Capitolo III

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Segue appresso (e sia il terzo saggio): "Sed quando sapientissimis etiam viris operæ pretium visum est ut esset saltem aliquis, qui Galilæi disputationem, tum in iis quibus aliena oppugnat, tum etiam in iis quibus sua promit, paulo diligentius expenderet; utrumque mihi paucis agendum statui."

Il senso di queste parole, continuato con quello delle precedenti, mi par ch’importi questo: che de’ contradittori a gl’ingegni eminentissimi non si debba, come già si è detto, far conto, ma trapassargli sotto silenzio, e se pur si dovesse lor rispondere, si dia il carico a persone più tosto basse, ch’altrimenti; e che però nel nostro caso sia paruto a uomini sapientissimi che sia ben fatto che non l’istesso P. Grassi o altro d’egual reputazione, ma che "saltem aliquis" rispondesse al Galilei. E sin qui io non dico né replico altro, ma, conoscendo e confessando la mia bassezza, inclino il capo alla sentenza d’uomini tali. Ben mi maraviglio non poco che il Sarsi di proprio moto si abbia eletto d’esser quel "saltem aliquis" ch’abbracci e si sbracci a tale impresa che, per giudicio d’uomini sapientissimi e suo, non doveva esser deferita in altri che in qualche soggetto assai basso, né so ben intendere come, essendo naturale instinto d’ognuno l’attribuire a se stesso più tosto più che manco del merito, ora il Sarsi avvilisca tanto la sua condizione, che s’induca a spacciarsi per un "saltem aliquis". Questo inverisimile mi ha tenuto un pezzo sospeso, e finalmente m’ha fatto verisimilmente credere ch’in queste sue parole possa esser un poco d’error di stampa, e che dov’è stampato "ut esset saltem aliquis qui Galilæi disputationem diligentius expenderet", si debba leggere "ut esset qui saltem aliqua in Galilæi disputatione paulo diligentius expenderet": la qual lettura io tanto reputo esser la vera e legittima, quanto ella puntualmente si assesta a tutto ’l resto del trattato, e l’altra mal s’aggiusta alla stima ch’io pur voglio credere che il Sarsi faccia di se stesso. Vedrà dunque V. S. Illustrissima, nell’andar meco essaminando la sua scrittura, quanto sia vero questo ch’io dico, cioè ch’egli delle cose scritte dal signor Mario ha solamente essaminato "aliqua", anzi pure "saltem aliqua", cioè alcune minuzie di poco rilievo alla principale [p. 226 modifica]intenzione, trapassando sotto silenzio le conclusioni e le ragioni principali: il che ha egli fatto perché conosceva in coscienza di non poter non le lodare e confessar vere, che sarebbe poi stato contro alla sua intenzione, che fu solamente di dannare ed impugnare, com’egli stesso scrive alla fac. 42 con queste parole: "Atque hæc de Galilæi sententia, in iis quæ cometam immediate spectant, dicta sint. Plura enim dici vetat ipsemet, qui, in bene longa disputatione, quid sentiret paucis admodum atque involutis verbis exposuit, nobisque plura in illum afferendi locum præclusit. Qui enim refelleremus quæ ipse nec protulit, neque nos divinare potuimus?" Nelle quali parole, oltre al vedersi la già detta intenzion di confutar solamente, io noto due altre cose: l’una è, ch’ei simula di non aver intese molte cose per essere (dic’egli) state scritte oscuramente, che vengon a esser quelle nelle quali non ha trovato attacco per la contradizzione; l’altra, ch’egli dice non aver potuto confutar le cose ch’io non ho profferite né egli ha potute indovinare: tuttavia V. S. Illustrissima vedrà come la verità è che la maggior parte delle cose ch’ei prende a confutare sono delle non profferite da noi, ma indovinate o vogliam dire immaginate da esso.