Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo XVII
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Oltre al bivio della Masera, là dove la cresta della riva che nasce dal Cimone, scende fino a portarsi all’altezza della strada, si trovavano alcune case ed una vecchia rocca, chiamata appunto Rocca Corneta. D’accordo con il comando alleato dovevamo attaccare quella fortezza che, praticamente, dominava il bivio. Anche in questa occasione, all’ora stabilita, attaccammo ed in breve volgere di tempo l’occupammo con poche fucilate, poiché ai tedeschi strategicamente interessava in modo relativo.
C’eravamo da poco installati, stavamo studiando la maniera di fortificarci, quando d’improvviso, c’investì una gragnola di cannonate. Era un fuoco tambureggiante, proiettili di tutti i tipi si abbatterono sulle porte delle abitazioni e quindi su di noi. «Ma dove hanno preso tanti cannoni i "crucchi" (tedeschi)?» ci chiedevamo. Non si poteva resistere. Restare a Rocca Corneta voleva dire morte certa per tutti.
Ci mettemmo in contatto con il comando, comunicando che rimanere significava il nostro annientamento. «Sgombrate!» fu l’ordine e sempre sotto a quell’infernale cannoneggiamento ci ritirammo. Arrivati a Lizzano apprendemmo che chi sparava era l’artiglieria alleata. Un ordine sbagliato? Mah! Comunque quella rimase terra di nessuno.
Il nostro comandante generale Armando, a novembre, fu chiamato a Roma dal governo italiano allora in carica e gli fu consegnata la bandiera; ufficialmente, da quel momento, eravamo truppe d’assalto del rinato esercito italiano. Gli fu conferito il grado di Generale, tutto in forma solenne, sull’Altare della Patria, vennero riconosciuti tutti i gradi ai componenti la brigata: ufficiali, sottufficiali, graduati. Non solo Armando fu ricevuto a Roma, ma anche altri comandanti partigiani, come Bulov che operava verso la Romagna.
Durante il ritorno, su macchina italiana con la bandiera e tutti i lasciapassare in regola, Armando, arrivato a Firenze, fu arrestato con tutta la scorta, dalla polizia alleata e messo in prigione. Forse perché era comunista? Forse per errore? La notizia arrivò a Lizzano come una bomba, tutti i partigiani si portarono davanti al comando alleato, armati di tutto punto, urlando: «Armando libero, Armando con noi!» Fu una manifestazione imponente. Uscì un ufficiale trafelato: «Calma ragazzi, calma!» disse «è stato senz’altro un errore, fin d’ora vi chiedo scusa a nome del comando e già mi sono interessato per chiarire il disguido».
Due ore più tardi Armando era fra noi, riunì tutti i partigiani e, dopo aver ringraziato per la mobilitazione, illustrò il risultato dell’incontro col governo italiano. Per quanto riguardava l’arresto la polizia americana aveva chiesto tante scuse anche a lui, poi l’aveva scortato fino a Lizzano.
Fu concordato con gli alleati che noi avremmo tenuto un tratto di fronte in rappresentanza dell’esercito italiano e che essi stessi avrebbero accettato di considerarci cobelligeranti. Oltre al nostro settore a proseguire il fronte vi erano i neozelandesi e per tutto l’inverno trascorremmo tre giorni in prima linea e tre giorni a riposo in paese.
Nei tre giorni al fronte avevamo scelto alcune case in prossimità delle postazioni, nelle quali si mangiava e, quando tutto era calmo, a turno si poteva anche dormire. Di notte si costituivano pattuglie di ricognizione, come avveniva anche fra i tedeschi, nella terra di nessuno e quando due di esse si individuavano o anche solo una veniva scoperta da una postazione avversaria, d’incanto il cielo s’illuminava di bengala e ne nasceva una sparatoria infernale con tutte le armi: caratteristiche erano le raffiche di mitragliatrice che, ogni dieci proiettili ne avevano uno tracciante, sembravano una serie di grosse lucciole che si rincorrevano per cercare un bersaglio.
