Il Leone di Damasco/XII. La rada di Capso
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XII.
La rada di Capso
I turchi, vedendo il Leone di Damasco, avevano dato indietro, presi da un subitaneo senso di ammirazione per quel forte guerriero che era appartenuto alla loro razza. Anche le altre due zare si erano scoperchiate, e l’albanese ed il greco erano saltati fuori, sempre pronti a menar le mani contro l’odiato nemico.
Il kaymakan sembrava istupidito, e non aveva voce per dare ordini ai suoi uomini, i quali guardavano, con un po’ di spavento, quei sei uomini ed i due mastini che urlavano ferocemente in fondo alla sala, pronti a slanciarsi.
— Che cosa vuoi dunque dal Leone di Damasco? — chiese il rinnegato turco, avanzandosi colla spada tesa.
— Tu sei il Leone di Damasco!... — esclamò finalmente il kaymakan, facendo un passo indietro e coprendosi tutto con un rapido mulinello della sua pesante scimitarra. — Il Bascià ha promesso cinquemila zecchini per la tua cattura, e quantunque io abbia sempre una grande stima di te, non ti lascerò.
— Eccomi, prendimi — rispose il damaschino.
— Sotto, cavalleggieri!... — urlò il kaymakan. — È una preda che vale oro colato.
Con suo stupore vide i suoi uomini, addossati alla tavola, niente affatto decisi ad affrontare un uomo che godeva una così grande fama di guerriero.
— Ah!... Vili... — urlò. — Vi farò impalare tutti dal Bascià. Chi è questo Leone di Damasco? Un uomo che ha rinnegata la sua religione e che ora, di mia mano, punirò.
— Tu!... — disse Muley-el-Kadel, con disprezzo. — Ci vogliono altre lame per affrontare la mia. Non sei nemmeno un allievo di Metiub.
Il turco, esaltato dal troppo vino bevuto, si cacciò coraggiosamente avanti, menando terribili colpi di scimitarra ed urlando:
— Ah!... Non sono un allievo di Metiub!... Ti farò vedere, ora, figlio d’un pascià, diventato un lurido cristiano, che basto io solo per atterrarti.
— Senza che nessuno ti aiuti?
— Sono abbastanza forte per tagliarti la testa con un gran colpo di scimitarra.
— Tu non sei altro che un buffone, — gli gridò in viso il Leone di Damasco.
I cavalleggieri avevano rotto in una fragorosa risata. Il kaymakan, doppiamente furioso di essere dileggiato anche dai suoi uomini, si avventò sul Leone di Damasco, tirando colpi all’impazzata.
Muley-el-Kadel, che non voleva provocare un urto della pesante scimitarra colla propria spada, troppo leggera, balzava a destra ed a sinistra come una giovane tigre, aspettando il momento opportuno per vibrare il colpo mortale.
Il kaymakan, credendo che avesse paura, si spingeva stupidamente sotto, tagliando solamente l’aria e minacciando di spaccare le zare. Perfino i cavalleggieri ridevano, aumentando la sua rabbia. Muley-el-Kadel giuocava il suo uomo, senza però commettere imprudenze. Aspettava la buona occasione per far penetrare la salda punta della sua spada in qualche arteria della corazza.
Il kaymakan, che non faceva troppo bella figura di fronte ai suoi uomini, di quando in quando scattava, assaltando il Leone con grande coraggio. Non era uno spadaccino, tuttavia con quella pesante scimitarra era un avversario sempre temibile.
I cavalleggieri, i candioti, l’albanese e Nikola assistevano a quel drammatico duello senza intervenire, non avendo questi ultimi che una cura sola: quella di trattenere i cani, sempre pronti a slanciarsi.
La lotta durava da un paio di minuti, ed una grossa zara era andata a pezzi con grande fracasso sotto un terribile colpo di scimitarra, quando si vide il Leone di Damasco slanciarsi urlando:
— Sei morto!...
La sua lama era scomparsa sotto la gorgiera del kaymakan, affondandosi nella gola. Il turco, che non aveva l’elmo, fissò sul suo avversario due occhi pieni d’odio, poi le forze gli vennero improvvisamente meno e rovinò al suolo con gran fragore, lasciando andare la scimitarra che non aveva saputo difenderlo.
