Il Leone di Damasco/XIII. Sebastiano Veniero

XIII. Sebastiano Veniero

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XII. La rada di Capso XIV. Sulla galera del Pascià

XIII.

Sebastiano Veniero


Sebastiano Veniero, che doveva più tardi immortalarsi nella famosa battaglia di Lepanto, era il più audace ammiraglio che avessero i veneziani. Da giovanissimo, come usavano allora i figli dei patrizi veneziani, si era dato corpo ed anima al mare, intraprendendo lunghissimi viaggi, specialmente nell’oriente barbaro, dove vi era quasi sempre la possibilità che qualche squadriglia di galere turche accorressero all’abbordaggio.

Scoppiata la guerra col turco, il forte marinaio, innalzato alla carica di grande ammiraglio, malgrado contasse allora ben settantadue anni, vi aveva presa una parte importantissima, accorrendo alla difesa di Cipro.

Con poche navi, e non di certo nuove, quell’uomo ammirabile aveva compiuto dei prodigi, e molti di più ne avrebbe conseguiti, se il suo compagno, l’ammiraglio Angelo Zane, lo avesse appoggiato colle sue navi, mentre svernava tranquillamente nella baia dell’Arcipelago.

Prima di essere stato mandato a combattere i turchi, era stato mandato a Brescia, come capitano generale, guadagnandosi il titolo di Savio, poi a Udine, coi delegati della Repubblica, a trattare coi rappresentanti di Ferdinando I, per risolvere le gravi controversie esistenti fra i confini della Serenissima e di casa d’Austria, mostrandosi ammirabile diplomatico.

Era però uomo troppo d’azione per accontentarsi delle questioni dove solo la lingua aveva ragione. Aveva provato i turchi in parecchi scontri, ed aveva giurato contro quei barbari un odio implacabile.

La potenza ottomana già verso la metà del 1500 si era minacciosamente ingrandita, e non rispettava più né trattati, né convenzioni: «avanti colle nostre scimitarre e colle nostre galere», era il grido che usciva da milioni di petti di fanatici, sempre pronti a morire per Maometto.

L’Europa, quantunque spaventata, nulla aveva fatto per fiaccare fino da principio lo smisurato orgoglio di quegli orientali, che più tardi doveva naufragare, senza alcuna gloria, a Lepanto.

Solo Venezia aveva colonie e grossi interessi in Oriente; ben poco fecero i genovesi e gli spagnoli, i quali miravano, segretamente, alla distruzione della Serenissima, diventata assai potente allora.

Sulla fine del 1569 giunge a Costantinopoli, esagerata, la notizia che l’arsenale di Venezia ha preso fuoco e che la flotta è distrutta. Era allora Sultano Selim, un gran bevitore di vino di Cipro, che nulla aveva delle grandi energie di Maometto II.

Credendo che quell’incendio avesse fiaccato d’un colpo la potenza marinaresca della Regina dell’Adriatico, come un malfattore che domanda la borsa o la vita, intima brutalmente la guerra, e lancia trecento galere verso Cipro, montate da centomila uomini. Venezia, quantunque avesse in quell’epoca una flotta assai scarsa, abituata a lottare coi turchi, accetta la sfida anche se le manca l’appoggio degli stati cristiani, e manda le sue galere nelle acque del Mediterraneo orientale, al comando del Zane e del Veniero, il quale era nominato capitano generale di quella disgraziata isola, ma troppo tardi ormai per salvarla.

Nonostante i suoi anni, lanciato nella grande impresa guerresca, Veniero agisce come un giovane ammiraglio. Espugna audacemente il castello di Sopotò di Corfù, tenuto fortemente dai turchi, per agguerrire i suoi equipaggi, montando lui stesso all’assalto in pantofole, avendo riportata, in un combattimento navale colle navi di Ali Bascià, una grave ferita che non voleva rimarginarsi. Incoraggiato dal successo, il vecchio guerriero tenta l’espugnazione del castello di Margariti, poi attacca furiosamente la fortezza di Moina, situata sulla punta meridionale della Morea, e veleggia verso Cipro, pur sapendo che i mussulmani hanno radunata una squadra strapotente.

