Il Parlamento del Regno d'Italia/Giuseppe Lella
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senatore.
Giuseppe Lella nacque in Messina il 20 luglio 1803 da Francesco ed Angela Vadalà. Suo padre, comunque fosse uno de’ primari negozianti della città, pure si propose d’avviare il figlio suo primogenito a più brillante carriera: quindi dopo averlo tenuto per due lustri in collegio, all’età di anni 17 lo inviava a Napoli a studiare giurisprudenza. Furon colà suoi precettori il Capocasale, il Gerardi, e per ultimo il celebre Nicola Nicolini, che gli serbò finchè visse una particolare benevolenza.
La immatura morte di Francesco Lella richiamava in Messina il figlio, che a ventun anno appena compito si trovò capo di numerosa famiglia. Abbandonata perciò la carriera della magistratura, dovè addirsi al commercio, tanto più che sposato avendo da li a poco l’unica figlia del banchiere Pietro Giovanni Siffredi, veniva in certo modo a rappresentare due primarie case di commercio di quella cospicua piazza.
Però i suoi studî, specialmente i legali, non comunemente fatti da quella classe di persone cui apparteneva il Lella, lo fecero distinguere di buon’ora, e tanto che ancora giovanissimo coprì interessantissime cariche. Membro della Camera di commercio, senatore della città, reiterate volte giudice, e più tardi presidente del tribunale di commercio, spesso decurione e poi deputato delle opere pubbliche provinciali ed amministratore del grande ospedale civico ecc.
La sua intelligenza nei diversi rami e lo zelo col quale esercitava le affidategli incumbenze valevano a conciliargli la pubblica estimazione.
Il Lella aveva succhiati col latte i principi liberali; ma gli erano stati rafforzati dal celebre Nicolini. Abborriva quindi dispotismo e despoti. Aveva sempre sospirato pel proprio paese un reggimento più largo, più confacente alla moderna civiltà. Conosciuto alfine esser follia sperarlo da Ferdinando II, fu costretto egli al pari di tanti altri a chiederlo alla rivoluzione.
Sorgeva l’alba del 12 gennajo 1848. La Sicilia per la prima in Europa brandiva la spada, inalberava il vessillo tricolore, sfidava a morte il tiranno. Eroico quanto infelice sforzo, che doveva avere una fine sì dolorosa e sì triste!
La rivoluzione siciliana fu schiacciata dalle prepotenti forze borboniche, dalle bajonette elvetiche, dai figli della libera Svizzera fatti servi del tiranno di Napoli, dal degenere figlio di Gaetano Filangieri.
Espugnata ed incenerita in parte da costui Messina, ei diè mano alle persecuzioni e de’ pochi cittadini che vi eran rimasti, taluni consegnò al carnefice, più ne racchiuse in quell’orrenda bastiglia ch’è la cittadella, altri disegnava condannare a perpetuo esilio. Lella fu compreso nella lista di proscrizione. S’avvide però il Filangeri che l’eseguire sì numerose condanne, dopo l’emigrazione volontaria di gran parte dei cittadini, sarebbe stato un cambiare la città in un deserto, quindi cambiò di consiglio, non già di proposito; inventò un nuovo genere di castighi, obbligando i cittadini, alienissimi da ciò, ad accettare cariche e impieghi. Lella fu da lui nominato giudice del tribunal di commercio. Qui inutile il rinunciare, l’allegar motivi di salute, il ritirarsi in campagna... Era un castigo, il ripetiamo, e doveva subirsi, pena la cittadella ai renitenti. Nè di ciò pago, trasmise ordine severissimo a tutti i magistrati, a tutti i funzionarî, di recarsi al circolo, il giorno natalizio del Borbone, di recarsi al tempio e porgere incensi a colui che aveva fatto arder Messina.
Era quella una dimostrazione che esigevasi dal Filangieri, onde dare a credere all’Europa che non la Sicilia avesse fatto la rivoluzione, il popolo esser sempre devoto alla dinastia regnante, ed una fazione soltanto averla promossa, sostenuta e tentare tutti i mezzi onde risuscitarla.
Ma il Lella nutriva ben diverso proposito. Anelava egli di far conoscere all’Italia, all’Europa, che se Messina era stata vinta dal lungo bombardamento, abbattuta dalle bajonette e dagl’incendî, non era tuttavia domata, e che gli estremi suoi martirî non avevan fatto che accrescere a mille doppi l’odio suo contro il despota. Si propose adunque di attraversare ad ogni costo il progetto del Filangieri, facendo modo che non si recassero al circolo e al tempio i due più interessanti collegi: il senato ed il tribunal di commercio, il primo rappresentante direttamente la città, il secondo il di lei importantissimo traffico. Confidò egli il segreto a due suoi congiunti che facevan parte del senato e che assunsero l’impegno di coadjuvare il Lella nel suo energico proponimento.
