Il Circolo Pickwick/Capitolo 31

Che tratta di cose legali e di vari luminari del foro

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Charles Dickens - Il circolo Pickwick (1836)
Traduzione dall'inglese di Federigo Verdinois (1904)
Che tratta di cose legali e di vari luminari del foro
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Sparse di qua e di là, in vari pertugi e bugigattoli del Temple, trovansi certe camere buie e sudicie, dentro e fuori delle quali, tutte le mattine di vacanza e buona parte della sera nel periodo delle sessioni, si vedono andare e venire in gran faccenda e con fasci di carte sotto il braccio o sporgendo fuori delle tasche, una tratta interminabile di giovani d’avvocati. Vi son vari gradi di giovani d’avvocato. C’è il giovane capo, che ha versato una cauzione ed è avvocato in prospettiva, il quale ha un conto corrente col sarto, riceve inviti in case private, conosce una famiglia in Gower street ed un’altra in Tavistock Square, va fuori al tempo delle ferie per veder suo padre, tiene cavalli vivi in gran numero, e costituisce, in una parola, la vera aristocrazia dei giovani di studio. C’è il giovane salariato — esterno od interno, secondo i casi — il quale dedica la maggior parte dei suoi trenta scellini per settimana al piacere e all’adornamento della propria persona, va al teatro Adelphi a metà prezzo almeno tre volte la settimana, passa poi per la bottiglieria a farla da corrotto dissipatore, ed è una sudicia caricatura della moda di sei mesi addietro. C’è il giovane di mezza età, addetto alla copiatura, che ha una numerosa famiglia sulle spalle, ed è sempre sciattato e spesso ubbriaco. E vi son poi i galoppini, i quali sentono un profondo dispregio pei ragazzi nei giorni di scuola, si tassano nel tornar la sera alle case loro per comprar delle salsiccie e della birra, e pensano che non c’è nulla come la gran vita. Vi sono tante altre varietà del genere che sarebbe troppo lungo classificare, ma per numerose che siano, c’è da vederle tutte, a certe date ore di lavoro, affaccendarsi dentro e fuori dei luoghi cui abbiamo accennato.

Questi remoti bugigattoli sono gli uffizi pubblici della professione legale, dove si spiccano atti, si sottoscrivono sentenze, si protocollano dichiarazioni, e tante altre ingegnose macchinette si mettono in moto per la tortura e la dannazione dei fedeli sudditi di Sua Maestà, e per comodo e profitto degli esercenti la legge. Sono, per la maggior parte, delle camere basse e umide, dove innumerevoli rotoli di cartapecora, che per tutto un secolo se ne sono stati a traspirare segretamente, mandano una certa fragranza che di giorno si confonde con le esalazioni della muffa, e di sera con quelle dei pastrani fradici, degli ombrelli gocciolanti e delle candele di sego rancido.

Verso le sette e mezzo della sera, una decina o una quindicina di giorni dopo che il signor Pickwick e i tre amici suoi furono tornati a Londra, entrò frettolosamente in uno di cotesti ufficii un individuo in soprabito scuro e bottoni di metallo, coi lunghi capelli studiosamente arricciati intorno alla falda di un cappello spelato e con certi calzoni poco puliti e così stirati dalle staffe sopra un par di stivali alla Blucher, da far temere a tutti i momenti che le ginocchia avessero a schizzar fuori dai loro nascondigli. Tirò fuori dalla tasca una lunga e stretta striscia di cartapecora, sulla quale il pubblico uffiziale di guardia appose un sigillo nero indecifrabile. Produsse poi quattro pezzi di carta, di eguali dimensioni, contenenti ciascuno una copia a stampa della striscia di cartapecora coi nomi in bianco; e riempite le lacune, si ricacciò in tasca i cinque documenti e partì in gran fretta.

L’uomo dal soprabito scuro con in tasca i documenti cabalistici non era altri che la nostra vecchia conoscenza, il signor Jackson della casa Dodson e Fogg, Freemants Court, Cornhill. Invece però di tornarsene allo studio dal quale era venuto, ei volse i passi a Sun Court, ed entrando difilato nel Giorgio ed Avvoltoio, domandò se un tal signor Pickwick era in casa.

