Il buon cuore - Anno IX, n. 25 - 18 giugno 1910/Educazione ed Istruzione

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Il buon cuore - Anno IX, n. 25 - 18 giugno 1910 Religione

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Un viaggio botanico

sui monti di Kai-Chan

Agosto-Settembre 1909.


Si tratta di cose... cinesi! Alle 10 e qualche minuto siamo sull’ultimo picco, il Kao-ya «dente alto» (1430 m.), dopo il quale restano ancora due chilometri di salita per arrivare sulla punta dell’Eul-fen-tin. Approfittiamo di una ventina di grappoli di uva che ci dà gratis una vite silvestre per mangiare un’altro po’ di pane, e poi in marcia di nuovo finchè... non si piglia a rotta di collo giù per un burrone tanto per arrivare presto a casa.

Chi ci ha vinti non è stato lo spavento di qualche animale feroce e neppure la stanchezza o la fame, è stato semplicemente un grosso nuvolone nero apparso al di là del monte che parve dirci minaccioso: ragazzi! a gambe, se no vi inzuppo ben bene.

Il Briareo sfidatore del diluvio ha vinto un’altra volta. Però io non credo di andare errato di molto segnando sulla carta la sua cima in 1700 m., e come tale Lei può considerarla per i suoi criteri botanici senza nessun inconveniente. Oramai ho l’occhio assai abituato a prendere le distanze, e d’altronde, se non eravamo ancora sulla cuticagna eravamo però già sulle spalle del mostro gigante (1610 m.) quando i primi goccioloni ci consigliarono a fare dietro front.

12 Settembre. — E’ giorno di domenica. I miei uomini si preparano per il ritorno e io approfitto del tempo libero per darle un’idea generale della cultura, industria e vita di questa buona gente di montagna. Per non tediarla guarderò di essere discreto.

Tanto qui come nelle montagne del Kutceng e del Win-zang-fu noi troviamo un’unica classe: la classe agricola. L’agricoltore, poi, a tempo avanzato, sarà artista, industriale, farà un po’ di commercio; ma il fondo resta sempre il podere. Essendo, poi, la popolazione molto scarsa e moltissime le terre, chi abbia voglia di lavorare e non sia dominato dai vizi dell’oppio e del gioco, che pure quassù fanno le loro vittime, è sicuro di non morire di fame e potrà anzi mettere ogni anno da parte qualcosa e formarsi con certezza una posizione agiata. La vita qui costa poco o nulla, e la spesa annua del vestire e del mangiare una persona industriosa può coprirla benissimo coi tanti piccoli incerti che offre la vita di montagna, come la pesca, la raccolta dei funghi, la caccia al cinghiale, al fagiano ecc. Ciò non ostante i poveri sono anche qui, sebbene meno numerosi e meno.... poveri di quelli delle città, perchè anche qui non manca a chi, più che il lavoro e l’economia, piace il comodo mestiere del non far nulla e del mangiar bene.

L’industrie di Kai-chan, di una certa importanza, sono la fabbrica della carta, la raccolta dei funghi, alcuni olii e le noci. Le prime due sono le più importanti e anche le più retributive.

Le cartiere sono ordinariamente lungo il corso dei fiumi e dei torrenti per potersi servire della forza della corrente nel pestare e nel macerare la materia prima, che può essere tanto la canna del bambù come la corteccia dell’albero Keon (morus papyrifera). Il modo di fare la carta in Cina e semplicissimo, e credo che sia lo stesso di quello con cui la fece per la prima volta il suo inventore!

