Il Parlamento del Regno d'Italia/Cosimo Ridolfi

Cosimo Ridolfi

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Enrico Poggi Gioacchino Saluzzo

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senatore.


I Ridolfi sono di nobilissima schiatta e possiedono in Firenze uno di quei palagi storici che il forestiero ammira cotanto. Il marchese Cosimo ha compreso bene il suo tempo e non pago di quanto avevano fatto i propri antenati onde illustrare il nome da lui portato, ha voluto aggiungervi decoro del proprio e vi è riuscito ampiamente.

[p. 891 modifica]Pochi individui che avessero appena la fortuna necessaria per sostenersi durante il tempo che loro abbisognasse onde apparare una professione colla quale arrivarsi a campare un pane, si sono messi a studiare con tanto ardore e profitto con quanti il marchese Ridolfi fin dalla più giovanile sua età, lasciando da parte caravane e sollazzi, si è applicato ad apprendere quelle discipline che meglio si convengono al vero gentiluomo d’oggidi, che voglia far fruttare il suo in modo da re care il più che si possa giovamento ad altrui e che si prepari a rappresentare una parte autorevole nelle faccende del proprio paese.

Come ognun sa l’Italia, e la Toscana stessa, quantunque un po’ più avanzata delle altre provincie italiane, mancavano quasi completamente di ciò che si chiama vita politica. Quando in uno statucoio di quella fatta vi era un uomo nel quale, il principe, a ragione o a torto, riponeva la propria fiducia, quell’uomo per heur o malheur di quella popolazione si chiamasse Canossa, Della Margherita o Fossombroni, Corsini o Baldasseroni prendeva in mano tutta la matassa della cosa pubblica e faceva, disfaceva, rifaceva a sua posta; se bene, tanto meglio, se male tanto peggio, ma irremissibilmente sempre. Il Ridolfi non si tirava precisamente su a divenire uno di quei ministri onnipossenti; ma studiava la grand’arte del reggere uno Stato, perchè era uno di quelli che aveva fisso in mente come coll’andare più o meno lungo del tempo le faccende avessero a mutare, e i popoli, gl’Italiani poveretti, anch’essi compresi, dovessero essere alfine cavati di tutela per vegliare alle proprie bisogna da sè.

Ma questi studi, sebbene gravi, non occupavano solo il Ridolfi. - Come abbiamo detto egli contava sull’avvenire; ma questo avvenire poteva evidentemente farsi aspettare più che non si credesse; e un uomo dell’attività del Ridolfi, una volta preparatosi a quell’avvenire, non poteva mica mettersi ad aspettarlo colle braccia incrociate; trattavasi di trovare un’altra occupazione che fosse utile, e fu presto trovata, giacchè era un uomo di mente e di cuore che la cercava.

I nostri gentiluomini italiani - battiamoci il petto [p. 892 modifica]che ne abbiamo ben d’onde, fra i mille ed un vizi ond’erano ricchi, possedevano quello di trascurare oltre ogni credere le proprietà fondiarie dai loro avi a suon di colpi di spada e di lancia, o mediante ardite contrattazioni commerciali, acquistate. — Affidatili alle mani pigre e rapaci di agenti ignorantissimi in tutto fuorchè nell’arte di appropriarsi l’altrui, li lasciavano andare in malora, tanto e si bene che alla fin fine in alcuni casi erano quasi più a carico che a vantaggio.

Or dunque il marchese Ridolfi che aveva visto i gentiluomini inglesi, gerenti da per sè i propri fondi, visitarli soventi, abitarli lunghi mesi, sorvegliare le lavorazioni coi propri occhi e introdurre ad ogni ora tutti quei perfezionamenti in fatto di macchine e di metodi che venivano riconosciuti giovevoli, il marchese Ridolfi, diciam noi, si mise ad imitarli dapprima, e a sorpassarli dappoi.