— Chiamate il servitore del signor Pickwick, Tom, — disse la fantesca del Giorgio ed Avvoltoio.

— Non vi scomodate, vengo per affari. Se m’indicate la camera del signor Pickwick, ci vado da me.

— Che nome, signore? — domandò il cameriere.

— Jackson, — rispose lo scrivano.

Il cameriere andò per annunziare il signor Jackson, ma il signor Jackson gli risparmiò il fastidio seguendolo da presso ed entrando in camera prima ch’ei potesse articolare una sillaba.

Il signor Pickwick aveva appunto invitato a desinare i suoi tre amici; e tutti e quattro se ne stavano seduti intorno al fuoco, bevendo il loro vino, quando il signor Jackson si presentò nel modo che si è detto.

— Come state, signore? — disse il signor Jackson facendo un cenno del capo al signor Pickwick.

Il signor Pickwick s’inchinò, mostrandosi però alquanto sorpreso perchè la fisonomia del signor Jackson non gli era rimasta impressa.

— Vengo da Dodson e Fogg, — disse il signor Jackson in via di spiegazione.

Il signor Pickwick, in udir quei nomi, si levò.

— Potete dirigervi, signore, al mio avvocato; il signor Perker, di Gray’s Inn. Cameriere, accompagnate questo signore.

— Mille scuse, signor Pickwick, — disse Jackson, posando risolutamente il cappello a terra e cavando di tasca la striscia di cartapecora. — Ma una citazione, in questi casi, va notificata dal giovane di studio o dall’agente, signor Pickwick, alla persona, nelle mani della medesima, ecc., ecc. Eh? Precauzioni necessarie, sapete, forme legali prima di tutto.

Qui il signor Jackson diè un’occhiata alla cartapecora; e appoggiando le mani alla tavola e volgendo intorno un sorriso affabile e persuasivo, disse:

— Orsù; lasciamo andare un’inezia come questa qui. Chi di lor signori si chiama Snodgrass?

A questa domanda, il signor Snodgrass diè un balzo così visibile, che non c’era bisogno di altra risposta.

— Ah! l’avevo indovinato, — disse il signor Jackson più affabilmente che mai. — Ho una cosettina per voi, signore.

— Per me! — esclamò il signor Snodgrass.

— Non si tratta che di una sub poena, di una semplice citazione nell’affare Bardell e Pickwick da parte della querelante, — rispose Jackson, scegliendo uno dei fogli di carta e tirando fuori uno scellino dal taschino della sottoveste. — Si tratterà pel quattordici di Febbraio: messa a ruolo pel giorno dieci, come vedete, ma noi abbiamo chiesto un giurì speciale. Questa è vostra, signor Snodgrass.

E così dicendo Jackson squadernò la cartapecora sotto gli occhi del signor Snodgrass e gli mise in mano la carta e lo scellino.

Il signor Tupman aveva osservato con muto stupore questo procedimento, quando Jackson volgendosi di botto a lui, disse:

— Non credo d’ingannarmi... il signor Tupman?

Il signor Tupman guardò al signor Pickwick; ma, non trovando negli occhi sbarrati di lui alcun incoraggiamento a negare il proprio nome, disse:

— Sì, o signore, io mi chiamo Tupman.

— E quest’altro signore è il signor Winkle, credo, — disse Jackson.

Il signor Winkle balbettò un sì; e subito i due amici ricevettero ciascuno dal destro signor Jackson un foglio e uno scellino.

— Ora, — riprese Jackson, — temo forte che mi darete dell’importuno; ma io ho bisogno di qualcun altro, se non è troppo chiedere. Ho qui il nome di un Samuele Weller.

— Cameriere, fate venire qui il mio domestico, — ordinò il signor Pickwick.

Il cameriere andò subito, molto sorpreso di quel che vedeva, e il signor Pickwick fece cenno a Jackson di accomodarsi.

