Il Parlamento del Regno d'Italia/Giorgio Pallavicino

Giorgio Pallavicino-Triulzio

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Ignazio Pallavicini Diodato Pallieri

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senatore.


Questi all’antica illustrazione del lignaggio, aggiunge chiarissimi meriti personali e il vanto di aver resi i più splendidi, i più segnalati servigi alla patria italiana.

Educato a nobiltà di liberali e patriotici sentimenti fino dalla più tenera infanzia, non tardò a cogliere la prima occasione che gli si presento per mostrare al mondo, che il suo non era fanatismo effimero, ma sibbene uno slancio tanto ardente quanto duraturo.

Compromessosi gravissimamente nei moti politici del 1821, cadde negli artigli dell’Austria, e condannato al carcere duro, subì con una costanza degna della più viva ammirazione, lunghi anni di quell’orribile supplizio, del quale Le mie prigioni di Pellico, hanno dato al mondo un’idea così completa e terribile che non vi può essere chi s’attenti dopo quel sommo scrittore a rifarne la dipintura.

Uscito dalle fortezze dell’Austria affranto di corpo, ma robusto e sereno di anima, il Pallavicini-Triulzio è accorso in Piemonte, ove lo si è accolto con tutti quei riguardi, quel rispetto, e quell’amore che le sue elevate qualità di mente e di cuore, non che l’abnegazione veramente eroica, e le sciagure sofferte ampiamente gli meritavano.

Eletto deputato alla Camera piemontese, prese parte attiva ai lavori di quella, e fu poscia elevato alla dignità senatoriale. Amico devoto del prode generale Garlbaldi, s’interessò massimamente alla spedizione di Marsala, e allorquando il vincitore di Milazzo, lasciò [p. 1031 modifica]la Sicilia, e passò sul continente napoletano, accettò l’invito da esso fattogli per assumere le importantissime funzioni di prodittatore.

Non si può mai abbastanza lodare il contegno dal Pallavicino tenuto in quella circostanza gravissima, contegno tanto più lodevole ed ammirabile in quanto che lo metteva per un momento, quasi in contrasto assoluto con la persona ch’egli amava e stimava più d’ogni altra al mondo, dopo re Vittorio Emanuele.

Si sa che il partito che si agitava intorno a Garibaldi e che si chiamava del suo nome, benchè in sostanza tendesse ad imporre all’illustre capitano i suoi piani, e contasse far agir lui onde conseguire il completo successo di quelli, si adoperava, servendosi di tutti i mezzi dei quali disponeva con un’insistenza e un’audacia delle più ostinate onde indurre Garibaldi a conservare il più lungamente che per lui si potesse l’autorità dittatoriale sulle provincie napoletane, impedendo ad ogni modo che si convocassero i comizi popolari, e si addivenisse per mezzo del plebiscito ad operare l’annessione delle provincie meridionali alle altre del nuovo regno italiano.

Quel partito, profittando dell’esaltamento patriotico e guerriero dell’eroe di Marsala, si arrabattava a persuaderlo ch’egli non doveva a verun patto consentire a lasciarsi cadere dalle mani le redini del governo di quelle ricche provincie, finchè, non solo i Borboni non ne fossero appieno cacciati, ma finchè esistessero stra nieri in Italia, cioè, Francesi a Roma, ed Austriaci nella Venezia.

Cotesti politicanti di nuovo conio, pretendevano che le forze rivoluzionarie, le quali pertanto cominciavano a trovare l’osso più che duro sotto Capua, e ciò, malgrado le più splendide prove d’individuale valore, pretendevano fugare i Borboni, e nel tempo stesso muovere la guerra alla Francia ed all’Austria.

Il conte di Cavour col tacito consenso dell’imperatore Napoleone III, spinse l’armata regia con alla testa il primo soldato dell’indipendenza italiana a frenare la tracotanza dei borbonici, e contemporaneamente il marchese Pallavicino insisteva così energicamente presso [p. 1032 modifica]Garibaldi, perchè il popolo napoletano fosse consultato intorno all’annessione, che il generale cedeva, ed il plebiscito aveva luogo.

