A due maligni spiriti il mortale
offre l’incenso e mette in lor balìa
la vita e il cor, onde Ragion si parte
da casa nostra. Vuoi saperne il nome?
Ambizïon, Amor, ecco i diavoli
che fan del viver nostro aspro governo.
Quella, potente più d’Amor, distende
ampio il dominio, e dell’Amor fin anco,
come vo’ dimostrar, usurpa il trono.
Narra una storia del buon tempo antico
e non di questo, in cui viviam, men bello,
che fu già un Re, che visto in mezzo a un prato
allegramente pascolar un gregge
e sano e bello e grazie alle indefesse
cure del suo Pastor molto fiorente:
- Amico, - disse a lui, - per arte e studio
d’esser pastore d’uomini sei degno.
Lascia dunque l’armento e vieni e reggi,
ministro di giustizia, uomini e stati -.
E detto fatto, ecco il Pastor seduto
colla bilancia in man. D’uomini al mondo
non conoscea che un piccolo eremita,
e il suo saper non iva oltre alle pecore,
ai lupi, ai cani; ma il buon senso in lui
era maestro, e col buon senso, amici,
vien tutto il resto. Così fu. D’impaccio
ben si togliea, quand’ecco l’eremita
gli venne innanzi a predicar: - Fratello,
fratel, che veggo io mai? sogno o son desto?
Tu grande, tu ministro? ahi poveretto!
Non fidarti dei re. Varia fortuna
è l’umor dei potenti; ah! troppo cara
si paga poi, ché a voli repentini
sogliono i precipizi esser vicini -.
Sorrise il buon Pastor. E l’eremita,
seguitando la predica, soggiunse:
- Non credere all’inganno che seduce,
ma credi a me, fratello. Adulazione
già ti guasta il cervello, e mi ricordi
colui che visto assiderato in terra
un serpente, credendolo un frustino,
poi che perduto avea da tempo il suo,
lo raccolse e ne rese grazie al cielo.
Ma un passeggier gli disse: "O Dio, gettate
lungi da voi quell’animal perverso:
è un serpente". "È un frustino." "Io vi ripeto
ch’egli è un serpente, e che m’importa il fiato
sprecar per voi? volete il bel tesoro
custodir, miserabile?" "Sicuro,
il mio frustino non valea due soldi
e questo è nuovo. È invidia che in voi canta."
Ma il testardo pagò ben presto il fio,
che il feroce animal, sciolte le membra,
al suo padrone morsicò con tanta
ira la man, ch’ei ne perdette i giorni.
Fratello, guarda che non torni in peggio
la tua semplicità. - Quali malanni
peggiori della morte? - E l’eremita:
- Quali? vedrai, ma sarà tardi. Addio -.
Non molto dopo ecco comincia il principe,
da segreti eccitato odi e da invidie,
del cuore a dubitar non che del merito
di questo in prima celebrato giudice.
Nascon raggiri, cabale si ordiscono,
muovon accuse e già di lui si mormora
che di ricchezze confiscate ha colmo
un suo palagio e che rinchiuso a dieci
chiavi egli tien un gran tesor di gemme
dentro uno scrigno.
Allora il mio Pastore
apre lo scrigno di sua man e, oh vista!
Come scornati innanzi a lui rimasero
maligni e accusatori! Entro la cassa
erano i vecchi cenci del buon uomo,
un cappello, una giubba, un cesto, un curvo
bastone e, credo, un’umile zampogna.
- Dolce tesor, - ei disse, - o cari oggetti,
che non tiraste mai della menzogna
e dell’invidia i fulmini, venite.
Usciam da questo splendido palagio
come si esce da un sogno. A me perdono
date, o mio Sire, se dal cor trabocca
la mia parola, ma, venendo in Corte,
già questo giorno avea previsto e l’ora
in cui sarei caduto, e se la merita
la nostra vanità; ma quanti al mondo
non hanno un picciol grano nel cervello
di stolta vanità? Palagio, addio.