I cavalleggieri, vedendo il loro capo cadere, invece d’impegnare risolutamente la lotta, fuggirono a rompicollo, perseguitati dai mastini, i quali tentavano di mordere loro le gambe, difese fortunatamente dalle gambiere d’acciaio. Raggiunti i cavalli montarono in sella e si allontanarono a gran corsa, fermandosi a duecento metri dalla fattoria, in mezzo ai solchi profondi e larghi dei campi.
Il kaymakan non parlava più, né si era più mosso. Il colpo che al Leone di Damasco non era riuscito che in parte contro Metiub, aveva raggiunto il suo scopo. La punta della spada aveva spaccata la carotide del fanfarone, ed il sangue sgorgava a torrenti dalla ferita.
Domoko si curvò sul ferito, poi disse a Kara ed a Kitar: — Portatelo fuori: è un uomo morto.
I due robusti giovanotti afferrarono il turco per le gambe e le braccia e andarono a gettarlo in un solco profondo, pieno di ossa di cristiani calcinate. Alcuni colpi di pistola furono sparati contro di loro dai cavalleggieri, ma quelle armi avevano allora troppo poca portata per spingere un proiettile a duecento metri.
— Vittoria sterile — disse il Leone di Damasco, mettendo in fuga i cani, i quali stavano bevendo avidamente il sangue del kaymakan. — Eccoci ora assediati.
— Non preoccupatevi, signore — disse il fattore. — L’orologio è sempre fermo, e questa sera gente animosa, pronta a tutto, giungerà.
— Io vorrei caricare quelle canaglie a corsa sfrenata. Sono certo che non resisterebbero al nostro urto.
— Ne sono convinto, ma una palla di pistola, sparata anche a casaccio, può uccidere l’uomo più audace che viva sotto la cappa del cielo. Lasciateli fare: più tardi salderanno i conti con noi.
— E se mandassero qualcuno al campo a domandare dei rinforzi?
— Non inquietatevi anche per questo, signor Muley — disse Domoko. — Kitar è già sulla torre con l’ordine di archibugiare il primo turco che cerca di allontanarsi. Mio cognato è un meraviglioso tiratore che vi abbatte un uomo anche a cinquecento passi. Volete che andiamo a vedere che cosa fanno gli assedianti?
— Stavo per proporvelo — rispose il Leone di Damasco.
Presero gli archibugi, accesero le micce, ed uscirono scortati da Nikola, dall’albanese, da Kara e dai cani. I cavalleggeri, anche se privati del loro capo, non parevano affatto disposti ad andarsene. Avevano fatto coricare i cavalli affinché servissero come trincea, e si vedevano gesticolare animatamente.
— Si sono messi in testa di prenderci — disse Domoko. — Sono sempre in dodici, ma se giungono gli amici dell’altra fattoria, anche noi saremo per lo meno in dieci e tutti ben decisi. Ah!... Me l’aspettavo!...
Un cavallo si era alzato di colpo, ed un cavaliere si era slanciato sulla sella guidandolo verso levante, ossia in direzione dell’accampamento.
— Lasciate fare a Kitar — disse il fattore, vedendo che il Leone di Damasco imbracciava l’archibugio.
— E se mancasse il colpo?
— Non lo mancherà.
Il cavaliere si era allontanato di due o trecento passi, filando a gran galoppo fra i larghi solchi dei campi. Ad un tratto si udì uno sparo risuonare in aria. Kitar, dal campanile, aveva fatto fuoco. Il cavalleggiero, colpito dall’infallibile palla dell’isolano, allargò le braccia e precipitò dalla sella.
— Il cavallo ora!... — gridò Domoko.
Muley l’aveva già puntato.
Una seconda detonazione rimbombò sulla tranquilla pianura soleggiata, ed il destriero fece dapprima un immenso scarto, poi si drizzò sulle zampe di dietro scuotendo rabbiosamente la testa, e andò a cadere a quindici passi dal cavaliere.
I turchi, spaventati balzarono in piedi sparando i loro pistoloni i cui proiettili avevano appena la portata d’una ventina di metri, poi, fatti alzare i cavalli, saltarono lestamente in sella, andando ad accamparsi in mezzo al vigneto di Domoko.
— Mi rincresce per la vostra uva — disse Muley-el-Kadel, ridendo, al fattore.
— Oh!... Non ero certo di pigiarla tutta quest’anno, signore. Quando c’è il turco in campagna divora il cristiano ed anche il rinnegato. Non ci contavo su quella raccolta.
— Ed intanto ci assediano — disse l’albanese. — Hanno la testa dura quella gente.
— Dì che hanno del coraggio — disse Muley.
