutamente col reame. Ma sotto i Borboni lo stendardo della casa militare del re francese era incarnato, bianco e azzurro: il colonnello delle guide fece porre il suo scudo sopra 6 bandiere a tre colori che ricordano la cappa di S. Martino, l’orifiamma di S. Denis e lo stendardo bianco, che erano stati successivamente gli stendardi nazionali. Vi fu chi volle riconoscere in questa riunione dei tre colori il simbolo della fusione dei tre ordini, il rosso per il clero, il bianco per la nobiltà, il bleu per il terzo stato. Ma questo non fu che un giuoco di spirito. Durante i famosi «Cento giorni» era di moda portare in Francia la coccarda dei colori nazionali, e tutti la portarono; ma i partiti non avevano abdicato; i bonapartisti portavano la coccarda bordata di rosso, gli orleanisti la portavano bordata di bleu, i realisti di bianco.

IL SEGRETARIATO DI CHIASSO

dell’Opera d’Assistenza per gli emigranti


La conferenza tenuta a Como il 18 corr., dal sacerdote dott. Rossi, direttore del Segretariato di Chiasso dell’Opera d’Assistenza, ha dimostrato quali e quanti benefizii questa rechi, co’ suoi numerosi segretariati ed ospizii, tanto agli sbocchi di confine quanto nell’interno della Svizzera, Germania, Austria, Francia, ecc. In rapida rassegna sfilò la numerosa elencazione di uffici di collocamento, scuole, asili, ospedali, case famiglie, circoli, biblioteche, società di M. S., di ricoveri notturni, ecc. Istituzioni queste che ripetono la loro origine e prosperano grazie all’opera di mons. Bonomelli. Il solo segretariato di Ariosso, a mo’ d’esempio, colle sue cifre impressionanti può da solo far comprendere quale somma immensa di lavoro e di tutela codesta opera stia continuamente svolgendo. Citiamo le sole statistiche del primo semestre del 1910: Operai passati ed assistiti dal segretariato di Chiasso da gennaio a luglio 45.386. Dal biglietto a prezzo ridotto procurato ai medesimi dagli uffici dell’Opera, gli operai risparmiarono lire 314.155. Collocati al lavoro n. 516; minestre distribuite 20.000; pratiche di ogni genere espletate per gli operai, totale n. 1761.

Questo senza calcolare gli operai che pernottarono nella casa, i malati che ebbero ricovero nella infermeria medica e medicine gratuitamente e quelli che furono sussidiati con vitto e denaro trovandosi in necessità.

Il sac. Rossi chiuse la sua conferenza esortando le associazioni cattoliche comasche a voler prendere esempio dall’Opera nel lavoro a favore degli emigranti, fondando scuole, segretariati, circoli, biblioteche, tenendo conferenze onde così poter coll’istruzione migliorare le condizioni economico-morali di tanti bravi operai e dimostrare quanto i cattolici siano patrioti, curando una delle nostre più dolorose piaghe. Solo con tali mezzi si eviterà che le migliaia d’emigranti senza cultura, senza una gusta visione del mercato estero, espongano sè stessi alle più deplorevoli miserie e l’Italia ad una vergogna senza nome.



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