Atto primo

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Il Raguet Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Ersilia e Idalba.

Ersilia.   Voi dite bene, amica Idalba: è vero,

per la figura sua non è spiacevole;
ma non potreste credere quant’egli
mi si renda sgraziato e disgustoso
per quel suo modo di parlar, sí strano
che a le volte i’ non so quel ch’e’ si dica.
Idalba.   Che dite voi, mia cara Ersilia? E a me
quelle nuove parole piaccion tanto
ch’io ne vo pazza, e quand’egli ragiona,
lo sto ascoltando con piacer grandissimo.
Ersilia.   Ben me ne son accorta, poiché osservo
che vi studiate qualche volta di
rubargli qualche cosa e di andarlo
imitando. Ma poi altra ragione
c’è ancora, perch’io debba andar con lui
sí ritenuta; poiché finalmente
noi non sappiamo ancor di certo chi
e’ si sia. Ortensio, di mio padre amico,
ha trattato da Modona per lettere
del maritaggio mio con Flavio Trinci,
gentiluom molto agiato di cotesta

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cittá; e tutto si è conchiuso, se

non che Flavio ha voluto riservarsi
di venir prima a vedermi, ed Ortensio
scrisse a mio padre ch’ei saria venuto
fra poco, ma con altro nome e senza
darsi punto a conoscere, accioché
se mai non si sentisse d’ultimare
il fatto, rimanesse tutto occulto
e non ci fosse alcun mio pregiudizio.
Or l'esser capitato poco dopo
questo giovane, il qual si sa che viene
di Lombardia e l’aver giá scritto Ortensio
fra le notizie che ci diè di Flavio
ch’ei si distingue molto col parlare
a la moda, ci ha fatto a tutti credere
che sia questi senz’altro, mentre parla
da Raguet vero, e pensiam che si celi
sott’altro nome per ora e con dire
d’esser partito da Milano. Ma
voi ben vedete quanto incerti sono
questi argomenti e queste congetture.
Idalba.   Incertissime; ed io scommetterei,
non so perché, che non è quello. Quanti
son quelli in oggi che parlan galante!
Ersilia.   Per me credo ch’e’ sia pur troppo, ma
con tutto ciò non muterem condotta,
finché non venga lettera d’Ortensio
o altro avviso.
Idalba.   Appunto ecco l’amico
lá in capo del viale; io mi stupiva
che lasciasse passar questa mattina
senza mostrarsi. La facilitá
che quest’orto di publico passeggio
gli presta di vedervi, fa ch’ei non
manchi giá mai.
Ersilia.   Io ve lo lascio, amica,

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e per sottrarmi torno con mio padre

che si è posto a seder di lá dal fonte,
e me ne vado. Addio.

SCENA II

Idalba, poi Ermondo.

Idalba.   Ben delicata

e schizzinosa è Ersilia; ella non gusta
le mode, e molto piú le gusto io,
bench’io sia vedova ed ella fanciulla.
Quel forastiero è leggiadro, è giocondo,
è molto conversevole e dimostra
d’esser anco di beni di fortuna
molto ben proveduto. Egli s’avvia
verso me.
Ermondo.   Che vuol dir, signora Idalba,
che non è Ersilia con lei?
Idalba.   Era qui
or ora, ma non so per qual premura
ha voluto partir prima del solito.
A lei senz’essa riuscirá noioso
il giardino e ’l passeggio.
Ermondo.   Il promenarsi
dove si trovi la signora Idalba
basta per dar piacere; ma per altro
negar non posso giá che quella figlia
non mi abbia incantato: fu la prima
ch’io vedessi in Livorno, e appunto in questo
pratello istesso d’alber’ cinto intorno,
da chi passeggia non tocco e che sembra
prestar ricetto opportuno e ritiro
per ragionare e amusarsi.
Idalba.   Avend’io

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da lei appreso questo dire, ho detto

l’altro di che mi amuso, e certa sciocca
ha creduto le dica brutto muso.
Ermondo.   A quella giovinetta io penso sempre,
e in veritá l’amo furiosamente.
Idai.ba.   O non ci vuol poi furia, ci vuol flemma
piú tosto.
Ermondo.   Insomma ho dell’attaccamento
per essa grande.
Idai.ba.   È facile conoscervi
perduto, morto ed attaccamentato.
Ma fate grazia a me, signor Ermondo:
séte vo’ Ermondo, o pur Flavio? Scopritevi
or che siam soli, e mia fé vi do in pegno
ch’io, finché a voi piacerá, secretissimo
vi terrò a tutti.
Ermondo.   Io, signora, non entro
nel suo senso e non ci capisco nulla.
Io, se mia madre non m’inganna, sono
Ermondo Alfani, e non ho alcun motivo
di mascherarmi e di cambiarmi nome.
Idalbá.   O s’è cosi, come pur credo anch’io,
perdete il tempo con Ersilia, e molto
meglio sarebbe che applicaste altrove.
Ermondo.   In fatti quand’io cerco piú che posso
di ragionar con lei la sera ne la
conversazione ch’è in sua casa, dove
voi pur signora intervenite, io piú
d’una volta mi sono insospettito
ch’ella si mocchi di me.
Idalba.   Non intendo
questa parola, ma sará ingiuriosa,
quasi lo riputasse una candela
da smoccolare.
Ermondo.   Qualche invidioso
l’avrá di me male impressa, ma io

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saprò disabusarla.