— E noi rimarremo qui a guardarli senza nulla tentare?
— Non aver fretta, giovanotto — disse Domoko. — Aspettiamo questa sera, e giacché gli assedianti ci lasciano respirare, facciamo colazione. Ho ben poco da offrirvi perché la miseria regna ormai dappertutto, ma approfittate.
Kara rientrò e preparò rapidamente la tavola. La colazione era piuttosto magra, poiché consisteva in una terrina piena di koisè, ossia di foglie di bietole, condite però con olio eccellente, in un vaso di yaourt, ossia di latte cagliato e di pane grossolano, vecchio di qualche mese. Quantunque i turchi continuassero a strepitare ed a sparare pistolettate, gli assediati fecero scomparire la colazione, non dimenticando però Kitar, il quale vegliava sempre sulla cima della torretta.
A mezzodì la situazione era invariata. I turchi non avevano osato distaccare più nessun cavaliere per paura di quell’infallibile archibugiere, che li vedeva benissimo anche se erano nascosti nel vigneto.
— Fino a questa sera non avremo novità — disse Domoko, offrendo al Leone di Damasco uno scibouk carico di tabacco biondo e profumato. — I turchi ci sorveglieranno, però credo che non oseranno assalirci.
Come per contraddirlo si udì, proprio in quel momento, un altro colpo d’archibugio seguito dalla voce di Kitar.
— All’armi!... — aveva gridato il cognato di Domoko.
I cinque assediati si precipitarono fuori dallo stanzone e videro tutti i mussulmani in sella, colle scimitarre sguainate, come se si preparassero a tentare una carica disperata.
— Alto là, teste calde!... — gridò l’albanese, sparando una archibugiata.
I cavalieri, per nulla spaventati, lanciarono i loro destrieri verso la fattoria, mandando urla selvagge.
— Lascia andare i cani, Kara!... — gridò il fattore.
I due mastini, appena udito un fischio, partirono velocissimi abbaiando furiosamente e minacciando di mordere le gambe dei cavalli. Intanto Muley, Nikola e Mico continuavano a sparare, con nessuna fortuna però, poiché i cavalleggieri si tenevano fra i filari delle viti, ancora copiosamente coperti di pampini e di foglie.
I mussulmani, privi del loro kaymakan, pareva che avessero rinunciato ad una carica furiosa e decisiva, una di quelle cariche che avrebbe dovuto portarli fino alla sala a pianterreno della fattoria, a combattere fra le zare, le tavole e gli scanni.
I mastini, abituati alla guerra, tribolavano gli assedianti con finti attacchi, sfuggendo facilmente ai colpi di pistola, poiché i cavalli non stavano più fermi, e tentavano di sbarazzarsi dei cavalieri. Dopo una mezz’ora, tuttavia, i cavalleggieri riuscirono a raggrupparsi, e sfilarono a corsa sfrenata davanti alla fattoria, scaricando le loro pistole.
Fu allora che Mico fece un bel colpo. Vedendo avanzarsi un sergente a briglia sciolta, mulinando la scimitarra, lo prese di mira e gli sparò contro, sbalzandolo di sella.
I mastini si erano subito precipitati sul caduto, per finirlo coi loro denti d’acciaio, e la cosa non fu lunga.
— Non sono che dieci — disse Muley-el-Kadel. — Gli assedianti si squagliano come le nevi del monte Libano, quando il sole comincia a morderle. Se tentassimo una carica?
— No — rispose ancora una volta il prudente fattore. — Siete mio ospite, e devo salvarvi.
— Ma quella canaglia fuggirà appena ci vedrà in sella. Fate condurre qui i cavalli e diamo dietro ai cani.
Domoko scosse la testa.
— No — disse. — Se il Leone di Damasco fosse ucciso, mi attirerei l’odio tanto dei mussulmani quanto dei cristiani. Aspettate, signore.
In quell’istante si udì l’orologio, che era stato muto fino allora, battere alcuni tocchi. Domoko mandò un grido:
— I soccorsi giungono, e Kitar ha dato nuova corda all’orologio. Kara, va’ a insellare i cavalli, mentre noi teniamo a distanza quelle canaglie.
I cavalleggieri, sempre tribolati dai mastini, dopo d’aver fiancheggiata la fattoria a corsa sfrenata, erano ritornati nel vigneto, nascondendovisi dentro. Muley, Domoko, l’albanese ed i loro compagni continuavano a schioppettare.