Recatisi i tre presso i singoli loro colleghi delle due insigni corporazioni, tanto dissero e fecero che riuscirono a persuaderli di non recarsi alla cerimonia del circolo. Il luogotenente di Ferdinando II ne fu adiratissimo; tuttavia non ebbe neppure il compenso di sfogare l’ira sua sui membri dei due collegi, giacchè così facendo falliva più che mai lo scopo che si era preposto.
Un membro ora defunto del tribunale del commercio, e che tuttavia ci asterremo dal nominare onde non coprire il di lui nome d’infamia, rivelò, ch’era all’opera del Lella che il governo doveva imputare l’assenza dalle funzioni dei due collegi, sicchè il Filangieri in un primo impeto di collera ordinava che il Lella fosse di subito arrestato, trascinato in cittadella e colà sottomesso a un consiglio di guerra. Quindi meglio riflettendo e pensando che la pubblicità, anzi lo scandalo che sarebbe derivalo da un simil giudizio e dalla condanna che infallibilmente avrebbe pronunciata, ritrattò il primo ordine e si contentò di comandare al Maniscalco, in allora ancora prevosto dell’armata, ma di già effettivamente capo della polizia dell’isola, d’impadronirsi del Lella, e senza sottoporlo a giudizio di sorta, di farlo accompagnare lungi da Messina, fuori della zona occupata dalle regie truppe.
Il Maniscalco eseguì l’ordine in persona ed arrestato il Lella lo mandò in consegna al generale Jola ai confini in Barcellona e di là nel cuor dell’inverno, era il 13 del mese di gennajo, a Portosalvo, piccola borgata occupata da miseri pastori sugli alpestri monti di Castroreale, ove quasi privo di letto dovè rimanersi durante tutto l’inverno.
Nè sazio di tanto, il Filangieri pose a condizione del rimpatrio del Lella, che questi avesse a chiederne la grazia, dichiarando nel tempo stesso di voler di buon animo riconoscere il legittimo governo di re Ferdinando II.
Il carattere del Lella era lungi dal prestarsi a tale ritrattazione, quindi subì paziente l’ostracismo, i disagi, le privazioni d’ogni maniera, e non ritornò in seno alla propria famiglia se non quando, partendo il Filangieri col suo esercito per espugnare Catania, ritrasse le truppe da Barcellona e da tutto il territorio Messinese.
Da quel giorno possiam dire che la casa del Lella fosse il vero, il solo convegno di tutti i liberali, il mezzo di comunicazione fra l’emigrazione e i diversi comuni dell’isola. Non si pensò che ad ordire di nuovo le fila di una più vasta e più salda rivoluzione. Ad agevolare l’impresa ed a garantirsi nel modo il più sicuro dagli artigli del Maniscalco, divenuto direttore di polizia, che non perdeva di vista il Lella, questi aveva ottenuto che il maggiore de’ suoi figli fosse rivestito della carica di console sardo in Messina, ed il minore di quella di vice-console. Lo stemma consolare sardo che splendeva al dissopra della porta d’ingresso della sua abitazione serviva di tal guisa di salvaguardia al Lella non solo, ma ben anche a tutti i suoi amici politici, i quali frequentavano la di lui casa.
Nè questo era il solo vantaggio; chè quello di poter ritirare sotto plico consolare i principali fogli italiani e stranieri i più liberali era pure di non lieve profitto alla causa nazionale in Sicilia; del qual numero era il Piccolo Corriere d’Italia, organo, come ognun sa, della società nazionale italiana che estendeva per tutto le sue ramificazioni e che aveva non pochi adepti nell’isola; di questo foglio il Lella spediva gran numero di esemplari in tutti i punti della Sicilia. Il presidente di quella società Giuseppe La Farina ha tenuto conto al Lella di quanto ha fatto sotto questo rapporto e non si è ristato dal proclamare altamente e a diverse riprese che all’opera sua orasi debitori della più ampia diffusione dei principî liberali ed unitarî nella terra del Mongibello.
Il Maniscalco, che non ignorava affatto queste patriotiche mene del benemerito messinese, non mancava occasione di avvertirlo ch’ei lo avrebbe senza dubbio una nuova volta còlto sul fatto, e che allora, guai a lui! perchè lo avrebbe senza dubbio fatto amaramente pentire di quelle ch’ei chiamava sue mene anarchiche. Il Lella non curava tali minacce e continuava il suo compito.