Idalba.   Quale abuso
ci può esser qui?
Ermondo.   Eh, ch’ella non capisce;
direbbero i plebei disingannarla.
Idalba.   Ma in somma al vostro mal, signor Ermondo,
non c’è rimedio.
Ermondo.   Io confesso che sono
abimato; io ne fui dal primo abbordo
ch’ebbi con lei.
Idalba.   Vi lascio adunque e séguito
il mio passeggio; troppo dispiacere
il trattenervi con ogn’altra donna
vi darebbe.
Ermondo.   O non giá, si trompa, io stimo
anche le sue bellezze senza fine;
e quand’io prima la vidi e ch’ebbi
quest’onor lá, mi tenni fortunato.
Idalba.   Sí, dite pur ch’io all’incontro ho l’onore
di non credervi punto: a rivederci.
Ermondo.   Opportuno mi giunge il mio valletto.

SCENA III

Aliso, Despina e Ermondo.

Aliso.   Signor padrone, eccovi qui Despina,

la cameriera di quella signora
dove andate la sera: lite nasce
fra lei e me, qual vi convien decidere.
Allorché questa giovine iersera
vi dimandò la tabacchiera, quella
che tenete sí cara per memoria
di chi la diede, disse di bramarla
solamente per farla oggi vedere

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ad un valente tornitor capace

di farne un’altra simile. Or chiedendo
io la scatola indietro, mi risponde
che non vuol darla e ch’è sua, perciocché
quando assentiste all’istanza, diceste:
— Volentieri, ecco ve la dono subito. —
E per aver cosí detto pretende
gli abbiate fatto un presente, e di renderla
non vuol si parli.
Despina.   Io mi rimetto a lei:
si risovvenga bene, se non disse
di bocca sua che me la dona.
Ermondo.   Sí;
ma nel linguaggio di moda donare
non vuol dir altro che dare.
Despina.   Ed in quello
de’ padri nostri vuol dire far dono,
regalare; e non so quanti arzigogoli
ora si trovin fuori. Chi dá e toglie,
Il malanno lo prende.
Ermondo.   Regalare
vale ora dare un buon pranzo; si cambiano
i parlari. Ma in fine ha ragione
Despina, ed è sua la scatoletta.
Io mi dovea pensare che, parlando
con lei, dovea parlare come il popolo
e non mai con la nuova lingua nobile,
per la quale ora un autor dona un libro
al publico, benché il libro si venda.
Mi spiace un poco veramente quella
scatola, se ben è di bosco; ma
riaverolla con darne una d’argento.
Intanto, bella giovine, io vi prego
di volermi esser sempre favorevole
presso la vostra padrona.
Despina.   Io d’ognora

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le dico ben di lei.

Ermondo.   Credete voi
che, s’io stringessi il negozio e volessi
venir tosto a le nozze, ella gustasse
il progetto
?
Despina.   Del suo gustare io non
le saprei dar notizia, ma guardinga,
cauta e restia per sua natura è molto.
Ermondo.   Fatele intender bene, come quando
occasion si presenta ad una figlia
che sia propizia, ella dée tosto accedere.
Se di me non fa conto, io v’assicuro
sen pentirá; per suo bene e per mio
non lasciate però di darvi ognora
dei movimenti. Ersilia, se ben giovine,
sa il suo mondo; esortatela però
acciocché faccia uso e metta in opera
il suo genio.
Despina.   Cred’ella dunque che
abbia vèr lei cosí gran genio?
Ermondo.   Eh voi
non intendete, vuol dire il suo ingegno.
Despina.   Con sua grazia, signore, io men vo a casa
È soverchio piú a lungo mi ragioni,
perché la mia ignoranza fa ch’io poco
comprenda quel che dice.

SCENA IV

Aliso, Ermondo.

Aliso.   Deh, signore,

datemi ora licenza — ve ne supplico —
di dirvi quel ch’io sento: converrebbe
che procuraste di adattarvi alquanto

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al favellar comune, e tanto piú

or che siamo in Toscana, ove si parla
bene. Quel mescolar tanti e poi tanti
francesismi vi rende oscuro e molto
disgustoso a chi sa la buona lingua,
Io che nacqui francese, se ben fatto
per cosí lungo soggiorno italiano,
intendo tutto benissimo; ma
non avvien cosí agli altri.
Ermondo.   Eh tu se’ matto,
tu non sai che cosí si fa figura
di virtuoso, nobile, pulito,
venuto di lontano. Vuoi tu forse
ch’io parli come fa la plebe? Sai
tu che per tal parlare io son vicino
a far la mia fortuna? Quella giovane
ha buona dote, e c’è gran fondamento
di sperar molto piú: tu vedi quali
accoglienze e finezze ognor mi faccia
suo padre. Or sappi ch’ei non prese a farmele,
se non quando m’udi parlare in questo
modo. Ora vedi tu quanto t’inganni.
Ai.iso.   Per veritá questo ancòra è un intingolo
ch’io non comprendo. Ersilia è un buon partito
e ambito qui da piú d’uno: ora come
in cosí pochi dí voi siate fatto
padron di casa, io ne strabilio.
Ermondo.   In vero
me ne stupisco io stesso; ma introdotto
ch’io fui, udendo che vengo pur ora
di Lombardia, mi fecer buona cera
e incominciaro a squadrarmi ed a farmi
varie richieste; ma allorché m’udiro
parlar cosí galante, ad ogni nuova
frase fra lor si guardavano e insieme
sogghignavano e tosto raddoppiarono

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le cortesie e motti mi diceano

che parean riferirsi a desiderio
di nozze.
Aliso.   Or sia in buon punto, non lasciamo
d’incalzar finché il vento è favorevole.
Non diam tempo a’ disturbi che nascessero.
Ermondo.   Siam d’accordo, non penso ad altro; amore
si unisce qui con l’interesse. Andiamo.