Disgraziatamente vi giungeva troppo tardi. Nicosia era stata espugnata dai turchi, e la sua popolazione era stata passata quasi tutta a filo di spada, e Famagosta aveva ormai intorno centomila giannizzeri.

Già la testa di Nicolò Dandolo era stata gettata dentro i bastioni della città assediata, come un terribile ammonimento ai capitani veneziani che non volevano arrendersi. Sebastiano Veniero, quantunque non appoggiato per nulla dallo Zane, tenta la spedizione di Cipro, ma la grave piaga alla gamba lo costringe a fermarsi a Candia per curarsi. Non aveva perduto però il suo tempo, ma da buon ammiraglio, aveva agguerriti con cura i suoi scarsi equipaggi, per prepararli all’urto supremo col mussulmano.

Frattanto Venezia, spaventata da quello scatenarsi della potenza turca, che minacciava di strapparle tutte le colonie che possedeva in Oriente, si era rivolta a Pio V affinché decidesse gli stati cristiani, in difesa della fede, a soccorrerla colle loro flotte.

Il Papa non era rimasto sordo al grido d’aiuto della Serenissima, ed aveva potuto indurre il re di Spagna, Filippo II, a mandare in Italia una forte squadra al comando di Giannandrea Doria, mentre metteva a disposizione della Repubblica le sue galere romane, guidate da Marcantonio Colonna.

Ma la Spagna non aveva nessun interesse ad aiutare efficacemente Venezia, che le aveva date tante noie in terra, sui piani lombardi, sicché le squadre, dopo una lunga attesa, avevano fatto finalmente vela per Suda, nell’isola di Candia, dove l’animoso Veniero le aspettava ansiosamente per piombare sulle squadre del feroce Bascià.

Fu una pura comparsa, giacché nessuno degli alleati aveva voglia, allora, di provare il filo delle scimitarre ottomane, non reputandosi ancora abbastanza forti, ed apprendendo che ormai Cipro era invasa, e che Famagosta stava per cadere, se ne stettero tranquilli a svernare in quella comoda baia.

Sebastiano Veniero però, malgrado la sua ferita, malgrado le irresolutezze dello Zane, non era rimasto inoperoso, e all’abbandono delle due squadre guidate dai veneziani Canal e Quirini, ritiratesi dinanzi alle galere del Bascià, già veleggianti verso Candia, concepisce un arduo disegno: quello di tagliare la strada del ritorno alla flotta avversaria. Voleva tentare anche di accorrere in aiuto di Famagosta, ormai ridotta agli estremi, ma lasciato solo dagli alleati, torna in Italia, sfuggendo alle galere del Bascià che s’apprestavano alla conquista di Cipro, in attesa di tempi migliori e di maggiori rinforzi.

Quando il Leone di Damasco ed i suoi compagni salirono sulla capitana, il vecchio ammiraglio era ancora desto e stava discutendo col giovanissimo, ma già valorosissimo nipote Lorenzo, di cui intendeva fare un gran capitano.

Stava seduto sull’ampio cassero, difeso dal telone, tenendo la sua gamba, sempre ferita, su una sedia. Vedendo Domoko e Nikola, che già in altre occasioni aveva conosciuti, apprezzando il loro patriottismo per la Serenissima, e l’intenso odio contro i turchi, aveva fatto cenno d’alzarsi, ma il Leone di Damasco fu pronto a farsi innanzi ed impedirgli di muoversi.

— No, signor ammiraglio — aveva detto il prode ex turco, che godeva ormai una immensa popolarità anche in Italia. — Voi non dovete alzarvi per salutare Muley-el-Kadel.

— Il Leone di Damasco!... — aveva esclamato l’ammiraglio, guardandolo con vivo interesse. — Il vostro nome è troppo noto a Venezia perché ogni buon veneziano non lo ricordi. Venite da Candia?