Durante il congiungimento con gli alleati molti partigiani si erano congedati. Fu quindi necessario il riordino e il rinquadramento dei rimanenti. Io ero comandante alla compagnia Morselli, ero rimasto poiché la pleurite, anche senza molte cure, era alquanto migliorata; non avevo febbre e non sentivo più quella specie di pesantezza sotto i reni.
Ogni tre giorni quindi si partiva da Lizzano e si andava in prima linea e, come già detto, giorno e notte si intercalavano quattro ore di guardia e altrettante di relativo riposo nelle case già menzionate; vi era un coordinatore sul posto. Anche qui al comandante era assegnato un locale apposito, al piano terra della scuola della Querciola, riparato da un ampio terrapieno scavato nella montagna; nell’interno vi era un tavolino, su di esso il telefono e la radio trasmittente. Il telefono era collegato con tutte le postazioni di prima linea, con il comando generale di Lizzano e con gli alleati, per tutte le necessità quali artiglieria, aviazione...
Un mattino, dopo esser stati svegli tutta la notte, io al telefono, Serrazanetti di guardia, mi feci sostituire dal vice per un po’ e con Serrazanetti ci recammo al piano superiore per riposare qualche ora. Per terra vi erano due reti metalliche da letto, solo appoggiate, senza alcun rialzo; ci sdraiammo sopra e in pochi attimi ci si addormentò.
I tedeschi, chissà per quale ragione, incominciarono a sparare con i mortai; ci svegliammo, ma non ci demmo peso, poiché il proiettile del mortaio, scendendo verticalmente avrebbe colpito il tetto e noi avevamo altri due piani sopra il nostro, perciò ci riaddormentammo. Dopo un po’ il risveglio improvviso, tutta la casa aveva tremato, guardammo dalla parte del Belvedere e notammo che dal muro, subito sotto alla finestra, vi era un buco di una quarantina di centimetri di diametro. Ci guardammo in faccia. «C’era quando siamo saliti?» «Non mi sembra» fu la risposta, e nel contempo uno strano odore. La camera era vuota, guardammo sotto di noi, fra la rete e il pavimento vi era un proiettile lungo una quarantina di centimetri, la spoletta mezza rotta emanava uno strano odore. Ormai era fatta, l’avevamo scampata bella, ma poiché sapevamo che non era un proiettile a tempo, ci rigirammo a dormire.
Dopo due mesi di prima linea nella zona della Querciola, gli alleati ci inviarono a Pescia per un periodo di riposo. La formazione Morselli, che io comandavo fu installata, come tutte le altre in abitazioni civili sufficientemente capienti. Il proprietario del fabbricato che ci fu assegnato era un professore insegnante a Pescia. Ci mise a disposizione una camera grande che, molto probabilmente, in tempo di pace, fungeva da sala da pranzo ed una camerina normalmente adoperata dalla più piccola delle figlie, di quattordici-quindici anni. Portammo nella stanza grande una trentina di brande, fra l’una e l’altra si passava appena, nella più piccola mettemmo il cuoco con la moglie.
La ragazzina, quando seppe che nella sua camera avrebbe dormito una donna, andò su tutte le furie, non voleva assolutamente; mi mandò a chiamare, esigeva a tutti i costi che ci andassi io. In tutti gli eserciti i comandanti dormono e mangiano da soli, hanno anche l’attendente e il loro compito è quello di dare ordini, oltre che "trattare da fessi i subordinati". Quelle persone non avevano capito che cosa significasse essere partigiani, ex ribelli. Spiegai quindi che ero partigiano come tutti gli altri, che fra noi non vi erano differenze e perciò avrei dormito e mangiato assieme agli altri. Chiarii anche che la donna che andava a dormire nella camera della ragazza non era una partigiana qualunque, ma regolarmente sposata e vivente con il marito. La convinsi, specie mettendo in evidenza le azioni militari effettuate dalla donna unitamente ad altre tre, che per alcuni mesi erano state con noi, sostenendo i combattimenti e i disagi come tutti.
