Novella CXC

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CLXXXIX CXCI

Gian Sega da Ravenna con nuova astuzia ha a fare con una giovene giudea, e tutti li Giudei che sono con lei fa entrare in uno necessario.

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Assai fu di minore fatica a Gian Sega da Ravenna a venire ad effetto d’un suo disordinato appetito di lussuria verso una giovene giudea. E per farmi un poco a drieto a questa storia, questo Gian Sega, al tempo di messer Bernardino da Polenta, stando in Ravenna, e seguendo maniera d’uomo di corte, ed essendo pure d’una diversa condizione, avendo già morti uomini in diverse maniere, avvenne per caso che, come spesso si mutano gli animi de’ signori e le subite risa si convertono in pianto, cosí subito questo signore fece pigliare Gian Sega, e in mano del Podestà essendo al martorio, confessò avere morti uomeni e altre cose assai; di che gli fu dato il comandamento dell’anima, per essergli tagliato il capo. E la mattina che ciò si dovea fare, andando la famiglia alla prigione su la mezza terza per legarlo, costui, con la forza delle braccia e co’ morsi e calci, contro la famiglia stette per ispazio d’un’ora anzi che fosse legato; alla per fine, essendo con gran fatica tratto fuori, niuno se gli accostava presso che, co’ denti e con gittarsi in terra, non desse assai che fare a ciascuno che piú presso gli stava; tanto che, essendo su la nona, non avendolo potuto conducere a mezza via, mandorono per un asino e a traverso ve lo legorono su, non sanza grandissima fatica... che andava a fare la... però che poi che fu legato... tanto si divincolò... dall’un de’ lati, che...
lamentandosi di questo Gian Sega, dice:
- Signor mio, giammai non faceste tanta degna cosa quanto a levare di terra quel mal uomo che mandaste a dicapitare; però che tra l’altre cose e’ mi diede fuori della porta parecchie bastonate.
Disse il signore:
- Sozzo rubaldo, sí che tu mi lodi, appropiandoti ch’io faccia una tua vendetta.
E subito chiama un suo segretario, e dice:
- Monta sul corsiere, e corri al luogo della justizia, e di’ al cavaliero, se Giovan Sega non ha morto, che subito lo rimeni a me.
Il famiglio, ubbidendo al signore, corse, e trovò Gian Sega col collo sul ceppo e con fanti addosso, che per forza il teneano, e ’l giustiziere con la mannaia e col mazzo apparecchiarsi: dicendo:
- Rimenate costui al signore sano e salvo -; e cosí subito fu fatto.
E Gian Sega, quasi mezzo morto e per lo combattersi, e per lo fine della morte dove elli era, e per la soperchia allegrezza della boce, che disse rimenatelo sano e salvo , mescolata col dolore, giunse al signore come uno uomo aombrato. A cui il signore disse:
- Gian Sega, io mi sono ricordato che al tal tempo, uscendo io fuori di questa terra e tu eri con meco, essendo assalito da gente d’arme, tu entrasti tra loro e me e tanto gli tenesti a bada, combattendo con loro, che io scampai, e tu fosti preso.
Venne a memoria a messer Bernardino, dopo il detto di colui che lodava la justizia che facea, questo atto che Gian Sega avea fatto per la sua salute, e su questo si fondò, parendoli virtú camparlo per questo, e ’l contrario per lo detto di quell’uomo.
Gian Sega, cominciando a riavere gli spiriti, li quali erano assai smarriti, disse:
- Signore...