— Sì, ammiraglio.

— Come vanno le cose laggiù? Che anche quella disgraziata città finisca come la infelicissima Famagosta?

— Si resiste, si combatte giorno e notte e si muore per la gloria del Leone di San Marco, col nome di Gesù sulle labbra.

— La sua caduta non è imminente?

— No, i turchi avranno ancora molto da fare per stringere l’assedio.

— Se voi, Muley, avete osato uscire dalla città per raggiungermi, vi deve aver spinto qualche grave motivo.

— Il Bascià mi ha rapito mio figlio dal palazzo Loredan, sul Canal Grande.

— Ah!... Canaglia!... — gridò il vecchio ammiraglio. — Che cosa vuol farne? Un piccolo mussulmano? Voi avete abbandonata la Mezzaluna, e quel brigante ha pensato subito di dare un altro seguace al Profeta.

— Sarà stata Haradja a organizzare tutto — disse il Leone di Damasco.

— La castellana d’Hussiff?

— Sì, ammiraglio.

— È vera nipote del Bascià, ma non cada fra le mie mani: benché donna, non la risparmierei. Dove si trova vostro figlio: sulla capitana?

— Sì — disse Nikola. — È guardato in una cabina del quadro.

— Maltrattato?

— No, finora. Ho lasciato la capitana tre giorni fa, ed ho potuto vederlo.

— Tu eri marinaio del Bascià, se non m’inganno.

— Sì, ammiraglio — rispose il greco.

— Ecco un uomo prezioso — mormorò Sebastiano Veniero. — Quante galere ha il Bascià?

— Duecento, signore. E tutte in ottimo stato e formidabilmente armate.

L’ammiraglio fece un gesto di scoraggiamento, ma subito l’ammirabile energia gli ritornò.

— Chissà... — disse, come parlando fra sé. — Una sorpresa può sempre avvenire.

Guardò in viso Muley-el-Kadel, dicendogli:

— Non sarà facile strappare vostro figlio al Bascià, tuttavia voi avete resi a Venezia troppi servigi perché io non cerchi di aiutarvi.

— Ero venuto anche per un altro scopo.

— Dite, Muley.

— Mio padre, il Pascià di Damasco, è stato fatto prigioniero da Haradja, coll’aiuto di una parte delle galere del Bascià, torturato e poi rinchiuso nei sotterranei del castello d’Hussiff.

— Del castello maledetto che io cento volte, se ne avessi potuto avere i mezzi, avrei già distrutto!...

— Sì, ammiraglio.

— Lo abita la nipote del Bascià?

— No, perché è a bordo della capitana di Ali, ferita da una stoccata che le ha dato dinanzi ai bastioni di Candia mia moglie, Capitan Tempesta...

— La duchessa, vostra moglie, è la prima lama della cristianità — disse l’ammiraglio. — Ha scavalcato anche voi, è vero Muley e sotto le mura di Famagosta?

— Io non ho mai rimpianto quella ferita e quella terribile umiliazione, perché senza di quelle sarei ancora turco.

— È vero — disse l’ammiraglio. — Si dice però che voi siate sempre il più famoso spadaccino che avesse l’armata ottomana.

— Lo ero prima dell’incontro con mia moglie. Ora la duchessa può battere anche me.

— Cavalleria.

— No, ammiraglio, mia moglie, come avete ben detto poco fa, è la più tremenda lama della cristianità.

Sebastiano Veniero calzò la sua pantofola, fabbricatagli appositamente, non potendo reggere il peso dei gambali d’acciaio, e con uno sforzo si alzò.

— Non è con le chiacchiere che si vincono le battaglie, ed il Senato veneziano l’ha capito, ma quando era troppo tardi.

Girò intorno alla sedia senza l’aiuto di alcuno, poi fermandosi dinanzi a Muley-el-Kadel gli chiese:

— Il padre od il figlio prima?