Dopo pochi giorni venne a mancare il comandante di battaglione (per postumi di una ferita). Il comando generale riunì tutti i comandanti di formazione, i vice comandanti e i commissari per eleggere il sostituto. Fui eletto all’unanimità comandante del 1° battaglione. Dopo l’insediamento, sentii il dovere di visitare tutte le formazioni che ne facevano parte ed intrattenermi coi partigiani per conoscerci meglio. Le formazioni erano la Morselli, la Ruozzi, la Piccoli, la Tabacchi e la Roveda; quest’ultima era la più distante, accantonata in un castello vero e proprio, con merli e torrione.
Il castello era stato abbandonato dai proprietari, forse in attesa di tempi migliori o perché costituiva la residenza estiva. Vi si trovava però un maggiordomo con tanto di livrea che, essendo solo, fungeva anche da custode. Egli non voleva i partigiani, li vedeva di malocchio e affinché se ne andassero, metteva in evidenza che si era lontani da tutti, isolati e che per raggiungere un centro abitato e divertirsi un po’ occorreva fare svariati chilometri. Ma l’argomento sul quale insisteva maggiormente era la presenza degli spiriti nel castello.
Andai quindi a visitare anche quel gruppo seppure lontano, conseguentemente prevedevo di trascorrere la notte assieme a loro. Io entrai, i partigiani sapevano della mia visita ed il ritrovarci fece piacere a tutti. Ci mettemmo in cerchio a conversare di tante cose e dei momenti passati, alcuni anche divertenti, fino a che si arrivò a parlare della loro sistemazione al castello e dei rapporti con il maggiordomo. Mi risposero che non vi erano più problemi, accennarono solo agli spiriti. «Come gli spiriti?» chiesi. «L’ha detto il maggiordomo!» «Effettivamente si sentono di notte rumori strani, porte che si aprono, a volte sembra un muoversi di catene.» «E voi che fate?» replicai. In modenese mi risposero: «No a durmèn!» (Noi dormiamo!)
Rimasi anch’io quella notte, non sentii rumori strani, ma ad una certa ora, una porta s’aprì, non c’era nessuno. E sì che nella porta c’era la maniglia. Comunque feci come gli altri, dormii saporitamente; l’importante era che non ci fossero allarmi o attacchi improvvisi dei tedeschi, altro che spiriti!
Al mattino ripartii e, appena arrivato al comando, Armando mi fece chiamare; mi recai immediatamente da lui e mi fu comunicato che a giorni il battaglione sarebbe tornato al fronte. Dopo un paio di giorni infatti alcuni camion alleati vennero a caricarci e partimmo per la prima linea. Durante il viaggio non avemmo incidenti, ci dispiaceva soltanto non tornare al fronte della Querciola, che ormai ci era famigliare e dove ormai eravamo in grado di operare anche al buio, conoscendo bene il luogo ed ogni piega del terreno. Ci avevano aggregati, di rinforzo, alla brigata Costrignano, subendo anche la divisione del battaglione. Infatti la Morselli che, per diversi mesi avevo comandato forte di cinquanta partigiani, rimase a Pescia. Terminò così il mio periodo di riposo, il battaglione fu diviso ed in parte rispedito al fronte in previsione di una offensiva primaverile.
La compagnia Tabacchi assieme al vice comandante di battaglione fu rimandata a Vidiciatico a rinforzare la brigata Fulmine la quale teneva un tratto di quel fronte. Ed io, in qualità di comandante di battaglione, unitamente alle compagnie Piccoli, Roveda e Ruozzi, fui inviato sul fronte di Lizzano Pistoiese. Precisamente a Lizzaneta a rinforzare la brigata Costrignano anch’essa su un tratto di fronte.
Il nostro caposaldo principale era sul monte Spigolino, una cima alquanto rocciosa. Il nemico era anch’esso appostato fra le rocce a Cima Tauffi, ma siccome avevamo previsto proprio in questa zona il passaggio della linea gotica, vi si trovava un vero fortino con feritoie e camminamenti, dotati anche di mortai. In quelle postazioni noi rimanevamo anche per otto giorni dopo di che altri partigiani ci sostituivano per un uguale periodo mentre ci riposavamo a Lizzaneta.