Con un capitale di 100 lire uno si può aprire una cartiera che gli renderà da vivere agiatamente se saprà fare bene i suoi interessi. Io sebbene abbia visitato più d’una di queste officine ed abbia veduto ripetutamente il processo con cui si fa la carta, pure non ho fatto ancora su questa industria uno studio speciale e perciò basti l’avere accennato la cosa, molto più che anche a lei non molto interessa, credo, conoscere vita, morte e miracoli di questa industria montanina. L’altra industria [p. 194 modifica] meno costosa e più generale, e che davvero è una carezza materna della natura a questa povera gente, è la raccolta dei licheni detti: mou-eul (orecchini) a causa della loro conformazione rassomigliante al lobo di un orecchio. Il cinese apprezza poco o nulla i funghi che mangiamo noi, e sebbene i porcini, gli ovoli, le ditole e sopratutto i galletti, facciano parte talvolta del suo pasto, pure credo che non si trovi un cinese al mondo che spenderebbe un centesimo per provvedersene un piatto. Invece egli è pazzo per i mou-eul, li strappa alla natura con arte, li invoca come gli ebrei del deserto la manna, li raccoglie con avidità e li porta al mercato sulle spalle come un fardello prezioso.

Questa industria è comune a tutti i monti del Hupè forse anche delle altre Provincie1 e frutta annualmente una somma ingente e favolosa.

Un nostro cristiano ne ha raccolti questo anno per 450 tiao equivalenti in nostra moneta a 714 franchi! Un vero patrimonio!!

I mou-eul non nascono ovunque spontaneamente come gli altri tallopiti e per averli bisogna.... lavorare: però il lavoro è facile e la fatica corta; ed anche qui la maggior parte tocca a madre natura. L’uomo non deve far altro che afferrare un’accetta e recarsi in quella parte di bosco dove vuol preparare un vivaio. Giuntovi atterri senza pietà tutte le piante grandi e piccole che vi si trovano, bruci o porti via ogni cosa risparmiando però i fusti dei quercioli dai 5 ai 10 anni di età. Questi, invece, li ripulisca ben bene, guardando di non trasportare la corteccia che deve essere appunto il substratum dei bramati moueul. Taglierà, poi, detti fusti in pezzi uguali della lunghezza di circa due metri ognuno, e quindi alzata nello spazio ripulito una guida orizzontale, pure di quercia, ad essa appoggerà una estremità dei detti pali posando l’altra a terra in modo da dare ai medesimi una posizione più che sia possibile piana e orizzontale. La distanza di un bastone dall’altro può essere di un decimetro o giù di lì.

Fatto ciò e accomodate tante palizzate quanto è lo spazio libero e il numero dei fusti, se ne torni tranquillo a casa, e lasci che la pioggia faccia decomporre la corteccia delle piante. Solo allora, dopo le prime piogge di primavera, vedrà queste ricoprirsi di piccoli numerosi licheni simili a conchiglie nerastre o anche bianche, che sono appunto i sospirati mou eul. Li raccolga e li secchi.

I mou-eul bianchi sono molto più rari dei neri, e mentre questi costano, è almeno il prezzo di quest’anno, 60 centesimi la libbra, quelli valgono 35 franchi e qualcosa! Ciò spiega perchè una ciotola di mou-eul bianchi apparisca soltanto nei pranzi semi sibaritici dei grandi e nelle grandi occasioni, mentre quei neri non sono rari nei pranzi ordinari tra amici ed amici.

La racolta dei mou eul dura dalla primavera all’autunno, e perchè si sviluppino in grande abbondanza si richiede che le piogge non siano nè troppo lunghe nè di troppo corta durata.

Una pioggia blanda di 3 o 4 giorni seguita da bel tempo è sufficiente: invece una pioggia che duri una ventina di giorni dilava la corteccia e impedisce la germinazione del prezioso tallofite.

I mou-eul trovano un buono spaccio sul mercato di Nan-tciang da dove sono esportati in tutta la Cina, arrivando a costare nelle provincie lontane prezzi favolosi.

L’agricoltura di questi monti è in sostanza quella stessa del piano, le stesse semine e lo stesso modo di seminare.