— Il figlio — rispose il Leone di Damasco.

— Ah!... Se potessi attirare in un agguato quel dannato Bascià con poche galere!...

— E perché no, ammiraglio — disse Nikola. — Si manda a quella canaglia una lettera perché venga subito qui a ricevere ordini da parte del Sultano. Sarebbe necessario però avere un sigillo dei sultani.

— Ne ho due che mi sono stati regalati dal conte Mocenigo — rispose l’ammiraglio. — Li aveva presi su una galera ottomana del seraschierato durante la sua ardita crociera in vista di Costantinopoli. Ah!... Quello era un grande marinaio. Se Venezia ne avesse avuti due, le squadre di Ali Bascià sarebbero a quest’ora in fondo al Mediterraneo. Ma tutto non è finito. La nostra volta verrà, e sarà allora la distruzione della potenza ottomana. Tu dunque dicevi, Nikola, di scrivere una lettera all’ammiraglio turco. Hum, è troppo furbo per cadere nell’agguato, tuttavia si può tentare, purché si possa trovare l’uomo che porti la lettera.

— Sarò io, signor ammiraglio — disse Mico. — Il Bascià non mi ha mai veduto, e posso passare per un turco più o meno finito.

— Io ammiro il tuo coraggio, — disse Veniero — però devo avvertirti che i turchi non risparmiano, e che potresti finire strozzato come Lorenzo Tiepolo, che pure aveva settantanni; o tagliato a pezzi come Astorre Baglione, o privato della tua pelle, a colpi di rasoio, come Marcantonio Bragadino.

— Conosco la ferocia di quelle canaglie, — rispose l’albanese — eppure vi assicuro, signor ammiraglio, che io porterò la lettera se qualcuno mi terrà compagnia nel canotto che metterete a mia disposizione.

— Se tu mi sbarchi prima di giungere sotto la squadra del Bascià, ti accompagno io — disse il greco.

— Accettato, amico — rispose l’intrepido albanese. — Signor ammiraglio, non aspetto che la lettera ed una scialuppa armata a vela.

— È presto fatto — disse Sebastiano Veniero. — Conosco benissimo il turco e lo scrivo correntemente. Speriamo che il Bascià, almeno una volta, metta da parte la sua eccessiva prudenza e venga all’appuntamento.

Sorretto da suo nipote, discese nel quadro, che era ancora illuminato, mentre i marinai, già avvertiti, mettevano in acqua il loro migliore e più rapido canotto, armandolo rapidamente con una piccola vela latina ed un flocco invece piuttosto largo.

Il Leone di Damasco intanto si era avvicinato a Mico, in preda ad una visibile emozione, dicendogli:

— Potresti?

— V’intendo, padrone. Voi vorreste che io cercassi di rapire ad Haradja vostro figlio.

— E la tua fortuna sarà fatta.

— No, padrone, non voglio fortune. Mi affidate però un’impresa che credo superiore alla mie forze. Tuttavia vi prometto che se posso tentare il colpo, lo eseguirò senza guardarmi alle spalle.

L’ammiraglio era tornato sul cassero tenendo in mano una lettera che portava dei grossi sigilli.

— Ecco pel Bascià — disse, porgendola all’albanese. — Se ti domanda che cosa contiene, rispondi solo che sono notizie del Sultano. Non verrà, però qualche volta una imprudenza si può commettere, ed Ali non è Maometto. Non avrai paura?

— No, signor ammiraglio — rispose il coraggioso albanese. — Se il canotto è pronto io parto, purché Nikola mi accompagni.

— Eccomi — rispose il greco. — Io solo so come si trova ordinata la squadra del Bascià nella rada di Candia. Se avessi un fuoco greco potrei incendiare la capitana senza ingannarmi.

— E mio figlio!... — gridò il Leone di Damasco.

— Avete ragione, signore. C’è il fanciullo che impedirà molte audaci imprese.