Chi non riconoscerà con noi il Pallavicino aver reso in quella circostanza ancora, un immenso servizio alla causa nazionale? S’egli avesse piegato, se si fosse lasciato persuadere a permettere che il plebiscito fosse ritardato indefinitamente, la guerra civile poteva resultarne, e l’unità d’Italia, malgrado il genio del conte di Cavour, e la sua abilità inarrivabile, poteva, per avventura, mancare d’effettuarsi.

Il marchese Pallavicini giunse perfino ad offrire la propria dimissione a Garibaldi, che non osò accettarla, o non volle, comprendendo infine che allontanando un uomo dell’onestà e del patriotismo del Pallavicino, dell’amicizia, anzi, della devozione sincera, del quale non poteva in verun modo dubitare, si riduceva a distaccarsi da lui, piuttostochè rinunziare alla pronta convocazione dei popolari comizi, bisognava che questo consiglio fosse il più giusto e il più saggio.

Il Pallavicino ebbe a ricompensa dalla gratitudine del Governo di Vittorio Emanuele il collare dell’Annunziata, come, prima di lui, l’avevano avuto Ricasoli e Farini. Ciò non indusse però l’onorevole marchese a distaccarsi dai suoi amici dell’opposizione progressista in Senato, e molto meno dal liberatore della Sicilia.

Il Governo com’era naturale fece tutte le offerte le più sincere e le più benevoli al Pallavicino, onde consentisse ad accettare un’alta destinazione; il Pallavicino rifiutò costantemente, quanto dignitosamente.

I suoi rapporti col generale Garibaldi, allentatisi alquanto per il contrasto di Napoli, furono stretti più di prima e l’onorevole marchese visse quasi in disparte, intervenendo solo di tempo in tempo alle sedute pubbliche del Senato. Cadde il ministero Ricasoli e sorse quello presieduto dal commendatore Rattazzi, il quale come ognun si ricorda passava in quel tempo per essere in ottimo accordo col Garibaldi.

Infatti, in quel gabinetto sedeva un Depretis, noto per appartenere alle file più avanzate del centro [p. 1033 modifica]sinistro, se non alla sinistra pura, al qual Depretis erasi per maggior gvarentigia del garibaldismo dato a segretario particolare un Guerzoni, giovine più che ardente, e che alcuni pretendevano e pretendono, non sappiamo con quanta ragione, essere un mazziniano devoto.

Il Rattazzi era di buona fede, e credeva di riuscire a fare di Garibaldi ciò che meglio gli avrebbe accomodato: benchè Sarnico avesse dovuto essere una lezione per lui abbastanza cfficace, tuttavia egli continuava d’aver fiducia di potere scongiurare la tempesta, la quale andava ogni giorno più addensandosi e minacciava ben presto di dover scoppiare.

Intanto il Garibaldi tra le garanzie da esso imposte al presidente del Consiglio dei ministri, aveva messo quella che al marchese Pallavicino, fosse data la carica di prefetto di Palermo. Il Governo vi aveva aderito di buon grado, tanto più perchè si aveva piena fiducia, nella moderazione e lealtà dell’onorevole Senatore, moderazione e lealtà delle quali si era avuto chiarissime prove, in quanto egli aveva fatto come prodittatore in Napoli.

Finalmente il vincitore di Milazzo, parte per la Sicilia, e ben presto si mette colà a suscitare una grande agitazione, raunando armi ed armati, tanto palesemente, che tutti ammettevano stesse egli per organizzare una spedizione d’accordo col Governo, e terminando col metter fuora il famoso proclama, che terminava colle troppo celebri parole: «O Roma o morte».

Che cosa faceva in questo tempo il marchese Pallavicino, prefetto di Palermo?