Quando si era al fronte su monte Spigolino la partenza dall’accampamento era al mattino da Lizzaneta sotto Pistoia e, per tutto il giorno era un salire prima fra terreni coltivati, poi più in alto fra immensi e fitti boschi con una serie di tornanti su un sentiero, che si era formato al nostro passaggio. Aumentando la quota finivano gli alberi e rimanevano solo macchie di arbusti spinosi e radi, sempre più radi fino a giungere ove c’era solo roccia ricoperta di spessa neve e di ghiaccio fino ad aprile inoltrato. Un tratto di circa duecento metri, là dove finiva il bosco, restava scoperto dalle postazioni nemiche, specie quella di Cima Tauffi, inquadrabile alle loro armi pesanti; tutte le volte che si passava da quel luogo il nemico ci dava il benvenuto a colpi di mortaio, ma era per loro una soddisfazione magra poiché noi, ormai abituati, sentivamo il colpo di partenza, il sibilo del proiettile in discesa e distinguevamo dal sibilo stesso a che distanza sarebbe scoppiato; comunque ci riparavamo sempre per non essere colpiti dalle eventuali schegge.
Da questi attacchi non abbiamo mai avuto perdite. Soltanto una volta, dopo una settimana di prima linea, appena avuto il cambio, stavamo scendendo e proprio in quel punto incontrammo la consueta colonna di alpini (nuovo esercito italiano), addetta al nostro vettovagliamento. Come al solito cominciò l’attacco dei mortai. Sentimmo il colpo di partenza, il sibilo che si avvicinava, poi più nulla. «Questo è vicino!» si gridò. Tutti ci stendemmo riparati fra le rocce, partigiani ed alpini appena in tempo, poiché la granata scoppiò vicinissima, l’unica vittima fu un mulo. Provarono però una grande paura quei poveri alpini, tutti del Meridione, inoltre per loro fu il battesimo del fuoco.
Quando, a metà aprile venne l’ordine di passare all’offensiva, il battaglione da me comandato si trovava a Lizzaneta ed aveva terminato la settimana di riposo, quindi toccava a noi attaccare. Poco dopo la mezzanotte, controllato tutto l’armamento, partimmo per Monte Spigolino, era la solita strada percorsa tante volte ed anche al buio non potevamo sbagliare. Arrivammo alla cima che era ancora notte fonda. Ci fermammo un dieci minuti per riposarci e per informarci dai partigiani in postazione di eventuali novità. «Tutto come al solito» fu la risposta.
Sapevamo che i tedeschi avevano una difesa sul monte chiamato Libro Aperto, quella era la prima dislocazione da attaccare. In doppia fila indiana sui due cigli del costone, distanziati gli uni dagli altri di cinque o sei metri, partimmo con le armi spianate, passammo un piccolo rialzo e ad un centinaio di metri vedemmo la postazione, restammo con gli occhi fissi su di essa, per renderci conto subito se il pericolo era immediato. Nessun segno di vita.
Avanzammo, sempre attenti, in quanto poteva essere una trappola per lasciarci avvicinare di proposito. Ancora niente. Con passo più spedito ci avvicinammo, poi entrammo: la zona era deserta, i tedeschi l’avevano abbandonata. Si capiva però che la loro partenza era avvenuta da poco. Andammo oltre ed arrivammo al passo della Croce Arcana: era questo un passo per modo di dire perché di fianco ad una piccola depressione e su un rialzo di roccia vi era una grossa croce di ferro. Non so perché sia stata messa in quel luogo. Lo chiamavano passo forse per la ragione che da qui partiva un viottolo il quale, dopo un lungo percorso tortuoso, andava ad unirsi ad un secondo sentiero per arrivare a Cima Tauffi, fortificazione questa facente parte della linea gotica.
Se i tedeschi fossero scesi da quel viottolo noi ci saremmo trovati tra due fuochi. Decisi quindi di mettere due partigiani appostati al passo; uno era il mitragliere con relativa mitragliatrice e l’altro l’aiutante, un ragazzo di sedici anni. Era buio, diedi loro la parola d’ordine con l’accordo che sarei andato a riprenderli personalmente ad azione finita. Salutai e partimmo.