— Vuoi, Nikola, che io m’imbarchi con te? — chiese Muley-el-Kadel.

— No — disse l’ammiraglio. — I turchi sarebbero troppo felici di strapparvi di dosso la pelle. Lasciate agire i nostri uomini, giacché non hanno paura della morte.

— Il canotto — chiese Mico.

— È pronto — rispose un ufficiale. — Non avete che da imbarcarvi.

— Andiamo, Nikola.

— Una parola ancora — disse l’ammiraglio. — Io suppongo che voi non impiegherete meno di dodici ore a giungere nella baia di Candia, quantunque il vento sia favorevolissimo per una corsa verso oriente. Cercate di giungervi verso sera, così se il Bascià cadrà nella rete, non gli lasceremo il tempo di vedere se ha a che fare con turchi o con veneziani. Ed ora andate, miei bravi, e che San Marco vi protegga.

Il greco e l’albanese attraversarono la galera guidati da due giovani ufficiali, e con una scala di corda si lasciarono calare nell’imbarcazione che alcuni marinai tenevano ferma, essendo il vento piuttosto vivo.

Era una di quelle scialuppe che i veneziani chiamavano caicci, corti e larghi, ma buoni velieri se guidati da un abile timoniere.

— Lasciateci il posto — disse il greco ai marinai. — Ora ci pensiamo noi.

— Buon viaggio, signori — risposero i veneziani, risalendo prestamente sulla galera.

— A me il timone, a te le vele — disse il greco a Mico. — Tutti gli albanesi fanno una buona pratica sul lago di Scutari.

— E ben pochi montanari l’hanno percorso come me, camerata — rispose il fedele servo di Muley-el-Kadel. — Potrei passare subito gabbiere di prima classe.

La corda fu ritirata insieme ai parabordi, ed il caiccio si mise al vento, allontanandosi velocemente verso oriente. La notte era bellissima, quantunque non ci fosse luna, ed il Mediterraneo era appena mosso.

La brezza soffiava regolare ed abbastanza forte da ponente, scaraventando solo di tratto in tratto qualche ondata contro la costa, dove si rompeva con una lunga serie di detonazioni che parevano cannonate.

— Giungeremo a Candia senza faticare — disse il greco a Mico, che stringeva la scotta del largo flocco.

— E va bene, ma ora intendiamoci, amico — disse l’albanese. — Dove dovrò sbarcarti?

— A due miglia dalla città vi è un gruppo di scogliere che ha delle caverne marine abitabili. Mi lascerai là.

— Ed io proseguirò con la scialuppa fino alla capitana del Bascià.

— La costa non si presta in quel luogo per una marcia a piedi, e poi potresti cadere sotto qualche archibugiata dei volteggiatori arabi, senza avere il tempo di mostrare la lettera del Sultano.

— Potrò poi raccoglierti?

— Farai il possibile. Non preoccuparti, d’altronde, per me. Conosco l’isola e tutti i suoi nascondigli, e avranno da fare i turchi se vorranno scoprirmi.

— Che il Bascià cada nella rete?

— Chi lo sa? È sempre stato diffidente, però io credo che dinanzi ad una lettera del Sultano non frapporrà indugio a salpare le ancore.

— Ah!... Se potessi strappargli prima il piccino del mio padrone!

— Sarebbe un tentativo assolutamente inutile, che potrebbe costarti la vita e null’altro. È troppo sorvegliato.

— Nel cassero?

— Sì, nel cassero.

— Bah, si vedrà — disse l’albanese, che pareva deciso a tentare un colpo di testa.

— Guardati soprattutto da Haradja.

— So quanto vale quella terribile donna.

— Non ti conosce?

— No.

— E tu?

— L’ho veduta battersi colla mia padrona, ed ho potuto osservarla bene. È uno di quei tipi che difficilmente si scordano.

— E nessuno può negare che la nipote del Bascià sia una bellissima donna — disse il greco.

— Oh, no!... — disse l’albanese. — Io però non la sposerei, ed il mio padrone ha fatto bene a piantarla per tempo.