Da Siang-Jang a qui è come un solo podere dove ha la preferenza il riso in tutti i luoghi paludosi e irrigabili e altrove il panico, il cotone, il sesamo, il granturco, le leguminose, la saggina da vino, da canapa ecc. La pastorizia colle sue molteplici risorse qui è ignota affatto. A questi monti che pure potrebbero essere un tesoro, e lo sarebbero certamente in mano dell’amico Sprenger, qui si chiede poco, assolutamente poco, neppure quello che si domanda loro in altri luoghi non molto lontani. Così per esempio, qui l’industria oleifera del t’ong-chou (elaecocca) è poco o niente. È pure trascurata del tutto l’industria della vernice sebbene l’albero vi cresca a meraviglia. Ai pochi e abbandonati castagni sparsi senza ordine in mezzo a queste macchie non si chiede altro che un pizzicotto di frutta per offrirle alla luna nella festa natalizia di questa che cade verso la fine di Settembre. Ecco tutto. Il solo frutto che si apprezza e che liberato dall’involucro osseo venga portato sul mercato di Nan-tciang è la noce.

Cagione di questa assenza di speculazione per parte dell’uomo e del trionfo della natura in tutto ciò che essa ha di più orrido e selvaggio, è in gran parte la lontananza dai centri, la difficoltà delle vie, la necessità di pensare al sostanziale, la mancanza di grossi capitali e finalmente l’inerzia e la deficienza di iniziativa per parte di questi popoli. Così vissero i loro antenati: così vivono essi, e cosi vivranno i loro nipoti Povera gente del resto, contro cui congiurano continuamente, ora le piene, ora le troppe piogge, ora la siccità, e quando sono per raccogliere le messi tanto desiderate escono dalle loro tane le truppe dei cinghiali, dei camosci, dei lupi, dei daini e fanno corte bandita e si ingrassano dei sudori del povero contadino! Qui le divisioni delle terre non si fanno a ingegneri come nel piano non essendo possibile una misurazione esatta, non si fanno neppure ad appezzamenti ad occhio come in altri luoghi montuosi del Hupè e neppure a base del seme necessario per ogni campo, ma al modo biblico, prendendo per unità di misura uno spazio di terra che può essere arato da un paio di buoi in una giornata. Così se chiederete ad uno quanta terra coltiva vi risponderà 4, 5, 10 paia di buoi! Curiosa particolarità che ci riallaccia ai bei tempi di quando nei campi di Moab guidavano i grossi giovenchi Noemi e Ruth!!

13 Settembre. — Ed eccoci al ritorno. Ieri invitai 4 uomini per portare i bagagli, le piante e la lettiga di montagna per me, ma al momento di partire sento che i due letticari sono due facchini ordinari. Con simile [p. 195 modifica] gente il cavalcare riesce più comodo, e perciò li rimando così restando 6 persone ed un cavallo. Il trovare in poco tempo due abili portatori di lettiga non è difficile, e si vuole ad ogni costo andarli a chiamare, ma io mi oppongo anche a cagione della ristrettezza pecuniaria in cui mi trovo. La paga delle guide, dei coolies, le spese del vitto, la buona mano al custode della casa, hanno talmente assottigliato il piccolo peculio portato da Siang-Jang che dovremo economizzare assai per non restare al verde prima di arrivare a casa. Alle 7 abbandoniamo Kai-chan. È nebbia e pioviggina, ma i miei uomini sono stanchi di questi monti e partirebbero anche con la pioggia dirotta. Anch’io lascio Kai-chan senza rimpianto.

Nel borgo di Tchangpin incontro il mandarino incaricato della pubblica sicurezza, mio vecchio amico, e ci facciamo un mondo di feste.

Mi dice che è là da mezzo mese, che ha già sofferto la fame più volte, e che solo da due o tre giorni ha potuto comprare tre misure di granturco. Povero amico! Che Budda e Maometto — egli è turco di origine — ti liberino almeno dalle zanne dei lupi e dei leopardi!