Vi fu un silenzio penoso, che fu rotto alla fine dall’innocente querelato.

— Suppongo, signore, — disse il signor Pickwick scaldandosi a poco a poco, — suppongo che sia intenzione dei vostri superiori giovarsi della testimonianza dei miei amici per provare la mia colpabilità?

Il signor Jackson si diè con l’indice varii colpetti dalla parte sinistra del naso, per fare intendere ch’ei non era lì per svesciare i segreti della bottega, e scherzosamente rispose:

— Nescio, vi direi bugia.

— E per quale altra ragione, — riprese il signor Pickwick, — s’intimerebbero loro queste citazioni, se non per questa?

— Bravissimo! trappola eccellente! — rispose Jackson crollando leggermente il capo. — Ma non serve, caro signore. Non ci si perde nulla a provare, ma c’è poco da cavarmi di corpo.

Qui il signor Jackson sorrise di nuovo alla compagnia; e, applicandosi il pollice sinistro alla punta del naso, fece girare con la destra un immaginario macinello da caffè, eseguendo così una graziosissima pantomima (molto in voga una volta, ma oggi disgraziatamente quasi andata in disuso) che veniva chiamata volgarmente fare il mulinello.

— No, no, signor Pickwick, — disse Jackson conchiudendo; — la gente di Perker deve indovinare il perchè di queste citazioni. Se non ne viene a capo, avrà da aspettare che la causa venga in discussione, e allora ne saprà qualche cosa.

Il signor Pickwick diè all’ingrato visitatore un’occhiata di profondo disgusto, ed avrebbe probabilmente scagliato qualche tremendo anatema sui capi dei signori Dodson e Fogg, se non gli avesse mozzato in bocca le parole l’entrata di Sam.

— Samuele Weller? — interrogò il signor Jackson.

— Ecco la cosa più vera che avete detto da parecchi anni in qua, — rispose Sam con la massima calma.

— Ecco una sub poena per voi, signor Weller.

— Una che?

— Ecco l’originale, — rispose Jackson, evitando la chiesta spiegazione.

— Quale?

— Questo qui, — rispose Jackson, scotendo la cartapecora

— Ah, cotesto è l’originale, eh? — esclamò Sam. — Bravo; tanto piacere di aver visto l’originale; perchè l’è una bella cosa e fa tanto bene allo spirito.

— Ed eccovi lo scellino, — disse Jackson, — da parte dei signori Dodson e Fogg.

— Una vera finezza da parte di questi signori, che mi conoscono così poco, di darmi notizie loro con un regalo, — disse Sam. — È un vero onore che mi fanno, signore; ed è per loro molto onorevole di saper compensare il merito dovunque lo trovano. Senza dire che è una cosa molto commovente per una persona sensibile.

Così dicendo, il signor Weller si fece con la manica del soprabito una leggiera frizione sull’occhio destro, secondo il sistema convenuto degli attori quando vogliono esprimere una domestica commozione.

I modi di Sam parvero imbrogliare un poco il signor Jackson; il quale però, avendo intimato le citazioni e non avendo altro da dire, fece le viste, tanto per amore delle apparenze, di mettersi quell’unico guanto che abitualmente portava in mano, e se ne tornò al suo uffizio a riferire i passi fatti.

Il signor Pickwick dormì poco quella notte; la sua memoria era stata malamente rinfrescata a proposito dell’azione Bardell. Fece colazione di buon’ora il giorno appresso; e dicendo a Sam di accompagnarlo, si mosse verso Gray’s In Square.

— Sam! — chiamò il signor Pickwick, guardandosi intorno, quando furono giunti alla fine di Cheapside.

— Signore? — rispose Sam accostandosi al padrone.

— Quest’azione, Sam, verrà trattata il quattordici del mese entrante.

— Bella coincidenza cotesta!

— Perchè mo, Sam?

— Il giorno di san Valentino, perbacco; proprio un giorno adattato per una causa di mancata promessa matrimoniale.