— Chissà a quest’ora se sarebbe ancora vivo. Nelle vene di Haradja scorre un sangue perfido, che pare che non domandi che delle stragi. Allarga la trinchettina e raccogli invece un po’ la latina.

Il vento andava acquistando molta violenza, e sollevava delle grosse ondate, le quali si spezzavano intorno alla scialuppa con un fracasso infernale. Delle luci strane correvano sotto le acque del Mediterraneo.

Le meduse dovevano trovarsi raccolte in gran numero a due o tre metri di profondità, e sprigionavano i loro lampi simili a quelli che proietta una lampada elettrica. Nikola osservò attentamente la costa che si profilava a qualche miglio di distanza, piuttosto bassa e priva di scogliere, poi si risedette al timone dicendo:

— Tutto andrà bene.

Alle quattro del mattino il sole li sorprese dinanzi ad una minuscola rada deserta, che si allargava molto entro la terra. Un tempo doveva essere stata forse una importante stazione di pescatori, ma i turchi avevano distrutto non solo le barche e le reti, bensì anche gli equipaggi.

E la strage doveva essere stata commessa di recente, poiché attraverso alle acque calme e limpide della rada, Nikola e l’albanese scorsero due uomini completamente nudi, legati intorno ad un’ancora grossa di galera.

— Quante infamie!... — disse il greco, mentre un’ondata di sangue gli saliva in viso. — E morti, e sempre morti!... Il cane mussulmano non è mai sazio di carne cristiana.

Quantunque nei dintorni non avessero scorto né volteggiatori, né giannizzeri, e verso il mare nessuna scialuppa, per precauzione abbassarono le vele e affondarono l’ancorotto accendendo subito le micce degli archibugi. A pochi passi dalla sponda sorgeva una vecchia catapecchia, già mezza arsa, la quale poteva, in caso di pericolo, servire di rifugio.

— Se vengono li riceveremo come alla fattoria di Domoko — disse l’albanese.

Scesero sulla spiaggia, si prepararono la colazione, avendoli l’ammiraglio ben provvisti di viveri, poi si stesero fra le dune di sabbia, in attesa che il sole tramontasse. Quantunque fossero ben lontani da Candia, udivano, di quando in quando, i colpi delle bombarde mussulmane, piazzate intorno alla città assediata.

Il rombo delle colubrine veneziane non giungeva che a lunghi intervalli, e quasi indistinto. Due volte il greco e l’albanese, completamente rassicurati, si prepararono il pranzo dentro la catapecchia, affinché i volteggiatori turchi non potessero scorgere il fumo, poi quando il sole parve annegarsi nel mare, rosso come una lastra di rame incandescente, tornarono a spiegare le vele.

Le stelle cominciavano a fiorire a miriadi in cielo, e le meduse, quasi fossero invidiose, lanciavano attraverso le oscure acque i loro bagliori più vibranti che mai. Anche l’onda larga del Mediterraneo non si rompeva più contro la costa dell’isola, quantunque soffiasse un buon vento da maestro.

— Fra due ore, e forse prima, — disse Nikola — noi saremo a Candia. Ti batte il cuore?

— No, affatto — rispose l’albanese, alzando le spalle.

— Eppure la tua impresa spaventerebbe qualunque audace.

— Parlo il turco correntemente, prego come un muezzin, chi può credermi un cristiano con una lettera del Sultano? Tu sai che se ne trovano dei miei compatrioti a Costantinopoli.

— E anche dentro gli harem — rispose Nikola. — Siete dei preferiti, credendovi mussulmani più che convinti.

— No, l’Albania non è ancora tutta turca — rispose Mico. — Vengano ad assalirci fra le nostre montagne, e vedremo se la Mezzaluna mostrerà sui nostri picchi i suoi colori.

— Là!... Dei lumi!...

— I fanà della squadra del Bascià?

— Certo — rispose Nikola, il quale si era alzato per osservare nuovamente la costa.

