Il Saggiatore (Favaro)/40
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"Sed videamus nunc quam verum sit experimentum ... quæ constanter adeo pernegavit Galilæus."
Entra ora il Sarsi nel copiosissimo apparato d’esperienze per confermare il suo detto e riprovare il nostro: le quali, perché furon fatte alla presenza di V. S. Illustrissima, io me ne rimetto a lei, come quello che più tosto devo aspettarne il suo giudicio che interporvi il mio. Però, se le piacerà, potrà rilegger quel che resta sino alla fine della proposizione; dov’io le anderò solamente toccando alcuni particolari sopra varie cosette così alla spezzata.
E prima, questo che il Sarsi cerca d’attribuirmi nel primo ingresso delle sue esperienze, è falsissimo, cioè ch’io abbia detto che l’acqua contenuta nel catino resti, non men che l’aria, immobile al movimento in giro di esso vaso. Non però mi meraviglio che l’abbia scritto, perché ad uno che continuamente va riferendo in sensi contrari le cose scritte e stampate da altri, si può bene ammettere ch’egli alteri quelle ch’ei dice d’aver solamente sentite dire; ma non mi par già che resti del tutto dentro a’ termini della buona creanza il pubblicar colle stampe ciò ch’altri sente dire del prossimo, e tanto più quando, o per non l’avere inteso bene o pur di propria elezzione, ei si rapporta molto diverso da quello che fu detto, come di presente accade di questo. Tocca a me, signor Sarsi, e non a voi o ad altri, lo stampar le cose mie e farle pubbliche al mondo: e perché, quando (come pur talora accade) alcuno nel corso del ragionar dicesse qualche vanità, deve esser chi subito la registri e stampi, privandolo del beneficio del tempo e del potervi pensar sopra meglio, e da per se stesso emendare il suo errore e mutare opinione, ed in somma fare a suo talento del suo cervello e della sua penna? Quello che può aver sentito dire il Sarsi, ma, per quanto veggo, non ben capito, è certa esperienza ch’io mostrai ad alcuni letterati costì in Roma, e forse fu in camera di V. S. Illustrissima stessa, parte in dichiarazione e parte in confutazione d’un terzo moto attribuito dal Copernico alla Terra. Pareva a molti cosa molto improbabile, e che perturbasse tutto il sistema Copernicano, il terzo moto annuo ch’egli assegna al globo terrestre intorno al proprio centro, al contrario di tutti gli altri movimenti celesti, i quali col figurarsi fatti tutti, tanto quelli delli eccentrici quanto quelli delli epicicli, ed il diurno e l’annuo d’essa Terra, nell’orbe magno da ponente verso levante, questo solo dovesse nell’istessa Terra esser fatto da oriente verso occidente, contro agli altri due propri e contro agli altri tutti di tutti i pianeti. Io solevo levar questa difficoltà col mostrare che tal accidente non solo non era improbabile, ma conforme alla natura e quasi necessario; e che qualsivoglia corpo collocato e sostenuto liberamente in un mezo tenue e liquido, se sarà portato per la circonferenza di un gran cerchio, acquisterà spontaneamente una conversione in se medesimo, al contrario dell’altro gran movimento: il qual effetto si vedeva pigliando noi in mano un vaso pien di acqua e mettendo in esso una palla notante; perché, stendendo noi il braccio e girando sopra i nostri piedi, subito veggiamo la detta palla girare in se stessa al contrario e finir la sua conversione nell’istesso tempo che noi finiamo la nostra: onde cessar doveva la meraviglia, anzi meravigliarsi quando altrimenti accadesse, se essendo la Terra un corpo pensile e sospeso in un mezo liquido e sottile, ed in esso portata per la circonferenza d’un gran cerchio nello spazio d’un anno, ella non avesse di sua natura e liberamente acquistata una conversione parimente annua in se medesima al contrario dell’altra. E tanto dicevo per rimuover l’improbabilità attribuita al sistema del Copernico: al che soggiungevo poi, che chi meglio considerava, conosceva che falsamente veniva da esso Copernico attribuito un terzo moto alla Terra, il quale non è altramente un muoversi, ma un non si muovere ed una quiete; perch’è ben vero che a quello che tiene il vaso apparisce muoversi, e rispetto a sé e rispetto al vaso, e girare in se stessa la palla posta in acqua; ma la medesima palla paragonata colle mura della stanza e colle cose esterne, non gira altrimenti né muta inclinazione, ma qualunque suo punto che da principio riguardava verso un termine esterno segnato nel muro o in altro luogo più lontano, sempre riguarda verso lo stesso. E questo è quanto da me fu detto: cosa, come V. S. Illustrissima vede, molto diversa dalla riferita dal Sarsi. Questa esperienza, e forse qualch’altra, poté dare occasione a chi più volte si trovò presente a nostri discorsi di dir di me quello che in questo luogo riferisce il Sarsi, cioè che per certo mio natural talento solevo alcuna volta con cose minime, facili e patenti, esplicarne altre assai difficili e recondite; la qual lode il Sarsi non mi nega in tutto, ma, come si vede, in parte m’ammette: la qual concessione io devo riconoscere dalla sua cortesia più che da una interna e verace concessione, perché, per quanto io posso comprendere, egli non è di quelli che così di leggiero si lascino persuadere dalle mie facilità, poi ch’egli stesso, reputando che la scrittura del signor Mario sia mia cosa, dice nel fine del precedente essame, quella esser stata scritta con parole molto oscure, e tali ch’egli non ha potuto indovinare il senso.
