Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo XIV
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Ci fermammo nei pressi di un paesino (Ranocchio) e lì per alcuni giorni ci riposammo. Eravamo a poche centinaia di metri da una strada di un certo traffico, che noi potevamo controllare anche a distanza.
Un mattino intravedemmo una colonna di polvere che si avvicinava. Quando fu ad un chilometro circa da noi, distinguemmo chiaramente una ventina di tedeschi con altrettanti cavalli che venivano verso di noi. Arrivati all’ingresso del paese, vi era un grande cartello, lo lessero e di colpo si fermarono titubanti, quel cartello portava scritto: «Achtung zona infetta da bande armate».
La loro fermata fu inutile, vennero circondati; si accese una fitta fucileria ed uno solo riuscì a fuggire verso il luogo da dove era venuto. Perdite nostre: due feriti non gravi.
Oramai eravamo senza munizioni, chi aveva un paio di caricatori, chi un paio di bombe a mano, chi un nastro per mitragliatrice; da tanto tempo gli alleati avevano promesso lanci di munizioni senza mai effettuarli. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno individuammo una lunga colonna di automezzi nazisti e fascisti sulla stessa strada del mattino; scattò l’allarme, ognuno aveva una postazione predestinata.
Prima di arrivare al paese vi era una curva che poi a cono e scoperta s’alzava su fino alla cima del monte. Noi difendevamo il fianco sinistro, ossia quel cono che, una volta individuato il combattimento, divenne relativamente facile: infatti al nemico non era possibile salire poiché le nostre brevi raffiche erano micidiali. Il gruppo era formato da Nicoli Enrico, in qualità di caposquadra, Tito (Serrazanetti Alessandro), Forni Dario, io ed altri quattro compagni.
L’armamento consisteva in una mitragliatrice dotata di un solo nastro di munizioni, cinque fucili 38, più tre mitragliette step. Gli attaccanti passarono oltre, attaccarono dal centro del paese e dalla parte opposta ove non c’era il bosco. Si combatté un paio d’ore, a causa della mancanza di munizioni, le zone attaccate dovettero retrocedere. Venne allora l’ordine di ritirata generale, passando in mezzo agli alberi al coperto, in quanto i tedeschi, appena intravedevano qualcosa, vi scaricavano decine di colpi di mortaio.
Noi, per arrivare al bosco, dovevamo percorrere un sentiero che giungeva fino ad una casa, ma poi un muro c’impediva di continuare. C’incamminammo distanziati, davanti quelli che portavano i mitra e le bombe a mano, l’aiutante mitragliere con l’arma sulle spalle e il mitragliere stesso, pronto a sparare, il nastro penzoloni che oscillava camminando. Arrivammo all’abitazione, nel cortile tre tedeschi ci guardarono esterrefatti, in casa si sentiva vociare, ovviamente erano in tanti. Noi proseguimmo senza parlare, loro non dissero nulla, ci guardavamo solo, pronti a far fuoco.
Un salto e saremmo stati nel bosco; salimmo di corsa fra la macchia, le spalle erano al sicuro, avevamo dietro tanti alberi. Pochi secondi, poi esplose una gran quantità di colpi di mortaio, ma sparati a casaccio, ci fu un baccano d’inferno, ma nessun danno. Ricominciò la marcia di spostamento, massacrante, interminabile e, siccome ormai eravamo in autunno, faceva freddo, diversi partigiani, io compreso, eravamo in canottiera e calzoni corti.
La marcia era pesante anche perché pioveva, ci si riparava con un panno militare preso ai tedeschi, ma presto anche questo s’inzuppò d’acqua. Arrivammo alla Riva, quella cresta montuosa che dal Cimone scende fino a Rocca Corneta; nevicava, così scendemmo al Dardagna che, data la pioggia, era ormai un fiume vero, ci aggrappammo l’un l’altro facendo una catena per resistere alla corrente, attraversammo il corso d’acqua, risalimmo l’altro versante, cercando qualche riparo.
Il primo rifugio che trovammo fu il Santuario della Madonna dell’Acero, entrammo, ci spogliammo di quel poco che si aveva, strizzammo i panni, ci si asciugava con quel che si trovava, perfino tovaglie e paramenti sacri. Al centro accendemmo un fuoco per asciugarci, oltre alla legna esterna si usò anche qualche panca. Qualcuno poi parlò di vandali, pochi per la verità. Ma fu una necessità. Io presi una pleurite bilaterale, pur essendomi asciugato.
