Il Dio dei viventi/IX
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All’uscita del viottolo provò finalmente un senso di sollievo. La bella proprietà del fratello morto era lì tutta davanti a lui come quando egli la vedeva col pensiero avido di possederla, distesa sulla china soleggiata dove il monte si versava nella valle e nei prati verso la pianura: si distinguevano tutte le muricce di cinta che la circondavano serpeggiando, e tutti i colori della vegetazione che l’arricchiva, dal verde cupo delle quercie al verde smeraldino dei pascoli, dal verde vivo della vigna a quello grigio degli olivi e dei fichi d’india: e il rosso e il nero delle vacche al pascolo e il bianco delle pecore e il glauco dei salici piangenti che abbandonavano le trepide chiome al vento lungo il fiume.
Una casetta bassa tutta di pietra col tetto di tegole rosse dominava la proprietà; fin laggiù dove stava Zebedeo si sentiva l’abbaiare dei cani e le voci degli uomini che lavoravano nella vigna.
Ma non era tutto questo che ridonava la vita e il senso della gioia al cuore dell’uomo: più che le quercie del pascolo e la casa sopra il podere egli vedeva una figura dominare su tutte le cose, sebbene fosse giù ai piedi della proprietà anzi già fuori di essa, davanti al cancello chiuso: il figlio Bellia, che dopo aver visitato le terre del morto se ne tornava a casa.
Il padre gli andò incontro come avesse avuto paura di non rivederlo più.