— E il tuo rifugio? — chiese Mico, preparandosi a calare la vela latina.

— Aspetta ancora.

Il caiccio continuò la sua corsa velocissima per tre o quattro miglia, poi il greco lo spinse verso la costa dove si vedevano ergersi degli scogli. Pareva che nascondessero qualche profonda insenatura, poiché al di là si udiva la risacca rumoreggiare fortemente.

— Ecco il mio rifugio — disse Nikola. — Lassù vi sono delle caverne che erano servite ancora d’asilo ai cristiani perseguitati dalle scimitarre turche. Non dista che un paio di miglia dalla rada di Candia, e non si trovano altre scogliere simili sulla costa. Saprai venirmi a riprendere?

— Non mi sbaglierò, camerata — rispose l’albanese. — Appena consegnata la lettera, se il Bascià non mi avrà fatto impiccare, ti prometto di affondare qui l’ancorotto.

— Per l’ultima volta: non tentare di rapire il figlio del Leone di Damasco. Moriresti nell’impresa senza essere stato utile a nessuno. Penseremo noi a strapparlo dalle unghie della tigre d’Hussiff.

Prese un pacco contenente dei viveri, si gettò sulle spalle il pesante archibugio, e dopo essersi ben assicurato d’aver nella fascia l’yatagan, balzò sulla spiaggia.

— Parti subito — disse all’albanese. — Le spie non mancano anche a Candia dopo la venuta di quei cani di mussulmani.

— Buona notte, Nikola, e che Dio ce la mandi buona ad entrambi.

L’albanese, con un colpo di remo, allontanò la scialuppa, la rimise sul filo del vento, e si allontanò velocissimo, scomparendo ben presto fra le tenebre. Il greco lo seguì cogli sguardi finché potè, poi si mise a salire la scogliera per raggiungere una caverna a lui ben nota. Essendo i pendii poco ripidi, in pochi minuti si trovò ad un’altezza di più di cinquanta metri. Vagò per un po’ fra le rocce, poi si fermò davanti ad un largo ed oscuro squarcio.

— Ecco la mia camera — disse. — E la scialuppa?

Si era voltato a guardare il mare, ma il caiccio, come abbiamo detto, era scomparso.

— Terribile impresa — disse. — Ha del buon sangue quell’albanese.

Ad un tratto, appena pronunciate quelle parole, il disgraziato si sentì afferrare fortemente per le spalle, mentre due voci rauche urlavano:

— Ah!... Cane d’un cristiano!...

L’attacco era stato così improvviso, che il greco non aveva avuto il tempo di togliersi l’archibugio, per servirsene come una clava, poiché la miccia era spenta, né d’impugnare l’yatagan.

Due uomini, due marinai della flotta del Bascià, erano usciti dalla caverna e l’avevano sorpreso, riducendolo, quasi subito, all’impotenza.

— Che cosa facevi qui, cane lurido? — chiese il più anziano dei due turchi, un uomo barbuto e d’aspetto ferocissimo.

L’avevano disarmato e preso per le braccia, scuotendolo ruvidamente.

— Io non sono affatto un cristiano — rispose prontamente Nikola. — Come vedete, parlo il turco al pari di voi.

— Sì, tutti dicono così, per salvare la pelle — riprese l’uomo barbuto ghignando. — Non saremo però noi a crederti.

— Ho servito il Bascià fino a pochi giorni fa — disse Nikola. — Ero uno dei mastri della capitana.

I due turchi, che impugnavano due luccicanti ed affilati yatagan, e che avevano le fasce piene di pistoloni, proruppero in una grande risata.

— Brutto porco!... — urlò l’uomo barbuto. — Cerchi d’ingannarci? Noi non siamo uomini da lasciare la preda, una volta sorpresa. È vero, Kitab?

— Certamente — rispose il secondo marinaio. — I cristiani sono prede fini, e poi valgono uno zecchino.