Io e Tito, commissario della brigata Costrignano, portammo i partigiani in avvicinamento. Raggiungemmo un costone liscio e pulito, era un calanco terminante in una cresta sopraelevata. Dietro quella cima ognuno di noi scavò una fossa e dentro ci mettemmo ad aspettare poiché, essendo quasi giorno, attraversare quella piccola sopraelevazione significava esporsi al fuoco diretto del nemico, infatti tutto il tratto davanti a noi era privo di qualsiasi possibilità di riparo.
I tedeschi s’accorsero della nostra presenza e c’investirono con un’infernale sarabanda di colpi di mortaio. Noi eravamo inchiodati là, senza alcuna possibilità di manovra, occorreva aspettare il buio per attaccare. Allo scopo di saggiare il nemico mettemmo la bustina (eravamo sprovvisti di elmetto) in mostra, oltre il terrapieno, sostenuta da scaglie di roccia. Subito una gragnola di proiettili da mitragliatrice, sibilanti, passò sopra di noi. Capimmo quindi che, oltre alla fortificazione Tauffi, molto più a destra, una mitragliatrice incrociava il fuoco con la prima.
Era opportuno aspettare dentro quella buca, senza muoverci durante tutta la notte senza dormire. Col passare delle ore iniziò a farsi sentire un certo rilassamento. Ad un tratto però un botto tremendo mi scosse, un colpo di mortaio, scoppiato a meno di un metro, mi aveva letteralmente coperto di terra e di scaglie di roccia. Un braccio mi sanguinava, l’esaminai, era solo un graffio, provocato forse da un frammento di roccia. Aiutandomi con i denti e l’altra mano, annodai il fazzoletto e tutto finì lì. Ma si doveva ancora aspettare, era snervante quell’attesa. Verso le due del pomeriggio un banco di nebbia basso e fitto si posò sul costone, coprendoci alla vista. Non si vedeva assolutamente nulla. Presi allora l’improvvisa decisione di attaccare.
Come da disposizione data due partigiani armati di bazooka, lanciandosi di corsa nella nebbia, arrivarono ad una cinquantina di metri dalla postazione tedesca con le armi già cariche, si fermarono, s’inginocchiarono e scaricarono i colpi contro di loro. Nel frattempo altri partigiani si erano portati sotto il fortino, lanciando all’interno delle bombe a mano, mentre noi, avanzando di corsa, sparavamo brevi, ma continue raffiche di mitra. I tedeschi, confusi nella nebbia, rispondevano al fuoco con raffiche sparate a caso. Tito ed io con due gruppi di uomini li accerchiammo ed entrammo dalla parte posteriore del fortino. I soldati tedeschi erano tutti morti.
Di corsa raggiungemmo il rimanente del gruppo e ci contammo, avevamo solo un ferito. Decidemmo di cercare l’accantonamento tedesco, che trovammo in una villetta lì vicino. La circondammo. Nella nebbia udimmo il suono di un grammofono a molla che proveniva dall’interno. «Ci sono» dicemmo io e Tito. Facemmo irruzione immediatamente. Al piano terra nessuno, in cantina nessuno, al piano superiore nessuno. Intanto il grammofono esaurì la sua carica, cessò la musica, era stato per pochi minuti; questa volta la nebbia aveva agevolato la fuga. Sentendosi ormai perduti, erano fuggiti lasciando tutto.
Era già notte fonda quando andai a ritirare i due amici lasciati di guardia al sentiero. Avevano udito gli spari, i colpi di mortaio, le raffiche delle mitragliatrici, ma se ne erano stati lì fermi, sdraiati nelle neve, senza mangiare, senza bere, nell’incertezza dell’esito dell’attacco, ad aspettarmi, come avevo ordinato. A cento metri, sentendo i passi, intimarono l’alt. Mi feci riconoscere più per la voce che per la parola d’ordine. Risposero, m’avvicinai, quindi chiesi: «Come va ragazzini?» E loro di rimando, pulendosi le ginocchia dalla neve: «Mah, è un po’ freschino!»
Questo fu l’ultimo mio combattimento.