Anche Kitar sparava, cercando di diminuire il numero degli assalitori, più che mai ostinati in quell’assedio così poco felice. Già una ventina di colpi erano stati sparati, quando Kara comparve dinanzi alla porta conducendo i cavalli.
— In sella — disse. — Gli amici giungono.
Anche i candioti avevano dei bellissimi animali, assai più robusti di quelli di Muley e dei suoi compagni, derivati da incroci di cavalli arabi e della steppa turcomanna.
Un colpo d’archibugio rimbombò in lontananza, seguito subito da un secondo. Tutti erano montati in sella ed erano usciti. Quattro cavalieri d’aspetto brigantesco, si avanzavano attraverso la campagna, urlando:
— Morte alla Mezzaluna!...
— Aiutiamoli — disse Muley.
E partirono tutti, ventre a terra, colle spade, colle scimitarre o gli yatagan in pugno. I turchi, vedendo rovinarsi addosso quella valanga, tentarono la riscossa, e andarono a cadere addosso ai quattro candioti che accorrevano in aiuto degli assediati cogli archibugi armati. Rintronò una scarica e tre cavalieri vuotarono l’arcione.
Gli altri cercarono di ritornare verso il vigneto, ma Muley-el-Kadel, Domoko ed i loro compagni li attendevano in piena volata. L’urto fu tremendo. Scrosciarono le corazze, le spade e le scimitarre, poi tutto il gruppo dei cavalleggieri si abbatté fra i solchi. I cani finivano ferocemente i feriti, senza che i candioti, troppo avvezzi alle odiosità ed alle crudeltà turche, cercassero d’intervenire.
— Si confonda il sangue dei nostri padri con quello dei mussulmani!... — gridavano.
E dove i cani non finivano, finivano cogli yatagan. Avevano, d’altronde, imparato dagli invasori, i quali non avevano risparmiato né i vecchi, né le donne, né i fanciulli.
Muley-el-Kadel, ritto sul suo cavallo, aveva assistito alla strage dei suoi correligionari d’un tempo, colle labbra strette e la fronte oscura. Dato il grande urto decisivo, si era ritirato da parte. Ormai la battaglia era vinta, e la sua spada invincibile non aveva più nulla da fare.
— Ebbene, sono finiti, Korika? — chiese Domoko al candiota che aveva condotti quei quattro intrepidi cavalieri.
— A quest’ora sono seduti sulle ginocchia delle uri — rispose l’isolano. — Gente fortunata!...
— Grazie del tuo intervento.
— Al mio posto, tu avresti fatto altrettanto, Domoko — rispose il padrone della fattoria della Korika.
— Oh, non avrei esitato. Siete stato attento all’orologio?...
— Sì — rispose il fattore. — Non udendolo più suonare, mi sono immaginato che tu, Domoko, dovevi essere alle prese coi turchi, e sono partito subito coi miei tre figli.
— Hai mai veduto quest’uomo, Korika? — chiese Domoko, additandogli Muley-el-Kadel, il quale sparava, con Mico e Nikola, sui cavalli fuggenti, affinché non tornassero all’accampamento turco.
— Un bel guerriero. L’ho veduto caricare, e lui solo ha fatto per quattro.
— È il famoso Leone di Damasco.
— Per tutti i pescicani del Mediterraneo!... Il famoso guerriero mussulmano che ha rinnegata la Mezzaluna per la Croce?
— Sì, Korika.
— E vuole andare?
— Alla rada di Capso. Vi sono ancora le galere veneziane di Sebastiano Veniero?
— Sono sempre all’ancora, in attesa di dare improvvisamente addosso alla flotta del Bascià.
— Che sia sgombra la via?
— Non troveremo nessun turco sulla nostra corsa, Domoko. E poi, ormai, siamo in buon numero, e col Leone di Damasco non vi è d’aver paura. I turchi hanno perduto un grande guerriero, che poteva avere nelle vene il sangue d’un Maometto II.
Muley-el-Kadel ritornava con la miccia quasi consumata, accompagnato da Mico e dal greco. Tutti i cavalli, rimasti senza cavalieri, erano caduti in mezzo ai campi, sotto i colpi d’archibugio. I poveri animali, privi dei loro padroni, si erano lasciati fucilare senza protestare. Erano caduti tutti dentro il vigneto, entro il quale avevano cercato di rifugiarsi.
— Signor Muley — disse Domoko, andandogli incontro. — Volete che partiamo per la rada di Capso? Il momento è buono.
