Il buon cuore - Anno IX, n. 32 - 6 agosto 1910/Beneficenza

Beneficenza

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Il buon cuore - Anno IX, n. 32 - 6 agosto 1910 Religione

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In memoria di S. E. Mons. G. B. SCALABRINI


Dall’organo dell’ITALICA GENS


La emigrazione di un popolo civile può essere interna, politica e agricolo-commerciale o di infiltrazione.

Per emigrazione interna io non intendo di significare quel flusso e riflusso di popolazione che si muove periodicamente per i diversi bisogni della vita civile e individuale in un determinato territorio, ma intendo bensì una vera e propria colonizzazione, entro i confini della patria, di terre incolte che possono sovrabbondare in una regione e scarseggiare in un’altra.

Quello che significhi e come si attui la emigrazione e la colonizzazione politica è a tutti noto, cioè: dare alla patria più ampia estensione, allargandone i confini o aggiungendone terre lontane, ove gli emigrati possano vivere all’ombra della bandiera nazionale, sotto l’egida delle patrie leggi e dove la religione, la lingua, le tradizioni, i costumi, tutto ciò insomma che forma la coscienza religiosa, civile e patriottica di un popolo serva a tener vivo, anche ne’ più lontani nepoti, il pensiero e l’affetto verso la terra dei padri.

Le colonie politiche furono il mezzo più potente di conquista e di espansione dei romani, e sarebbe modo veramente romano di compiere le funzioni migratorie.

Le colonie agricolo-commerciali o d’infiltrazione sono quelle che mirano a stabilire in paese altrui nuclei di popolazione di una data nazionalità che esercitino il commercio, l’industria e l’agricoltura e vivano fra popoli stranieri, senza perdere il proprio carattere nazionale. Fu il modo di emigrazione e di colonizzazione preferito dalle nostre gloriose repubbliche marinare.

Ora, come compie l’Italia nostra questa importante funzione della sua vita civile ed economica? o meglio, quale dei predetti modi di emigrazione può essa adottare?

La colonizzazione interna pare a molti la forma idealmente bella e per noi tutti di attuazione facile.

Costoro non sanno comprendere come il Governo non siasi pur anco deciso ad adottare questo sistema che deve renderci ricchi e potenti, intensificando la nostra popolazione, dando al lavoratore il pane quotidiano abbondante.

I fautori della colonizzazione interna ragionano così: — Che l’Italia nostra possa ospitare maggior numero di abitanti è intuitivo; basta considerare la densità relativa della sua popolazione, che va da 165 per km² in Liguria a 152 in Lombardia, per discendere via via ai 92 di Toscana, ai 77 delle Puglie e dell’Abruzzo, ai 60 dell’Umbria, ai 51 della Basilicata, ai 28 della fertilissima e già popolosa Sardegna; basta fare una corsa per le terre d’Italia e osservare i greppi della Valtellina e della Liguria, i colli piemontesi e toscani, la valle del Po trasformati in giardini, e il deserto dell’agro romano e i piani fecondi delle provincie meridionali e della Sardegna che giacciono incolti o convertiti in centri di infezioni malariche.

Utilizziamo la errante miseria della patria, impieghiamo a nostro beneficio quell’attività sempre ricercata, ma non sempre apprezzata, che si sparge per il mondo, fiotto di viventi, simili alle acque di un fiume senz’alveo che, invece di fecondare le terre circostanti, si perdono nel greto e fra gli sterpi lontani.

E sia dunque; si colonizzi pure all’interno, si tolga alla malaria tanta parte di territorio italiano, si renda più intensa e quindi più rimunerativa la agricoltura; tutto quanto si farà in questo senso sarà ottima cosa, ma non facciamoci illusioni; colonizziamo pure nei limiti del possibile, ma, a scanso di disinganni, persuadiamoci che la cosa non è facile, come pare a prima vista, e che certamente non è possibile nella misura [p. 250 modifica] che richiederebbe il rapido aumento della nostra popolazione.