La fama del nostro protagonista come agronomo è troppo nota perchè noi abbiamo bisogno di insistere molto su ciò, tuttavia ci giova ricordare qui che il Ridolfi non si contentò d’essere un agricoltore di primo ordine, ma volle che altri lo divenisse, ed a quest’oggetto promosse la fondazione d’un istituto, alla cui testa si mise egli stesso, il quale divenne il semenzaio da cui sbocciarono molti valenti coltivatori che si sparsero a riformare in parte ed a perfezionare sempre l’arte importantissima dell’agricoltura.

La Toscana intiera è riconoscente al Ridolfi di questa sua iniziativa, la quale ha servito di esempio e di sprone ad altri gentiluomini, i quali senza questo primo passo fatto dal nostro protagonista, non si sarebbero mai messi in una via tanta proficua agli interessi del paese; si può anzi dire, che una nobile gara sia nata in seguito tra i principali proprietari della Toscana e di qualche altra provincia d’Italia limitrofa, nell’occuparsi a far fruttificare quanto meglio puossi le proprie possidenze fondiarie.

L’accademia dei Georgofili nominò il Ridolfi a proprio presidente, dignità che egli ha in seguito sempre conservato. Ma ben presto, la gloria di questa [p. 893 modifica]importantissima innovazione introdotta dal Ridolfi in Toscana, non fu la sola ch’egli ebbe ad acquistarsi; in quantochè quegli avvenimenti politici che egli prevedeva dovessero un giorno cangiare i destini della patria italiana, sopraggiunsero alfine, e lo posero tosto come era giustizia in evidenza.

Tanto che, non appena il Granduca di Toscana, sopraffatto da quell’improvviso mutamento nei rapporti esistenti fino a quel di, tra i sovrani ed i popoli, ebbe a fare quello, che toccò a far pure, con qual animo Dio lo sa, a Ferdinando II di Napoli, di concedere, cioè, una costituzione che il Ridolfi venne designato immediatamente, e quasi diremmo collocato dall’opinione pubblica alla testa di un gabinetto ministeriale.

Le qualità del Ridolfi noi lo abbiamo già detto a principio di questo cenno, erano e sono a più di un titolo eminenti; e certo, se in quel momento un uomo poteva con autorità assumere il potere in Toscana quest’uomo era appunto il Ridolfi. Ma le difficoltà dei tempi erano grandi e tali, che per superarle non ba stava soltanto l’altezza dei criterio e la purezza degli intendimenti, ma sibbene anche una presenza di spi rito, ed una energia di carattere, quale appunto si esigono a sostenere con esito sicuro, nella via nella quale uno si è messo, il naviglio dello Stato.

Sul principio, quando gli animi commossi dalla ma ravigliosa prontezza colla quale si camminava di giorno in giorno più sicuramente verso un avvenire che pochi di prima appariva remotissimo, il ministero presieduto dal’ marchese Ridolfi, ebbe ancora facile il compito, inquantochè gli oppositori non esistevano o se esiste vano, si tenevano celati.

Ma quando si fu fatti un po’ a quel nuovo ordine di cose, e che la subitanea gioja e l’entusiasmo dei primi istanti furono svaniti, quelli che vogliono sempre il più e che sono dichiarati nemici del bene, colla pretesa di conseguire il meglio, saltarono fuora da ogni parte e si misero a cacciar bastoni nella ruota della macchina politica guidata dal Ridolfi. E questi, che non erasi aspettato a quella manovra, e allo strepito villano degli schiamazzatori di piazza, invece di tenere [p. 894 modifica]più salde che mai, e più corte in mano le redini del Go verno, sgomentatosi se le lasciò strappare di pugno dai guerrazziani, ii quali ne fecero quell’uso che ognun sa.

Molti hanno attribuito grave colpa al Ridolfi quella sua mollezza nel reggere lo Stato, e quella sua facilità nel cedere d’innanzi ai clamori del trivio.