Rimanemmo solo una notte, il mattino in marcia, per portarci sull’altro versante ad occupare Pianaccio, Monte Acuto e Castelluccio. Allora non vi era nessun passaggio o mulattiera o sentiero praticabile nei pressi di Madonna dell’Acero; solo un bosco impenetrabile. Dovemmo scendere per la strada fino oltre Cà di Berna, ove sapevamo esistere una mulattiera che avrebbe fatto al caso nostro.
A Cà di Berna ci aspettava un fatto orribile. Questa borgata era formata da una ventina di case in sassi, come tutte in montagna. Dall’altro versante (cioè dalla Riva) si era sentito un colpo di fucile che non si sapeva a chi fosse indirizzato, poiché nessun tedesco fu colpito. Era partito dalle SS?
Immediatamente i tedeschi pensarono ad un attentato, quindi circondarono quel gruppo di case, costrinsero ad uscire gli abitanti (di uomini ce n’erano solo due), radunarono insieme le ragazze di quindici - sedici anni, i bambini e gli anziani ultrasessantenni e ne fecero un massacro (ventisette morti). Dalle stalle fecero uscire tutte le bestie: mucche, somari, pecore e fucilarono anche quelli, poi appiccarono il fuoco alle case.
Ci fermammo un momento per guardare l’orrendo spettacolo, i cadaveri delle persone erano stati portati via, ma gli animali giacevano ancora là fra le macerie, gonfi ed anneriti dal rogo. Non è difficile immaginare che cosa si provi a vedere tali spettacoli. Questi tedeschi erano quelli con i quali c’eravamo alleati per portare la civiltà!
Prendemmo la mulattiera, incominciammo a salire, arrivammo al lago, scendemmo verso Pianaccio, l’attraversammo e continuammo la marcia verso Monte Acuto e Castelluccio. Si saliva in fila indiana con passo lento, ogni tanto si trovava qualche abitazione ed arrivammo ad una casa ove sulla porta stava una donna, non più giovane che si passava un fazzoletto sugli occhi piangenti. Mi fece un cenno, mi fermai, dietro di me la colonna si fermò. Io la guardai, non la conoscevo. «Forse mi scambia per un altro» pensai.
Ella mi venne incontro, mi abbracciò e, fra i singhiozzi, mi raccontò che i nazifascisti la settimana prima le avevano fucilato il suo unico figlio diciottenne. Teneva in mano un paio di calze, fatte da lei per il figlio e, siccome io ero senza, mi pregò di prenderle e di metterle. Il che io feci. Risposi al suo abbraccio, dicendo: «Grazie mamma!»
Mi venne un nodo alla gola, non seppi pronunciare altra parola; ma che cosa potevo dire?
M’incamminai, dietro di me la colonna si mosse, allungando il passo per raggiungere quelli che ci precedevano. La marcia proseguì faticosamente fino a Castelluccio, dopodiché ogni formazione ebbe la sua destinazione nei punti strategici. Il gruppo di cui facevo parte fu assegnato ad una masseria a mezza costa di Monte Acuto. Fu in quel periodo che nella nostra formazione era venuto a mancare il comandante, un capogruppo e l’intendente. D’accordo con il comando generale furono fatte nell’interno della compagnia le elezioni in base all’attività, al comportamento che ognuno aveva tenuto per il passato. Capogruppo fu eletto uno di Pavullo, ragazzo da affidamento, intendente (Maresciallo) fu nominato Forni Dario persicetano dell’Accatà e comandante fui eletto io. Tutti all’unanimità.
Da poco ero comandante della formazione Morselli, composta da una trentina di partigiani delle brigate Garibaldi, alle dirette dipendenze del generale partigiano Armando, incominciai a stringere amicizia con esponenti di altri gruppi, operanti assieme a noi: "Giustizia e libertà", "Matteotti", "Fiamme verdi". Un giorno venne da me un partigiano di questi, al quale ci consideravamo particolarmente legati da amicizia, anche se poi a guerra finita non l’ho più rivisto.