Il marchese Pallavicino lasciava fare al generale Garibaldi tutto ciò gli pareva e piaceva; si sarebbe detto, che egli non aveva poteri sufficienti, nè autorità che bastasse, a indurre il generale a ristarsi dall’intraprendere ciò ch’egli intraprendeva.

Per un bel pezzo l’illusione del commendatore Rattazzi durò; alla fine si scosse, e si diresse al marchese Pallavicino, dicendogli vedesse ciò che faceva Garibaldi in Sicilia, se fosse vero ch’egli adunava armati coll’intenzione palese di sbarcare sul continente napoletano e [p. 1034 modifica]tentare una temerariissima impresa, contro i Francesi che occupavano Roma.

Il marchese Pallavicino, da quell’onest’uomo che è, rispose con prontezza e franchezza commendevolissime: esser vero che il Garibaldi chiamasse tutto di la gioventù alle armi, con quale scopo, egli ignoravalo; ma se ad ogni modo al Governo premesse d’impedire quegli armamenti, o di dirigerne, e di moderarne in un senso o nell’altro l’andamento, non si rivolgesse a lui, che sapeva esser troppo stretto amico del Garibaldi, per fargli da censore, o da oppositore; piuttosto, lo richiamasse dal posto affidatogli, e questo posto concedesse a persona, che fosse in caso di fare ciò ch’egli a niun patto, voleva o poteva.

Aggiunse, che non offriva la propria dimissione, perchè credeva non fosse convenevole il darla, nelle circostanze difficili in cui si trovava la Sicilia, ma che consigliava il Governo, a richiamarlo, e a mettere in suo luogo una persona che avesse potuto agire, con tutta la prontezza e l’efficacia necessaria.

Questo modo di trattare del marchese Pallavicino, fu a parer nostro, onestissimo e degno di lui; se il Rattazzi invece di aspettare più di cinquanta giorni a prendere una decisione, ne avesse, come il Pallavicini indirettamente gli consigliava di fare, adottata subito una subitanea ed energica, egli è evidente, che si sa rebbe potuto evitare, l’incresciosissimo dramma d’Aspromonte.

Inviato il Cugia a Palermo, il Pallavicino gli cedette il luogo, e si ricondusse a Torino. Intanto Garibaldi lasciava il campo di Ficuzza, evitava la colonna del generale Mele, o piuttosto era evitato da esso, entrava in Catania, e dopo aver vanamente tentato di farsi padrone della città mediante l’energia e l’abilità spiegata dal comandante generale della guardia nazionale, marchese di Casalotto, salpava per le sponde della Calabria, ove riusciva a prender terra, per incontrarsi sulle giogaie d’Aspromonte, nella colonna del generale Pallavicini che s’impadroniva, nel modo a tutti noto, dell’eroe ferito.

Come era naturale, tutti quelli, i quali contribuirono [p. 1035 modifica]davvicino o da lungi a quella catastrofe tentarono di rigettare gli uni sopra gli altri, la responsabilità di essa.

Il ministero si dette, dal canto suo, la più viva premura di adossare una principalissima porzione di quella responsabilità, al marchese Pallavicino, che avrebbe fallīto ai propri doveri di agente del Governo, col tollerare e favorir quasi, gli armamenti e l’organizzazione della spedizione garibaldina.

Il Pallavicino allora mise fuori un opuscolo giustificativo, che tutti abbiamo letto, opuscolo il quale, raccontava esattamente come fossero accaduto le cose, e riproduceva per intiero, le comunicazioni che avevano avuto luogo, tra il Coverno e il prefetto di Palermo.

Questo opuscolo, valse a restituire al Pallavicino, quella stima che qualche individuo troppo credulo verso le asserzioni del ministero Rattazzi, avesse potuto ritirargli; tanto che in oggi questo egregio cittadino, gode a buon dritto di quella riputazione di onestissimo, che insieme alla gratitudine dovutagli dagl’Italiani per i dolorosissimi sacrifici da esso sostenuti a pro della causa nazionale, lo fanno uno dei più onorandi ed onorati figli d’Italia.