Già, come ho detto, quanto all’esperienze me ne rimetto a V. S. Illustrissima, che le ha vedute, e solo, incontro a tutte, ne replicherò una scritta di già dal signor Mario nella sua lettera, dopo che averò fatto un poco di considerazione sopra certa ragione che il Sarsi accoppia coll’esperienze: la qual ragione io veramente pagherei gran cosa che fusse stata taciuta, per reputazion sua e del suo Maestro ancora, quando vero fusse ch’egli fusse discepolo di chi egli si fa. Oimè, signor Sarsi, e quali essorbitanze scrivete voi? Se non v’è qualche grand’error di stampa, le vostre parole son queste: "Hinc videas, quotiescunque movens moto maius fuerit, tunc longe faciliorem motum futurum: imposito enim vasi operculo AB, tunc superficies interior catini et operculi simul, ad cuius motum movendus est aër, maior est aëre proxime movendo; est enim superficies illa continens, aër vero contentus". Or rispondetemi in grazia, signor Sarsi: questa superficie del catino e del suo coperchio con chi la paragonate voi, colla superficie dell’aria contenuta o pur coll’istessa aria, cioè col corpo aereo? Se colla superficie, è falso che quella sia maggior di questa; anzi pur sono elleno egualissime, ché così v’insegnerà l’assioma euclidiano, cioè che "Quæ mutuo congruunt, sunt æqualia". Ma se voi intendete di paragonar la superficie contenente coll’istessa aria, come veramente suonan le vostre parole, fate due errori troppo smisurati: prima, col paragonare insieme due quantità di diversi generi, e però incomparabili, ché così vuole una diffinizion d’Euclide: "Ratio est duarum magnitudinum eiusdem generis"; e non sapete voi che chi dice "Questa superficie è maggior di quel corpo" erra non men di quel che dicesse "La settimana è maggior d’una torre" o "L’oro è più grave della nota cefautte"? L’altro errore è, che quando mai si potesse far paragone tra una superficie ed un solido, il negozio sarebbe tutto all’opposito di quello che scrivete voi, perché non la superficie sarebbe maggior del solido, ma il solido più di cento milioni di volte maggior di lei. Signor Sarsi, non vi lasciate persuadere simili chimere, né anco la general proposizione che ’l contenente sia maggior del contenuto, quando bene ambedue si prendessero di quantità comparabili fra di loro; altrimenti bisognerà che voi crediate che, d’una balla di lana, il guscio o invoglio sia maggior della lana che vi è dentro, perché questa è contenuta e quello è il contenente; e perché sono della medesima materia, bisognerà anco che il sacco pesi più, essendo maggiore. Io fortemente dubito che voi abbiate preso con qualche equivocazione un pronunciato che è verissimo quando vien preso al suo diritto senso, il qual è che il contenente è maggior del contenuto, tutta volta che per contenente si prenda il contenente col contenuto insieme: e così un quadrato descritto intorno a un cerchio è maggior di esso cerchio, pigliando tutto il quadrato; ma se voi vorrete prender solo quello che avanza del quadrato, detrattone il cerchio, questo non è altrimenti maggiore, ma minore assai d’esso cerchio, ancor ch’ei lo circondi e racchiuda. Aimè, e non m’accorgo del fuggir dell’ore? e vo logorando il mio tempo intorno a queste puerizie? Orsù, contro a tutte l’esperienze del Sarsi potrà V. S. Illustrissima fare accommodare il catino convertibile sopra il suo asse; e per certificarsi quello che segua dell’aria contenutavi dentro, mentre quello velocemente va in giro, pigli due candelette accese, ed una n’attacchi dentro all’istesso vaso, un dito o due lontana dalla superficie, e l’altra ritenga in mano pur dentro al vaso, in simil lontananza dalla medesima superficie; faccia poi con velocità girar il vaso: ché se in alcun tempo l’aria anderà parimente con quello in volta, senza alcun dubbio, movendosi il vaso l’aria contenuta e la candeletta attaccata, tutto colla medesima velocità, la fiammella