Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo XVI

Capitolo XVI - Attacco al Belvedere

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Erano già trascorse alcune settimane, da quando la nostra brigata agiva in accordo con gli alleati dopo l’avvenuto congiungimento e quindi non sussistevano più problemi di vettovagliamento o di munizionamento, anzi anche noi ormai eravamo dotati di bazooka, arma a razzo, valida anche come controcarro.

Il nostro comando ricevette l’ordine d’attaccare la cima del Belvedere, da dove si potevano dominare due versanti, quello Nord e quello Sud, suscettibile quindi di ulteriori possibilità di avanzamento. A notte s’iniziò, dopo un accurato esame di tutte le armi personali, ci portammo, senza essere notati, alla Querciola e qui rimase il grosso dei partigiani in quella linea di postazioni già accennata, ossia Casa Sassaia, Casa Rovina, Casa Assaretto, Casa Buia, Casa Matti. Un linea che, dal bivio della Masera, arrivava oltre la Querciola.

Normalmente si eseguivano queste operazioni:

  • scavare il terreno due metri per uno e mezzo con la profondità di settanta, ottanta centimetri;
  • piazzare una mitragliatrice dopo un accurato mascheramento con frasche, in modo che il suo fuoco potesse eventualmente incrociare quello di destra e quello di sinistra;
  • adibire alla postazione, oltre al mitragliere, un aiutante e due partigiani di rinforzo;
  • rifornire i partigiani con una o più casse di munizioni ed una di bombe a mano.

Alla data del 12 dicembre 1944, quindi, quel tratto di fronte che andava dallo Spigolino e scendeva passando dalla Madonna dell’Acero, la Cà, bivio della Masera (fino ad un chilometro oltre la Querciola passando sotto il monte Belvedere) era tenuto esclusivamente da forze partigiane: brigata Costrignano, prima Divisione Armando, poi brigata Fulmine. Noi della divisione Armando quel mattino eravamo in postazione dal bivio fino oltre la Querciola.

Personalmente comandavo la formazione Morselli, al lato della strada che dalla Querciola sale verso la cima del monte dalla parte opposta della strada, ad un centinaio di metri vi era in diverse postazioni schierata la formazione dell’Alpino. Quel mattino il comando alleato, che si era insediato a Lizzano, aveva programmato l’attacco alla cima del Belvedere. Era ancora buio quando sotto la Querciola oltre una decina di mezzi corazzati alleati già avevano i motori accesi ed appena fece giorno incominciarono la salita verso la cima del monte; al seguito, per l’attacco, vi era un gruppo di fanti neozelandesi unitamente ad un numero consistente di partigiani della Matteotti e del loro comandante Cap. Toni.

I nazisti non li aspettarono sulla cima, ma si erano appostati e fortificati alla Corona (piccolo agglomerato di case, forse neanche una frazione), avevano piazzato armi anticarro ed allestito un consistente numero di postazioni per mitragliatrici dominanti tutta la zona. Noi avevamo l’ordine di mantenere la linea di fronte.

Dopo circa mezz’ora sentimmo le mitragliatrici tedesche che in diverse avevano aperto il fuoco simultaneamente; distinguevamo dalla differenza dei colpi le raffiche dei nostri che rispondevano al fuoco nemico, poi si alternarono scoppi più possenti (erano entrate in azione le artiglierie dei corazzati alleati e dieci cannoni anticarro germanici).

La battaglia si protrasse per un paio d’ore, poi gli spari diminuirono di intensità. Sentimmo un rombo avvicinarsi verso di noi: ci sdraiammo con le armi pronte. Passarono sei corazzati alleati; gli altri erano rimasti là, immobilizzati dal nemico. Poi si ritirarono i neozelandesi, unitamente ai rimanenti della Matteotti. Purtroppo, fra i partigiani caduti vi era anche il loro comandante.

I tedeschi iniziarono l’inseguimento, noi li vedevamo avvicinarsi, li lasciammo avvicinare, mentre i carri armati superstiti continuavano la loro marcia fino a Lizzano. Ormai i tedeschi erano ad una cinquantina di metri da noi, simultaneamente aprimmo il fuoco, tutte le armi pesanti ed individuali erano in azione. La truppa avanzante ebbe un colpo d’arresto micidiale, molti restarono sul terreno, gli altri incominciarono a ritirarsi, nascondendosi e riparandosi come potevano, sempre sotto il nostro fuoco. Poco lontano da me, l’alpino comandante l’altra compagnia, mi diede voce: «Dartagnan, come al solito con i ribelli non si passa».

E lì si stabilizzò il fronte per tutto l’inverno 1944/45.