e domandato licenza a messer Benardino, se n’andò a Rimine a messer Galeotto Malatesti, col quale stando alquanti mesi, sopraggiugnendo l’anno del giubileo 1350, pensò d’andare in Porto Cesenatico e là tenere uno albergo: e cosí fu là. Dove, essendo in questa maniera avviato, avvenne per caso che, tra certi judei che stavano in Ravenna e certi altri judei che stavano ad Arimino, si contrasse uno matrimonio, che uno di quelli che stavano a Ravenna tolse per moglie una bella giovene judea di quelli che stavano a Rimine. Ed essendo andati circa sei di quelli di Ravenna a Rimine con lo sposo per congiugnere il matrimonio, come hanno per usanza, e poi menando la sposa con la cameriera a Ravenna, arrivorono una sera a Porto Cesenatico all’albergo di Gian Sega. Il quale, avendo ricevuto li giudei e veggendo la giovene judea bellissima, non ricordandosi della passata ventura ma ritornando alle sue scellerate opere, pensò in che forma potesse avere a fare con questa judea. E con una nuova malizia andò alla riva, là dove ordinò con certi marinai che la sera di notte dovessono giugnere alle porte dell’albergo, facendo busso e tumulto e con arme e con bastoni, sí come volessono e rubare e predare e uccidere qualunche dentro v’era; e questo facessono per tre volte, mettendo poco dall’una volta all’altra, e continuo si crescesse l’assalto, gittando maggiore paura a quelli dentro.
Come Gian Sega ordinò co’ marinari, cosí fu fatto. E vegnendo la notte, essendo le porte dell’albergo tutte serrate, li marinai, come gente scherana o sbandita, giungono, percotendo le porte, dicendo:
- Aprite cià.
Come li judei sentono questo, ebbono grandissima paura, pregando l’oste che gli debba scampare. E l’oste dice:
- State fermi, tanto che io vada a vedere dalla finestra chi e’ sono.
E cosí andò l’oste e tornò, e disse:
- Questi sono sbanditi, de’ quali io ho maggiore paura fra la notte che io non ho ora; però statevi pianamente e veggiamo se altro segue.
Li giudei stavano ristretti e cheti come olio. Stando per alquanto spazio, gli marinai giungono la seconda volta e con maggiore furore che la prima. Li giudei dicono all’oste:
- Oimè! oste, scampaci la vita.
Dice l’oste:
- Venite con meco -; e menolli in un’altra camera e stalla molto buia e disse: - Statevi qui.
Li giudei stavano, come l’oste dicea. E l’oste va a una finestra e dice, sí che li judei udíano:
- Andatevi con Dio, che io non ci ho istasera alcuno forestiero.
Ed elli rispondeano:
- Aspettera’ ti un poco, ché noi ne vorremo saper altro; - e partironsi.
E poco stante tornorono cum fustibus et cum lanternis , facendo sembiante di voler mettere fuoco nell’albergo. Li giudei, sentendo il romore e udendo dire del fuoco, e veggendo per li spiragli delle porte la fiamma, dicono all’oste:
- Noi siamo morti, se non ci metti in qualche luogo ben occulto.
Era in uno canto, là dov’egli erano, uno necessario presso che pieno, con due assi coperto, dove l’oste gli condusse, dicendo:
- Entrate qui, che io non credo che vi truovino per fretta.
Costoro, volontorosi di fuggire la morte, in calca v’entrorono dentro. E in questo giunse la cameriera, che avea sentito tutto, raccomandando e lei e ancora la sposa judea. A cui l’oste disse:
- Entrate anche qui voi: della giovane non abbiate paura; io dirò che sia mia figliuola, o metterolla sotto il letto.
La cameriera subito entrò dove gli altri; e ivi chi si trovò nella malta insino a gola e chi insino al mento, e coperchiati dall’assi vi stettono quasi tutta la notte; però che Gian Sega spesso facea romore, come se fossono all’uscio per volere entrar dentro. E avendo serrato col chiavistello l’uscio della camera dove costoro erano, se n’andò dove la giudea era; a cui ella si gittò al collo, morendo di paura; e Gian Sega la condusse verso il letto e disse non avesse paura ella, ma dicesse che fosse sua figliuola, e dormisse con lui in quel letto. La giovene tremante di paura cosí fece; e Gian Sega in quello subito si coricò, usufruttando la fanciulla e abbracciando la legge giudaica quanto li piacque; e alcun’ora si levava, andando verso la porta, facendo romore come i malandrini vi fossono, acciò che i giudei stessono ben ristretti nel cessame. E cosí continuò tutta notte, ora al letto con la giudea, ora alla porta con lo falso romore; tanto che, apparendo il giorno, egli acconciò il letto con la judea insieme, non parendo mai che vi si fosse giaciuto; e ammaestrolla entrasse dietro al letto, dicendo che tutta notte per gran timore vi fosse stata; ed ella cosí fece, e serrossi dentro nella camera.
Avendo Gian Sega cosí ordinato i fatti suoi e della sposa, andò verso la fecciosa tomba per trarre il popolo judaico della conserva, dicendo:
- Uscite fuori, che Dio ci ha fatto gran grazia, però ch’egli è giorno e ormai siamo sicuri.
Il primo che uscí fu la cameriera, la quale parea che uscisse d’uno brodetto. Come i judei vidono fare la via alla cameriera, subito l’uno dopo l’altro tutti e sei, cosí infardati come si dee credere, con gran fatica se n’uscirono fuori; e ’l marito della sposa subito domanda di lei; a cui Gian Sega disse:
- Vorrei che cosí fosse stati voi, però che come ella sia stata con molto spavento, come fanciulla ella si serrò nella camera e là s’è stata tutta notte, e voi sete stati in forma che molto me n’incresce; ma io non credea che questa fossa fosse cosí piena: ma ogni cosa sia per lo migliore, ché per lo migliore si fece.
I giudei risposono che di ciò erano certi, ma che l’oste venisse al rimedio, come lavare si potesseno. L’oste disse:
- Lasciate fare a me, io farò scaldare tant’acqua, che l’uno dopo l’altro vi laverete in questa casa di dietro, e poi enterrete nel letto, e io m’anderò alla marina a lavare i vostri panni; e quando siano asciutti potrete andare al vostro viaggio.
A’ giudei parve essere a buon porto, e cosí presono per partito, aspettando parecchi dí, tanto ch’e’ panni fossono e lavati e rasciutti. E questo non nocque punto a Gian Sega, però che ebbono a pagare molti scotti, e forse qualche altra volta si trastullò con la judea.
E dopo alquanti dí co’ panni non troppo ben lavati si tornorono a Ravenna.
Che diremo adunque degli avvenimenti della fortuna? ché in poco tempo si trovò Gian Sega nell’ultimo della morte e scampato da quella, solo per combattersi dalla famiglia; ché, se fosse ito senza contesa, serebbe stato morto parecchie ore innanzi. E però dice: «Passa un’ora e passine mille». Dappoi, diventato albergatore, contentò l’animo suo della judea, forse piú che ’l marito, il quale lui con l’altra compagnia judaica mise in una puzzolente conserva di cristiani; ché molto averebbono aúto meno a male d’essere affogati in isterco di judei. Cosí avvenisse a tutti gli altri che stanno pur pertinaci contro alla fede di Cristo, ché, poiché non si vogliono rivolgere dalla loro incredulità, fossono fatti rivolgere in quel vituperoso fastidio che Gian Sega gli fece attuffare con obbrobio e con vergogna di loro.