— Lo credo — rispose il Leone di Damasco. — Voi, candioti, avete però nelle vene non dell’acqua, come credono i miei correligionari d’un tempo. Vi credevano dei montoni da tosare, ed invece hanno trovato dei lupi, e dei lupi ben fieri.
— È una guerra a morte, signore — rispose il fattore. — Anche se ho abbracciata la fede mussulmana con la parola, e non già col cuore, credete voi che io fossi sicuro di svegliarmi sempre vivo al mattino? I vostri hanno bisogno del nostro sangue per ingrassare i campi che un giorno diventeranno, a meno d’un miracolo, loro proprietà. Partiamo?
— Io ritorno alla mia fattoria — disse Korika. — Ho i montoni all’aperto, e se i turchi giungono, non ne troverò più uno.
— Va’, brav’uomo, e grazie.
Il fattore salutò il Leone di Damasco ed i suoi compagni, e partì, a gran galoppo, verso ponente, accompagnato dai suoi tre figli.
— A che ora potremo giungere alla rada? — chiese Muley a Domoko.
— Verso mezzanotte, signore.
— E tutti questi cadaveri? Li lasceremo marcire così? È vero che i turchi non si prendono la briga di seppellire i cristiani.
— S’incaricheranno i mangiatori di morti — rispose il candiota, indicando gli uccellacci che calavano in gran numero sul vigneto. — Domani nessuno saprà se i caduti erano turchi o seguaci della Croce. Partiamo prima che Sebastiano Veniero spieghi le vele e tenti qualche colpo verso la Morea.
Discese da cavallo, chiuse la porta, poi il piccolo drappello si mise in corsa, mentre le tenebre scendevano rapidamente. I mangiatori di cadaveri accorrevano a stormi immensi, gettandosi ferocemente sui cavalli e sui turchi.
Accorrevano da tutte le parti, pigolando stranamente, e sbattendo fortemente le larghe e robuste ali. Prima dell’alba tutta quella carne doveva essere sparita, e forse anche molto prima. Altro che le iene e gli sciacalli dell’Algeria e della Tripolitania!...
Domoko si era messo alla testa del drappello e conduceva la corsa velocemente, avviandosi verso il mare, che doveva rumoreggiare verso il settentrione. Per la campagna tenebrosa non si scorgeva anima viva, tuttavia i cavalieri, per precauzione, avevano accese le micce agli archibugi, poiché non era improbabile che dei volteggiatori turchi si aggirassero specialmente lungo la marina. Verso mezzanotte Domoko rallentò la corsa. Un vento fresco, vivificante, cominciava a soffiare dal nord: era vento marino.
— Fra poco ci saremo — disse il fattore, il quale aguzzava gli sguardi, colla speranza di scoprire i grossi fanà delle galere veneziane.
Concessero ai cavalli un po’ di riposo, poi tornarono a spingerli cogli angoli delle staffe.
— Lumi — disse Nikola, dopo pochi istanti. — Sono lumi di navi.
— Avanti!... — disse il Leone di Damasco.
Si slanciarono attraverso i campi, in mezzo ai quali non sorgevano che rade fattorie, quasi rase al suolo dai turchi, poi scesero verso la marina, gridando a piena gola:
— Aiuto!... Aiuto!... Cristiani...
Dentro la rada di Capso, una piccola insenatura nascosta da alte scogliere, si trovavano ancorate sei galere di grossa portata, a tre ordini di remi, le migliori che la Repubblica aveva potuto raccozzare nell’Adriatico.
Udendo quelle grida, i marinai veneziani spararono in aria qualche colpo d’archibugio, poi misero in acqua un grosso caiccio, armato d’una piccola colubrina, imbottita di mitraglia. Un ufficiale era sbarcato sulla spiaggia e si era mosso verso il drappello, mentre i suoi uomini, temendo sempre qualche sorpresa da parte dei turchi, soffiavano sulle micce degli archibugi.
— Chi siete? — domandò.
— Andate a dire che Domoko è ritornato, e che conduce con sé il famoso Leone di Damasco.
— Siete inseguiti?
— No: abbiamo distrutta tutta la cavalleria che ci dava la caccia, e non vi è più un turco vivo per un giro di venti miglia.
I marinai alzarono le lanterne, guardando attentamente uno ad uno i fuggiaschi, poi l’ufficiale disse:
— A bordo: il Leone di San Marco vi protegge sulle sue galere.