Attraversiamo il Siang-eul-chan e poi l’On-pan-chan e poi anche il Keon-cul-lin versante degli scimiotti, senza molta fatica. Il desiderio di uscire dalla tomba di questi monti e rivedere il bel cielo libero di Siang-Jang raddoppia la lena e le forze. La sera ci fermiamo a 20 km. da Nan-tciang nel luogo stesso dove facemmo colazione nell’andata a Kai-chan. Abbiamo fatto 100 ly=66 km. in 12 ore, varcando tre alti monti e passando una diecina di volte il letto del fiume. E dire che i miei uomini portano in media sulle spalle non meno di 100 libbre ciascuno2.

14 Settembre. — Ci moviamo appena fatto giorno, e io sprono il cavallo poichè voglio arrivare presto a Nan-tchang per dire la Messa.

I miei uomini mi raggiungono verso le 9. Riposiamo mezza giornata che la febbre della nostalgia ci fa parere un mese, e il giorno dopo, sebbene piova a intervalli, ci rimettiamo in cammino per l’ultima volta, e dopo una giornata e mezza di via rivalichiamo la soglia di casa nostra!

Siamo stati fuori 21 giorni: abbiamo fatto varie centinaia di chilometri di viaggio! Siamo saliti a 1700 m. di altezza, abbiamo attraversato o toccate 3 sottoprefetture. E dopo tutto non abbiamo avuto altro che due sole giornate senza pioggia!

Siang- Iang, 30 Settembre 1909.

Il famoso liquore sfuggito di mano

ai liquidatori della Gran Certosa


Dopo versati fiumi d’inchiostro sugli scandali della liquidazione della Certosa di Grenoble, chiunque potrà essersi fatto un concetto esatto del punto principale cui miravano le cupide brame del Governo, dei liquidatori e dei concorrenti all’asta della Gran Certosa. Il qual punto non era già lo stabile, d’un valore artistico e materiale, poco più poco meno, come altre proprietà congregazioniste; bensì il liquore preparato dalla distilleria dei monaci, la chartreuse.

Per sè, far l’occhio di triglia ad un liquore che tra i liquori gode di una riputazione sovrana, è naturale; e in ogni caso certe tenerezze non sarebbero solo di questi ultimi anni. Basti dire che — secondo riferisce il Paris Journal — molto prima che scoppiasse l’uragano contro le Congregazioni francesi, l’agente d’un gran giornale cattolico offriva al Priore della Certosa di Grenoble parecchi milioni allo scopo di ottenere per un dato periodo di tempo, la marca di fabbrica del famoso liquore; fermo che il segreto resterebbe sempre ai certosini, e che, due di essi, laicizzati, sarebbero rimasti alla testa della nuova azienda.

Comunque sia, il governo francese ebbe esso pure il suo debole per la chartreuse, e se ne slanciò alla conquista in una forma — purtroppo — meno cavalleresca di quello che si poteva aspettare dalla nazione più cavalleresca del mondo. Ma nella foga tutta francese con cui si diede l’assalto ai beni dei certosini di Grenoble, si dimenticò, o si credette inutile perchè ritenuto implicito, di tener d’occhio la cosa principale: nelle mani del governo restarono i beni immobili, restò anche la marca di fabbrica, ma non la ricetta, il segreto di distillare e preparare il famoso liquore, che invece esulò alla chetichella, inosservato coi monaci. Fu in seguito a questa sgradita sorpresa che non si volle esagerare, far il difficile sulla cessione della marca di fabbrica della chartreuse; ci si accontentava dapprima dell’offerta di cinque milioni, poi di uno e mezzo — bontà loro!

Ma noi qui non vogliamo far recriminazioni, o prediche, neppure riderci della figura goffa di quel povero governo francese e cointeressati nell’affare della chartreuse; piuttosto daremo del famoso liquore, a chi lo conoscesse solo perchè costa quattordici lire la bottiglia, alcuni particolari che non crediamo di infima importanza.