Vi sono due supposizioni da fare:: o che egli ha mancato per deficienza di carattere, oppure per mancanza di vigore del partito stesso, al quale il Ridolfi apparteneva . Noi crediamo piuttosto vera quest’ultima ipotesi che non la prima, quantunque siamo disposti ad ammettere che un uomo veramente risoluto, e d’altronde autorevole come era il Ridolfi, sia in grado di trascinare a ogni patto seco il partito nel quale si è posto. Per ciò che riguarda poi l’indole propria del partito moderato al quale il Ridolfi apparteneva, non è, crediamo noi, inopportuno di cogliere quest’occasione, per spendervi intorno due parole.

Vi sono sempre nella vita umana tre modi distinti di progredimento. Vi è quello che spinge all’impazzata innanzi; vi è quello che respinge quasi con pari foga all’indietro; vi è quello infine, che sta in mezzo ai due mettendo o tentando mettere un certo accordo fra questi due motori in senso inverso, motore egli stesso, o piuttosto moderatore delle due opposte forze.

Le tre evidentemente sono necessarie, ma quella che è più spesso incaricata di far l’ufficio di condurre le cose di questo mondo è senza fallo quella di mezzo. Non è che nei tempi anormali e di crisi, in un senso e nell’altro, che le due estreme tolgono in pugno il timone; ma questo nella via ordinaria resta quasi che sempre affidato alla forza centrale: la moderata.

In politica, il partito moderato, come ognun vede, è certamente quello che deve, a lungo andare, padroneggiare sempre la situazione; ma non si può esiger da lui quella forza, quell’ardimento, quello spirito d’iniziativa che non costituiscono in verun modo le le sue essenziali qualità. Quindi è che non gli si deve chiedere ciò che non può dare, quindi è che agli uomini di esso partito non si può rimproverare, se non agiscono altrimenti da quello che fanno.

[p. 895 modifica]Ci si potrà citare il conte di Cavour, novatore arditissimo egli, e pure appartenente al partito moderato; ma i geni son geni, ed escono dalla sfera assegnata alla grande maggioranza della mediocrità; quindi non contano altrimenti che come eccezioni, le quali valgono, come ognun sa, a confermare viemmeglio la regola.

Se noi uomini volessimo più spesso guardar ben in fondo alle cose, ci accorgeremmo che quello che ci parve danno, e fu danno anche in effetto durante un certo periodo di tempo, si converte poi in un bene, quale non si sarebbe certo ottenuto nè sperato per lo innanzi.

E valga il vero. Quando si pensi che se il Ridolfi avesse tenuto fermo e fosse riuscito a mettere a dovere i guerrazziani, tanto che il Granduca non avesse avuto occasione di fuggirsene a Gaeta, e colà di gettare giù la maschera chiamando i Tedeschi e dandosi a conoscere tedesco quant’essi, Leopoldo II regnerebbe forse anche oggidì sulla Toscana, e l’unità d’Italia non esisterebbe. Con ciò non vogliamo approvare il modo in cui si comportò in quell’occasione il Ridolfi, ma vogliamo solo scusarlo, se non riusci a far meglio di quel che facesse.

La vita del nostro protagonista, dal momento in cui egli si ritirò dai pubblici affari, fu sempre piena di una attività delle più profittevoli a sè e ad altrui, nè dimenticava con ciò di aspirare al rinnovamento politico d’Italia, e da conservare insieme agli altri suoi distinti concittadini, di cui abbiamo già in questo libro avuto occasione di parlare, il fuoco sacro dell’amor patrio operante. E quando la rivoluzione incruenta del 1859 venne a rendere alla Toscana la sua forza autonoma, il Ridolfi fu di quelli che presero parte non solo nel guidare il moto, ma anche poscia nell’assistere a cavarne quel costrutto che tornasse meglio a profitto d’Italia.

Il Governo del Re assunse il Ridolfi alla dignità senatoriale; sebbene ci dolga di dover esprimere il rammarico, che l’onorevole marchese, non prenda parte così attiva ai lavori di quella illustre assemblea, quale i suoi antecedenti, la sua autorità e il suo ingegno, infallantemente, gli assegnerebbero.