— Che cosa volete da me? — chiese il greco, che non cercava nemmeno di dibattersi.

— Che cosa vogliamo!... — gridò l’uomo barbuto. — Ah!... Ah!... Hai mai trovati di questi stupidi, Kitab?

— Io no.

— E nemmeno io. Signor mastro del Bascià, fate il piacere di regalarci la vostra pelle. Le teste candiote si pagano uno zecchino ciascuna, e con uno zecchino, un povero marinaio ha da bere vino di Cipro tutta la settimana, come il nostro Sultano.

— E dov’è che si pagano? — chiese Nikola, ironicamente.

— A bordo della capitana.

— Così quando il Bascià vedrà la mia testa, e la riconoscerà, vi farà impalare.

— Adagio, marinaio d’acqua dolce, che non ha mai montato in vita sua su una galera. Vedremo se la testa che gli porteremo giungerà in così buono stato. Orsù, lurido cristiano, ci hai giocati abbastanza, ed è tempo che ti prepari a morire. È vero, Kitab?

— Per la barba del Profeta!... Io non voglio perdere il mio zecchino.

— Come lo accomodiamo?

— Canaglie!... — gridò il greco, tentando, con uno sforzo supremo, di svincolarsi.

— Un’idea — disse Kitab. — Io non ho mai veduto una zucca cristiana scoppiare.

— E così? — chiese il marinaio barbuto, con un po’ d’inquietudine.

— Gli mettiamo in mano un paio delle nostre pistole, e lo costringiamo a sopprimersi. La testa sarà sempre cristiana, ma con due colpi a bruciapelo il viso diventerà irriconoscibile. Se non obbedisce, lo bucheremo coi nostri yatagan.

— No, Kitab, lo leghiamo all’ancorotto della nostra scialuppa e lo caliamo dolcemente in mare. Vedrai come i granchiolini ridurranno quella testa.

— Tu ragioni come un gatto d’Angora — disse Kitab. — Il Bascià potrebbe dire che noi abbiamo pescato un morto qualunque, annegato per caso. Ed allora, addio zecchino.

— Parli come Maometto — disse il marinaio barbuto. — Ed allora vediamo come scoppiano le teste dei cristiani. Credi tu che rimangano intere?

— Ne sono più che convinto.

— Anche colle nostre pistolone? Vuoi scommettere lo zecchino?

— Accettato — disse Kitab.

— Ed allora accendiamo le micce.

Lasciarono in libertà il greco, il quale d’altronde, trovandosi presso la cima della scogliera, non avrebbe potuto facilmente fuggire, e prepararono le loro armi, tranquilli, come se si trattasse di mandare all’altro mondo un cane qualunque.

— Che cosa devo fare? — chiese Nikola, quando vide le micce fumare.

— Farti saltare le cervella — disse il marinaio barbuto. — Abbiamo impegnata una scommessa sulla tua testa, e né io, né il mio compagno, vogliamo perderla. Chiudi gli occhi e premi i grilletti.

— Date: ormai sono un uomo morto.

I due furfanti gli presentarono le due pistole per la canna, poi dissero: — Fa’ saltare, cocomero cristiano.

Due spari, seguiti da due urla, avevano tenuto dietro a quelle parole. Nikola aveva impugnate le grosse pistole, ma invece di puntarsele alle tempia, per soddisfare quei manigoldi, spiccati tre passi indietro, aveva fatto fuoco gridando:

— Sarò io, imbecilli, che vedrò scoppiare i meloni turchi.

Aveva mantenuta la parola. I due mussulmani, colpiti in piena fronte, erano stramazzati dinanzi alla caverna, perdendo torrenti di sangue e di sostanza cerebrale.

— Le uri vi aspettano: passate!... — disse il greco, con voce terribile.

Afferrò i due cadaveri, li spogliò delle armi e delle munizioni, poi li fece ruzzolare giù dall’alta scogliera. Si udirono due tonfi, poi più nulla. I turchi erano già fra le uri.