«Avrei bisogno di un piacere» mi disse «Ho con me mio figlio, ha sedici anni ed è figlio unico, tu capisci che se capitasse un momento difficile per me, lui rischierebbe anche un’azione disperata e così sarebbe anche da parte mia. Se si trovasse senza via d’uscita per sé, saremmo tutti e due a seguire la stessa sorte. Il favore che ti chiedo è quello di prenderlo con te, la guerra è guerra, ma almeno che quando sarà finita, uno possa tornare a casa.»
Lo avrei preso se proprio lo desiderava, ma doveva rendersi conto che la barca era la stessa e che non potevo assumermi la responsabilità eventualmente di agevolarlo rispetto agli altri. Mi ringraziò, salutandomi con una stretta di mano e tornò alla sua formazione. Il nome del figlio era Nano che nel loro gergo significa ragazzo. A casa ritornarono entrambi.
C’insediammo quindi in quella masseria dalla quale si dominava Lizzano e tutta la strada sottostante. Quel luogo non l’abbiamo più abbandonato. Il nostro accampamento era chiamato allora Ca’ di Falchi, come la località omonima, se esiste ancora. Un giorno venne da me Nicoli dicendomi: «Sai che a Monte Acuto vi è un parroco persicetano? Se vieni andiamo a trovarlo, in quanto io lo conosco molto bene.»
Partimmo da Ca’ di Falchi ed in breve fummo a Monte Acuto. Nicoli mi presentò al prete, poiché io non lo conoscevo. Egli fu molto cordiale, avrebbe voluto offrirci qualcosa, ma anche lui era nelle nostre povere condizioni. Si raccomandò solo che noi restassimo, che non si abbandonasse la zona, altrimenti i tedeschi avrebbero poi bruciato tutto. Noi lo rassicurammo, avremmo fatto tutto il possibile, e così ci salutammo facendoci gli auguri per l’avvenire.
Quando i tedeschi si resero conto della nostra presenza e pure della consistenza numerica, a Lizzano sembrava avessero perso la testa: era tutto un correre e rincorrersi. Poi dalla strada sottostante il paese, piazzarono alcuni cannoni e mortai, aprendo verso di noi un fuoco infernale. Tutti ci appostammo per aspettare l’attacco della fanteria che di solito avviene alla fine del cannoneggiamento. Aspettammo invano nel bosco, non si arrischiarono, ben sapendo che quello era il nostro elemento naturale.
Visto che i tedeschi non si decidevano, alcuni giorni dopo, di buon mattino, il comando diede ordine alla mia formazione, unitamente ad un’altra, di passare all’attacco e, se possibile, occupare Lizzano. Noi comandanti delle due formazioni, l’altra era "Il Bersagliere", dopo una manovra di avvicinamento, decidemmo l’attacco. Il Bersagliere portò i suoi uomini sotto il paese e, schierati, piano piano, avanzarono verso l’abitato, cercando ripari, procedendo quindi a balzi e rispondendo al fuoco nemico, si portarono alle prime case del paese.
Schierai i compagni a monte del paese ed in formazione sparsa, sempre rispondendo al fuoco nemico, arrivammo alla fine dell’abitato, che quindi si trovava tutto circondato. I tedeschi si portarono a gruppi verso l’uscita per ritirarsi in direzione Vidiciatico, ma ormai li aspettavamo ed attaccammo quelli che si trovavano più avanzati; fu per loro una disfatta. Soltanto alcuni riuscirono a fuggire per un viottolo fiancheggiante il cimitero, noi non lo conoscevamo.
Iniziò poi il rastrellamento per gli isolati e si protrasse fino a sera. Fu così che, ormai padroni della situazione, nel cercare nazisti scoprimmo un allevamento di trote, prosciugammo le vasche in cemento e portammo i pesci al comando. Quella sera tutti cenarono con trote, altro che farina di castagne!
Passarono alcuni giorni, poi il comando generale dette ordine ad altre due formazioni di attaccare Vidiciatico. La mia compagnia questa volta era di riserva per portarsi, se fosse stato necessario, là dove sarebbe stata la lotta più dura. I comandanti attaccati avevano carta bianca nel modo di condurre il combattimento, come del resto era consuetudine. Irruppero a valanga nell’abitato, sparando in maniera infernale. I nazisti, impressionati, si diedero a precipitosa fuga, qualcuno cadde, ma furono tutti così veloci, che non si riuscì a fare neanche un prigioniero. Ci attestammo alla Ca’ e con una serie di postazioni si arrivò alla Querciola.
