Il Partigiano D'Artagnan/Capitolo VI
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La lotta di liberazione nei ricordi di un partigiano di San Giovanni in Persiceto (1994)
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Quanti militari italiani si comportarono a quel modo?
Dei governanti, dei Savoia, di tutti quelli che avevano grosse responsabilità, come marescialli, generali, regnanti, aspiranti al trono, cugini con collare dell’Annunziata e senza, nessuno sentì il dovere (quel dovere che per tanti anni e ad ogni piè sospinto veniva preteso) di esortare il povero militare perché si facesse ammazzare in Africa, in Grecia, in Albania, in Jugoslavia, in Russia in nome della patria!
Quanti poveri soldati per il passato erano stati comandati su tutti i fronti di assaltare il nemico alla baionetta; ed era prassi che quando la si sguainava si gridasse: «Savoia!» Poi era uno sbudellarsi a vicenda.
Anche i nostri regnanti, i governanti, il ministro Badoglio e il Re in primo piano, il 9 settembre 1943 andarono all’assalto alla baionetta: era la corvetta militare su cui s’imbarcarono per fuggire ed erano in tanti all’arrembaggio che non ci stettero tutti. Qualcuno, imprecando, rimase sul molo di Ortona.
A Porta San Paolo alcuni ufficiali e militari, assieme a civili, schierarono quattro o cinque obici residuati della guerra 1915-’18 ed attesero i tedeschi che sicuramente sarebbero arrivati. Un capitano, che aveva la base in Trastevere, subito oltre il ponte Sublicio, comandante dei carristi, con in dotazione carri leggeri armati di sola mitragliatrice, chiamati "scatole di sardine", unitamente alle persone succitate, furono le uniche forze ad opporre la maggiore resistenza all’occupazione di Roma.
I tedeschi arrivarono in colonna corazzata con cannoni moderni e, come al solito, con un’organizzazione efficientissima. In testa, su un automezzo scoperto, vi era presumibilmente il comandante; un colpo di cannone partì da Porta S. Paolo, il primo automezzo fu centrato, si sentì il boato, poi fu investito dalle fiamme.
Da una strada laterale, un borghese che, chissà come, era armato di panzerfaust, colpì in pieno il secondo, anch’esso si incendiò. Un terzo bruciava, non so come, a duecento metri più indietro.
A quel punto gli attaccanti pensarono bene di accelerare la marcia e, affiancandosi, aprirono un fuoco infernale, travolsero in breve la linea di sbarramento, misero fuori uso gli obici piazzati, ed una parte della colonna si fermò, dando vita ad un fuoco di fucileria, cercando di inserirsi a piedi nel rione Testaccio.
A duecento-trecento metri dalla Porta, andando per Viale del Re, sorgevano lateralmente dei filari di alberi secolari, dietro ogni albero vi era un civile con un’arma, tutti insieme per molto tempo ostacolarono l’avanzata tedesca. Io ero al secondo o terzo albero, in quello davanti a me si trovava un ragazzo, di cui non so il nome, non lo conoscevo, non l’ho mai più visto.
Aveva un fucile modello 1891, più lungo di lui di molto; armeggiò e puntò. Un tedesco in quel momento prese la rincorsa da porta S. Paolo verso il palazzo delle poste (tuttora esistente); sentii netto lo sparo; il tedesco cadde e non si mosse più. L’aveva colpito il ragazzo.
Per alcune ore si sparò, poi finirono le munizioni. Mancò un coordinamento generale, ma anche uno parziale. Mancò tutto. I tedeschi ebbero via libera per la capitale; andai verso casa, dietro al cinema Vittoria (Testaccio) scorsi un borghese ammazzato. In combattimento, sul colle, oltre l’anfiteatro di Caracalla, tre scatole di sardine (carri leggeri italiani) centrati, erano fumanti, con dentro due cadaveri ognuno. Rimasero là per tre giorni.