E prima di tutto, che esso liquore ha una rispettabile età, anche se si vuole computarla dal secolo XVI, quando i certosini di Parigi n’ebbero la ricetta per caso dalla generosità d’un maresciallo di Francia, nei giardini del Lussemburgo. Poi, che il liquore in discorso si fabbricava alcuni chilometri più al basso della Gran Certosa che, — per chi volesse orientarsi meglio — sorgeva e sorge a nord-ovest di Grenoble.

Soggiungiamo che a Parigi una Casa di commercio, alle dipendenze e per conto dei certosini di Grenoble, teneva in deposito e metteva in commercio la chartreuse, [p. 196 modifica] non mandando tampoco un soldo del ricavo ai legittimi proprietari a Grenoble. Il procuratore della casa dei certosini scriveva a Parigi quasi tutti i giorni: Spedite mille franchi al tale.... o diecimila alla tal chiesa.... o alla tal scuola.... o al tale ospedale.... o al tal municipio.... E così sfumava il ricavo di due milioni all’anno del famoso liquore; come del resto allo stesso modo sfumavano le altre entrate dei certosini; mentre questi, pur milionarii, mangiavano a Grenoble l’istessa zuppa preparata da un vecchio gendarme divenuto il capo-cuoco della Certosa, e sempre cibi di magro, con cucchiaio e scodella di legno e bicchiere di stagno.

A chi lo desiderasse — di quei certosini milionarii, ma volontariamente fatti poveri e penitenti — potremmo offrire tutto l’orario della loro giornata, che è il seguente: Ore 6 levata, e fino alle 10 esercizii spirituali, cioè: ufficiatura, messa letta, visita al SS. Sacramento, meditazione, messa grande, lettura spirituale. Dalle ore 10 alle 15 ufficiatura di Nona, pranzo, lavoro in giardino, segare, tornire, leggere, scrivere libri spirituali. Alle 15 vespero e altri esercizii spirituali fino alle ore 16,30. Si torna in cella, alle 18 cena, poi compieta e riposo a letto alle 19. Alla una di notte levata per l’ufficiatura di mattutino fino alle 4; poi si torna a letto fino alle 6 per riprendere la giornata. Questa interruzione del sonno però è sopra ogni altra penitenza la più difficile, è una tortura a cui pochissimi riescono ad avvezzarsi cogli anni. Una volta per settimana passeggio in comune nella foresta in silenzio; alla domenica pranzo in comune.

Come si vede la vita certosina, deve essere ben dura, nessuno la invidierà, anche dei più teneri del loro famoso liquore....

a. l. m.

PRELUDIO3

Soletto siedo e del divin poeta,
che Fiorenza fregiò d’eterno onore,
sfogliò le carte. Una serena e queta
malinconia lenta mi scende in core,


mentre vola d’intorno irrequïeta
da l’ebano vocal nota d’amore
e s’eleva pel ciel, quasi sua meta
cercando in quel purissimo fulgore.


Ridon de l’arte a la mia giovin mente
i sogni e ancor ne l’ideale mio
e ne l’amor di una fanciulla spero.
Vaga stella, a me illumina il sentiero
mia madre e mi susurra dolcemente:
«I tuoi disegni benedica Iddio!»

Napoli, 17 gennaio 1886.

Note

  1. I mou-eul Hupè sono i più ricercati e comprati a più caro prezzo di quelli delle altre regioni.
  2. L’abitudine di portare dei pesi rende questi montanari veri ercoli alla fatica. Si aggiunga che quassù vi è l’uso di assoldare i coolies a un tanto la libbra, e costoro per guadagnare qualcosa di più arrivano talvolta a portare dei pesi incredibili di 150 e perfino 200 libbre! Il prezzo di unità per ogni libbra è determinato dal trasporto dei mou-eul, sempre i benedetti mou-eul! e varia a seconda del valore che questi hanno sul mercato di Nan-tciang. Quest’anno il prezzo è di 15 sopéche la libbra, equivalenti in nostra moneta a meno di 5 centesimi, cioè centesimi due e mezzo!
  3. Dai Canti dell’adolescenza di prossima pubblicazione, seconda edizione.