I luoghi dove ci si riposava dopo quattro ore di prima linea erano Casa Sassaia, Casa Assaretto, Casa Rovina, Casa Buia, Ca’ di Màt. Si facevano da ambo le parti pattuglie nella terra di nessuno. Qualcuno moriva sul posto, altri restavano feriti più o meno gravemente.
In uno di quegli scontri rimase ferito anche il comandante della brigata "Giustizia e libertà" che, da un paio di settimane, operava con noi. Una sera ricevetti l’ordine di schierare la formazione nella zona della Ca’ poiché si pensava che dalla Riva il nemico potesse fare delle puntate, specie là su quel fianco. Portatomi sul posto cercai le alture che eventualmente potessero essere meglio difendibili. In quattro di esse feci mettere una mitragliatrice che all’occorrenza incrociasse il fuoco con le altre. Soddisfatti del nostro schieramento commentavamo: «Non passa neanche un topo!»
Non vi erano turni di guardia, si vigilava per tutta la notte. Era quasi l’una dopo mezzanotte, in un buio pesto, allorché sentii per la strada che da Vidiciatico porta a Madonna dell’Acero, un marciare cadenzato, scarpe chiodate, quindi erano nemici, ma venivano da Vidiciatico. Come avessero fatto a passare sembrava un mistero, poiché là vi era stanziata la brigata "Fulmine" con relativi posti di blocco e pattuglie di servizio. Praticamente ci arrivavano alle spalle.
Mi portai in quell’insediamento che fiancheggiava la strada di una trentina di metri. Tutti ebbero l’ordine di non sparare se non avesse aperto il fuoco quella postazione. Mi affiancai al mitragliere. «Lasciamoli passare» bisbigliai dopo, vista la consistenza «decideremo poi!»
Marciando per tre, come se fossero ad una parata, ci oltrepassarono. «Non muoverti» sussurrai ancora. Era una colonna lunghissima, forse un migliaio di uomini, sicuramente provenivano dal fronte, che ormai era giunto ad alcuni chilometri da Porretta. Che fare? I primi tedeschi erano già oltre la curva del Torlaino, quasi un chilometro da noi ed ancora ne passavano. Confermai l’ordine di non sparare, intanto gli ultimi si persero nel buio.
Se avessimo dato battaglia, sicuramente ne avremmo ucciso decine, ma poi saremmo stati sopraffatti. Era giusto?
In certi casi dare degli ordini è una responsabilità pesante, molto pesante!
A Vidiciatico nessuno li aveva visti. Comunque furono tante le valutazioni che in quel momento mi passarono per la testa, avevo sì la pistola lanciarazzi per chiedere rinforzi, ma questi li sapevo a Vidiciatico, quindi troppo lontani. Sparare al buio? Il nemico, dopo il primo momento, avrebbe individuato le postazioni, orientandosi con le fiammate delle nostre armi. Lanciare un bengala? Significava mettere in evidenza la nostra relativa consistenza e perciò, sapendo che i nazisti erano armati di Panzerfaust, sarebbe stato un suicidio. Queste valutazioni, fatte in un attimo, mi fecero dire: «Non sparate!»
Il giorno dopo il comando approvò la scelta. Armando disse: «Siamo qui per combattere, ma dobbiamo anche portare a casa i nostri partigiani» come soleva dire lui «e non al macello».
Un giorno, nell’autunno avanzato, vedemmo una jeep con tre o quattro ufficiali in divisa alleata fermarsi al comando partigiano. Gli alleati erano arrivati a Porretta! Quindi oramai noi eravamo il fronte, poiché dietro stavano le forze alleate, davanti c’erano i nazisti. A questo punto il comando diede facoltà a tutti quei partigiani che lo desiderassero di congedarsi. Loro stessi si sarebbero interessati per vitto, alloggio e quant’altro necessitava fino alla liberazione completa dell’Italia.
Chi invece voleva restare al fronte veniva inquadrato in una nuova posizione. Fra i persicetani che rimasero al fronte volontari vi furono: Serrazanetti Alessandro (Tito, di Via Permuta); Forni Dario (Leo, dell’Accatà); Cotti Alberto (D’Artagnan, di Via Permuta). Essi operarono, insieme agli alleati, come truppe d’assalto, in concerto con questi.