Altre prove di non comune coraggio civile dette il nostro protagonista, allorquando Francesco II venne assunto sul mal sicuro trono di Napoli.
Era egli uno dei decurioni di Messina; ora pretendevasi che il decurionato decretasse una statua a quel fantoccio di re. Al solito, niun membro della decuria, per quanto avverso a simile decisione, osava manifestare il proprio voto contrario. Ebbene, anche in questa circostanza il Lella osò rifiutarsi pel primo, invocando le strettezze in cui versava la finanza comunale e la convenienza d’altra parte che il nuovo sovrano si meritasse prima colle proprie opere un monumento, onde il decurionato non avesse taccia di adulatore. Questa dichiarazione del Lella fu approvata dall’universale silenzio e di monumento non fu più questione.
Nè di coraggio civile mancò il Lella in altre capitali occasioni. Così mentre ferveva la guerra in Lombardia che le singole provincie d’Italia affrettavano coi voti e coll’opere la nazionale unità, alle premure, alle istanze che muovevan le potenze, quali l’Inghilterra e la Francia, al giovine re perchè facesse delle concessioni ai suoi popoli, questi, rispondendo non essere che una piccola fazione anarchica quella che chiedeva le innovazioni, la grande maggioranza del paese tenendosi invece più che paga delle antiche istituzioni, onde dar prove inconcusse di tali sue asserzioni andava chiedendo ai consigli comunali a mezzo degl’intendenti l’espressione de’ loro voti, espressione ch’esser doveva naturalmente calcata sulla modula di pieno soddisfacimento che emanava direttamente dal consiglio del ministero borbonico.
Or bene, essendosi ingiunto al decurionato di Messina di esprimere ei pure il suo avviso sopra sì grave argomento, e versando questo in tremenda incertezza, mentre se la sua dichiarazione risultava favorevole alle prescrizioni borboniche, erano evidentemente false, anti-patriotiche, anti-umanitarie, e dall’altro cauto s’essa si faceva interprete dei veri voti della popolazione messinese attirava inevitabilmente sul capo dei suoi autori l’ira e la vendetta inesorabile dei governanti, il Lella, con non poca presenza di spirito, prese a dimostrare in pieno consiglio come la Decuria non fosse corpo politico, ma semplicemente amministrativo, nei limiti anche del patrimonio comunale, quindi non competergli affatto l’agitare sì rilevante questione, che d’altronde il suo mandato provenendo dal sovrano, e non già dal popolo, perchè di nomina regia, non eragli certo dato d’esercitarlo a nome di quest’ultimo; infine, se stava proprio a cuore al governo di conoscere i desiderî ed i bisogni del popolo, non aver esso miglior misura ad adottare che interrogarlo esso stesso aprendo i comizî generali.
Il Decurionato di Messina seguì anche in questa occasione il saggio consiglio del Lella e si rifiutò dall’esprimere il richiesto avviso. Il governo destituì il nostro protagonista dalla sua carica di decurione e da quella di presidente del tribunal di commercio.
Per amore di brevità passeremo sotto silenzio i suoi incessanti lavori, le sue corrispondenze pubblicate sui fogli liberali del Piemonte e spesso riprodotte nelli stranieri colle quali si denunziavano all’Europa le ingiustizie del governo borbonico, i reiterali indirizzi di Messina al Re galantuomo, i quali venivan poscia coperti di gran numero di firme, ed in mementi nei quali il nominar soltanto l’Italia e Vittorio Emanuele era delitto capitale in Sicilia. Non parleremo neppure delle pubbliche dimostrazioni ogniqualvolta una squadra francese o sarda, spesso un sol legno da guerra, toccava Messina. Tali dimostrazioni erano quasi che sempre provocate per opera della famiglia Lella, che invitava gli Stati maggiori di quelle squadre o di quei legni a banchetti o a balli in sua casa. Ne fremeva il Maniscalco, che ben comprendeva lo scopo, ma non ardiva provocare il Piemonte con l’arresto del Lella che aveva uso nomare il Boncompagni di Messina, alludendo al contegno serbato da questo diplomatico in Firenze all’epoca della rivoluzione del 27 aprile 1859.
Tanti e sì segnalati servigî resi alla causa nazionale, non potevano sfuggire ai vigili sguardi di quel sommo ministro che Italia piange tuttora, quindi il decorava della croce di cavaliere dei santi Maurizio e Lazzaro, accompagnandone l’invio con lettera delle più lusinghiere, e quando poi seguita l’annessione dell’Italia meridionale l’augusto re nominava i nuovi senatori del regno, il Lella fu meritamente compreso in quel numero.