Infatti, la densità media della popolazione in Italia è di 107 abitanti per km2, mentre in Germania è di 97, di 80 in Austria e di soli 72 in Francia.

Di più, io credo che quelli che contano a milioni di ettari le terre incolte d’Italia, siano in errore. L’Italia ha una superficie di 28 milioni e mezzo di ettari, dei quali, 20 milioni di già coltivati. Restano gli altri 8 milioni e mezzo, dei quali però 4 milioni e mezzo (dò la cifra tonda) sono occupati da strade, acque, greti, o sono cime di monti alti e sterili. Gli altri 4 milioni di ettari vengono più o meno adibiti a pascolo, e, anche di questi, secondo gli studi della Direzione generale di agricoltura, un milione di ettari potrebbe essere coltivato con profitto. Dunque, a parte le difficoltà della impresa e gl’ingenti capitali occorrenti per la espropriazione e il risanamento, a parte la imperfezione dei catasti di molte Provincie, e segnatamente della Sardegna, che rende difficile, e quasi impossibile, l’assegnazione dei lotti, le terre utilmente coltivabili sono poche e affatto disformi ai bisogni della nostra popolazione.

Ma nelle migliori delle ipotesi, supponendo il più largo bonificamento e la conseguente colonizzazione e un perfezionamento di sistemi agricoli, nel senso della maggior intensificazione possibile, e una larghissima produzione industriale, in modo da poter dare all’Italia intera la densità della popolazione della Lombardia (cioè portare a circa 50 milioni gli abitanti della Penisola) si sarebbe ben lontano dall’aver trovato posto al crescente numero della nostra popolazione, la quale, dato l’aumento medio di quest’ultimo ventennio, in un secolo diventerebbe di circa 100 milioni.

Nel secolo venturo adunque, anche nella migliore delle ipotesi, circa 50 milioni d’italiani dovranno necessariamente trovar posto fuori d’Italia!

Le colonie politiche, o signori, sono altro dei modi con cui i popoli civili compiono le loro funzioni migratorie, forse quello che involge maggior numero d’interessi e maggiormente solletica l’amor proprio nazionale. La grande attività e gelosa cura spiegate a’ dì nostri dalle varie Potenze nel difendere gli antichi possedimenti coloniali e nell’acquistarne di nuovi, sono il commento più eloquente di questa mia affermazione. Ma pur troppo per il nostro Paese la speranza di una larga colonizzazione politica fu travolta e rimandata a chi sa quando dai disastri africani, il cui ricordo rattrista ogni cuore italiano.

Queste cifre e considerazioni ci portano a conchiudere, che all’Italia, per ora almeno, non resta che la terza forma di emigrazione; effondere cioè in altri popoli e in territori altrui il sovrabbondare della sua popolazione; forma più umile delle altre due, ma più conforme a’ suoi bisogni immediati. Le funzioni migratorie quindi, come si compiono da noi, rispondono alle necessità attuali politiche, territoriali ed economiche del nostro Paese e non superano la sua potenza riproduttiva e come tali hanno il carattere di fenomeni permanenti, e sono fonti di benessere individuale e collettivo.

Ma quali sono le garanzie che la legge accorda ad una emigrazione siffatta? Come esercita lo Stato il suo dovere di tutela morale e materiale dell’emigrante? Come l’esercitiamo noi, classi dirigenti?

(Continua).

INAUGURAZIONE

DEL

Sanatorio Popolare Umberto I°


Nell’anniversario della morte di Re Umberto si è inaugurato in Prasomaso di Valtellina il Sanatorio popolare, che da Lui prende il nome, destinato ai tubercolosi poveri o di modesti mezzi della città e provincia di Milano. L’opera Pia, riconosciuta sin dal febbraio 1902, ha dovuto in questi nove anni superare enormi difficoltà per raccogliere dalla iniziativa privata i fondi necessari, scegliere la località più adatta, vincere l’ostilità di Comuni limitrofi a Prasomaso, ottenere l’esproprio di terreni, costruire una strada carrozzabile d’accesso e fabbricare a 1200 metri sul livello del mare in località eminentemente salubre il sanatorio popolare. A tutto questo immenso lavoro presiedette sempre con vero spirito di abnegazione il dott. Francesco Gatti, che alla istituzione ha dato la sua attività, tutta la preziosa sua esperienza scientifica ed anche un contributo finanziario.

