Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo XV
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Era l’autunno avanzato del 1944, avvenuto il congiungimento con le forze alleate, sentii il bisogno di avere notizie di mio padre che viveva a Roma assieme a mio fratello e molti zii, nonchè altri parenti, di cui dalla fine di settembre del 1943, non avevo notizie. Chiesi ad Armando un permesso per recarmi a Roma, dando la mia parola che dopo una settimana al massimo sarei rientrato. Il Comandante mi concesse il permesso, ma dubitava del rientro da me promesso e fu questo fatto che, dopo la Liberazione, quando per la prima volta andai a trovarlo a Pavullo, lo fece ricordare di me.
Partii quindi da Lizzano dopo aver promesso il mio rientro agli amici partigiani della Morselli (scettici anche loro) con mezzi di fortuna alleati fino a Firenze, da qui era ripristinata la ferrovia. Arrivai a Roma ovviamente senza armi e con vestiti da partigiano, cioè pietosi. Fui ospite per una settimana dei miei zii: Vandini Mario, Cotti Amedeo e Cotti Iolanda, in Via Giulia. Stavano tutti bene, mio padre e i miei parenti, solo di mio fratello Enrico, che aveva risposto alla chiamata del Gen. Graziani per la Repubblica di Salò, non si avevano notizie.
Mi recai a salutare gli operai della O.M.I. (Ottica Meccanica Italiana), tanti amici già al corrente della mia appartenenza alla resistenza, qualcuno a conoscenza anche di quelle fucilate a porta S. Paolo in seguito all’8 settembre. «Resta, sarai subito assunto» mi disse il Direttore generale, unitamente a tutti i conoscenti. Non potevo, avevo dato la mia parola.
La settimana passò presto; per il rientro, dopo aver chiesto informazioni, mi fu indicato l’ufficio assistenza partigiani. Credo fosse di ispirazione monarchica, fatto è che mi fornì una serie di documenti scritti in inglese, francese, italiano e con tanti timbri delle forze armate alleate, su cui si chiedeva la collaborazione di tutte le autorità con cui sarei venuto in contatto nel viaggio di rientro.
Nell’ufficio, mentre attendevo che i miei lasciapassare fossero pronti vi era un’altra persona: un ferrarese di nome Luigi, il quale, asserendo di avere militato nella Brigate Garibaldi nell’Italia settentrionale voleva avvicinarsi al fronte, per essere subito a casa appena liberato il territorio ferrarese. Furono rilasciati anche a lui documenti come i miei, ci furono dati dei soldi per il viaggio e quindi partimmo assieme in treno.
Giungemmo a Firenze e qui Luigi volle salutare un suo amico il quale invitò entrambi a cena in uno dei ristoranti più signorili di Firenze. Si presentò come Ugolini ed aveva un grande e lussuoso negozio di pelletteria. Dopo cena, allontanandosi da me di alcuni metri, Ugolini chiese a Luigi, indicando me: «Ma lui lo sa?» al che lui rispose: «No, No!» Ciò mi fece sospettare molto da quel momento.
Dormimmo in un lussuoso albergo, in due camere separate, tutto pagato da Ugolini. Al mattino, di buon’ora, c’incamminammo sulla Porrettana; fatti una decina di chilometri ci fermò una jeep con due militari di polizia americani; chiesti i documenti ci comunicarono che, oltre Firenze non si poteva andare e anche se i lasciapassare erano in regola ci caricarono sulla jeep portandoci in una caserma di carabinieri già attivata in un paese vicino.
Il maresciallo comandante ci trattò bene, mangiammo a tavola con i carabinieri, solo a sera fummo chiusi in camera di sicurezza e sul tavolaccio passammo la notte. Notai che il mio compagno non era abituato a giacigli d’emergenza e quella notte mi accorsi pure che era armato di pistola Beretta calibro nove, in dotazione anche alle Brigate nere fasciste. Queste cose, oltre al fatto di essere in possesso di molto denaro, aumentarono in me la diffidenza e al mattino non lo trattai più con amicizia.
Verso le dieci venne un ufficiale alleato, esaminò tutti i nostri documenti e trovatili in regola ci portò nuovamente a Firenze alla scuola Rossini - Centro Assistenza Partigiani. Entrammo da una porta e immediatamente ne uscimmo da un’altra. Siccome oltre Firenze non si poteva andare, perché era considerata zona di operazioni militari, presi la strada della montagna, non più la Porrettana, ma mulattiere, alla Partigiana. Il mio compagno mi seguiva, ma non c’era più fra noi quell’armonia di prima, si era accorto che il mio comportamento nei suoi confronti era cambiato.
Piano, piano la distanza fra me e lui aumentava, fintanto che lo persi, probabilmente avrà fatto dietro-front. A mezzogiorno circa arrivai a Sorgo Capanne ove c’era il primo gruppo di PP (Polizia Partigiana). Erano della formazione Morselli, la mia formazione. Fu grande la festa che mi fecero; il giorno dopo ero in formazione a Lizzano. Andai a comunicare il mio ritorno al Commissario di Brigata e anche ad Armando. Tutti volevano sapere della situazione dell’Italia libera, al che rispondevo: «È una miseria, da disperazione, con tante, troppe macerie». Quella situazione era penosa solo a descriverla!
Comunque, avevo mantenuto la promessa fatta ad Armando.