d’essa candela non si piegherà punto, ma resterà come se il tutto fusse fermo (ché così a punto avviene quando un corre con una lanterna, entrovi racchiuso un lume acceso, il quale non si spegne, né pur si piega, avvenga che l’aria ambiente va con la medesima prestezza; il qual effetto anco più apertamente si vede nella nave che velocissimamente camini, nella quale i lumi posti sotto coverta non fanno movimento alcuno, ma restano nel medesimo stato che quando il navilio sta fermo); ma l’altra candeletta ferma darà segno della circolazion dell’aria, che ferendo in lei la farà piegare: ma se l’evento sarà al contrario, cioè se l’aria non seguirà il moto del vaso, la candela ferma manterrà la sua fiammella diritta e quieta, e l’altra, portata dall’impeto del vaso, urtando nell’aria quieta si piegherà. Ora, nell’esperienze vedute da me è accaduto sempre che la fiammella ferma è restata accesa e diritta, ma l’altra, attaccata al vaso, si è sempre grandissimamente piegata e molte volte spenta: ed il medesimo di sicuro vederà anco V. S. Illustrissima ed ogn’altro che voglia farne prova. Giudichi ora quello che si deve dire che faccia l’aria.
Dall’esperienze del Sarsi il più che se ne possa cavare è, ch’una sottilissima falda d’aria, alla grossezza di un quarto di dito, contigua alla concavità del vaso, venga portata in giro; e questa basta a mostrar tutti gli effetti scritti da lui, e di questo ne può esser bastante cagione l’asprezza della superficie, o qualche poco di cavità o prominenza più in un luogo ch’in un altro. Ma finalmente, quando il concavo della Luna portasse seco un dito di profondità dell’essalazioni contenute, che ne vuol fare il Sarsi? E non creda che se il catino ne porta, verbigrazia, un mezo dito, che un vaso maggiore ne abbia a portar più; perché io credo più tosto ch’ei ne porterebbe manco: e così anco non credo che la somma velocità colla quale detto concavo lunare passa tutto il cerchio, diciamo in 24 ore, abbia a far più assai; anzi io mi voglio prendere ardir di dire, che mi par quasi vedere per nebbia ch’ei non farebbe più, ma più tosto manco, di quello che si faccia un catino che pure in ore 24 desse una rivoluzione sola. Ma pongasi pure e concedasi al Sarsi che ’l concavo lunare rapisca quanto si è detto dell’essalazion contenuta: che sarà poi? e che ne seguirà in disfavor della principal causa che tratta il signor Mario? sarà forse vero che per questo moto si abbia ad accender la materia della cometa? o pur sarà vero ch’ella non si accenderà né movendosi né non si movendo? Così cred’io: perché se il tutto sta fermo, non s’ecciterà l’incendio, per lo quale Aristotile ricerca il moto; ma se il tutto si muove, non vi sarà l’attrizione e lo stropicciamento, senza il quale non si desta il calore, non che l’incendio. Or ecco, e dal Sarsi e da me, fatto un gran dispendio di parole in cercar se la solida concavità dell’orbe lunare, che non è al mondo, movendosi in giro, la qual già mai non s’è mossa, rapisce seco l’elemento del fuoco, che non sappiamo se vi sia, e per esso l’essalazioni, le quali perciò s’accendano e dien fuoco alla materia della cometa, che non sappiamo se sia in quel luogo e siamo certi che non è robba ch’abbruci. E qui mi fa il Sarsi sovvenire del detto di quell’argutissimo Poeta:
- Per la spada d’Orlando, che non ànno
- e forse non son anco per avere,
- queste mazzate da ciechi si danno.
Ma è tempo che vegniamo alla seconda proposizione; anzi pure, prima che vi passiamo, già che il Sarsi replica nel fine di questa ch’io abbia constantemente negato che l’acqua si muova al moto del vaso e che l’aria e gli altri corpi tenui aderiscano a’ corpi lisci, replichiamo noi ancora ch’ei non dice la verità, perché mai né il signor Mario ned io abbiamo detta o scritta alcuna di queste cose, ma bene il Sarsi, non trovando dove attaccarsi, si va fabbricando gli uncini da per se stesso.