Il Sanatorio popolare Umberto I° è capace di 130 letti, destinati ad ammalati d’ambo i sessi, che abbiano compiuto il 16° anno di età, che si obblighino a restare al Sanatorio per una durata minima di tre mesi, salvo avviso contrario del medico-direttore e che siano atti a subire una cura sanatoriale di altitudine. Ogni medico della città o provincia di Milano può presentare l’ammalato che giudica atto ad essere curato nel Sanatorio di Prasomaso alla Commissione medica, incaricata di decidere delle ammissioni. La richiesta di ammissione dovrà essere accompagnata da uno speciale formulario medico, riempito dal curante, formulario che verrà rilasciato dall’amministrazione del Sanatorio in Milano, via Morone, 4. La retta giornaliera per gli ammalati poveri è per ora di lire quattro: per gli ammalati di modesti mezzi è di lire sei per coloro che desiderano una camera da soli, di lire cinque se in camera comune con altri ammalati. Dodici letti sono di patronato della Cassa di Risparmio delle provincie lombarde.

L’Istituto è destinato agli ammalati poveri o di modesti mezzi sofferenti di tubercolosi polmonare curabile, in primo stadio; per quelli cioè i quali presentano molte probabilità che il trattamento sanatoriale possa condurli a guarigione od a miglioramenti notevoli e tali da assicurare o restituire loro, se già perduta, la completa capacità al lavoro per un periodo di tempo non breve. Non è, quindi un semplice ospedale, ma un vero istituto di previdenza per l’economia sociale.

Mentre la cura ospitaliera non guarisce un ammalato di tubercolosi polmonare e neppure gli restituisce in modo duraturo la completa capacità al lavoro e mentre [p. 251 modifica] dopo una serie di ricoveri e dimissioni dall’ospedale cessa l’ammalato di essere un valore produttivo utile a sè, alla famiglia, al Paese e finisce col gravare sul passivo sociale, il sanatorio popolare raggiunge un obbiettivo economico col restituire alla società degli individui sani o per lo meno abili ancora al lavoro per un largo periodo di tempo.

La Germania, che possiede un gran numero di sanatori popolari, ci fornisce anche preziosi dati statistici. Per attenerci solo a cifre ufficiali e sicure ricordiamo che l’Ufficio imperiale tedesco di assicurazione operaia obbligatoria ha dimostrato che degli operai curati nei sanatori il 77,2% riacquistavano intera la capacità al lavoro, e che dei trattati del 1903, alla fine del quinto anno dalla cura il 45% conservavano tale capacità.

E si noti che le cure sono da questi istituti limitate alla durata di tre mesi. Dalle stesse statistiche il Bielefeldt ha calcolato che dei 160.000 curati dal 1897 al 1906, quando meno rigorosa era la selezione dei malati, per cui ben 2/3 dei ricoverati nei sanatori erano già entrati nel secondo o nel terzo stadio della malattia, il 34% erano ancora capaci di guadagnarsi la vita dopo 5 anni dalla cura: d’altra parte il Gabhard in seguito alle cure sanatoriali osservò una diminuzione del 22% delle pensioni di invalidità pei tubercolosi.

La Lombardia possiede ora due sanatori per tubercolosi destinati ai poveri e ai meno abbienti: uno nella bassa Brianza, presso Vimercate, l’altro nell’Alta Valtellina: sarà interessante conoscere fra qualche anno dai dati statistici dei due istituti, quale coefficiente rappresenti la cura di altitudine nel nostro clima. E’ da augurarsi che anche da noi, come in Germania, vengano accuratamente raccolti e studiati questi dati statistici, che varranno ad indirizzare sempre più la pubblica beneficenza verso istituzioni che hanno uno scopo così altamente sociale e umanitario.