Il sorriso del signor Weller non accese un sol raggio di allegria nel viso del padrone. Il signor Pickwick si voltò di botto, e riprese a camminare in silenzio.

Avevano fatto un certo cammino, il signor Pickwick avanti sprofondato nei suoi pensieri, e Sam dietro con una fisonomia piena della più invidiabile e tranquilla noncuranza di tutto e di tutti, quando questi, sempre sollecito di comunicare al suo padrone ogni sua privata informazione, studiò il passo fino a raggiungere il signor Pickwick, e accennando ad una casa, davanti la quale si trovavano a passare, disse:

— Pizzicagnolo numero uno, questo qui, signore.

— Così pare, all’aspetto, — disse il signor Pickwick.

— Fabbrica di salsiccie.

— Davvero?

— Davvero! altro che davvero, signore. Gli è qui, benedetto voi, che ebbe luogo la sparizione misteriosa di un rispettabile negoziante, quattro anni fa.

— Non volete mica dire che ei fu assassinato, Sam? — esclamò il signor Pickwick guardandosi intorno con una certa apprensione.

— No davvero, — rispose il signor Weller. — Magari lo potessi dire! Cento volte peggio. Egli era il padrone di questo magazzino ed aveva inventata la macchina a vapore a moto perpetuo per la fabbricazione delle salsiccie, che s’avrebbe ingoiato una lastra se glie l’accostavate un po’ soverchio e ne avrebbe fatto salsiccie in meno di niente come se si fosse trattato di un bambino di latte. Se ne teneva molto della sua macchina, e questo si capisce; e se ne stava giù a vederla muovere, e se la guardava fino a che dalla troppa gioia lo pigliava la malinconia. Gli era in somma un uomo felice, avendo cotesta sua macchina e due bambini ch’erano una grazia, se non fosse stato per la moglie, che era una vera strega. Gli stava sempre alle costole, lo punzecchiava, lo intronava, fino a fargli scappar la pazienza. "Vi dirò io come sta la cosa, cara mia" le dice un bel giorno; "se non la smettete" dice "non son chi sono se non me la batto per l’America; e questo è tutto". — "Voi siete un furfante disutilaccio" dice lei "ed io mi congratulo tanto con gli Americani del bell’acquisto che faranno". Dopo di che seguita a svillaneggiarlo per mezz’ora buona, e poi scappa nella retrobottega, strilla come un’oca spennata, dice che la vogliono far morire, e si fa pigliare da una convulsione che le dura tre ore di fila, una di quelle convulsioni che son tutte strilli e calci. Fatto sta che il giorno appresso non si trova più il marito. Dalla cassa non avea preso nulla, nemmeno il soprabito s’avea messo; sicchè all’America non ci era potuto andare. Passa un giorno, passa una settimana; e non si vede. La moglie fa attaccar dei cartelli dove dice che se torna, gli perdonerà ogni cosa; una bella generosità, visto ch’ei non avea fatto nulla. Si pesca in tutti i canali, e per due mesi di fila, tutte le volte che si tira fuori un cadavere, lo si porta regolarmente alla pizzicheria. Nessuno però era il buono, sicchè si diè per fatto che l’omo avea preso il largo, e la moglie seguitò lei a tener la bottega per conto suo. Ora ecco che un sabato sera si presenta un vecchietto che pareva avesse un diavolo per capello, soltanto che capelli non ne aveva, e dice: "Siete voi la padrona di qua?" — "Sì, sono io" dice lei. "Ebbene signora" dice lui "io son venuto a posta per farvi sapere che io e la mia famiglia non abbiamo mica intenzione di affogare per nulla; ed inoltre, signora mia" dice, "mi permetterete di osservare che siccome voi non adoperate la carne di qualità superiore nella manifattura delle vostre salsiccie, credo che ne potreste trovare allo stesso buon mercato dei bottoni". — "Bottoni, signore!" dice lei. "Bottoni, signora" dice il vecchietto, aprendo un pezzetto di foglio, e facendo vedere una ventina o una trentina di mezzi bottoni. "Bel condimento per le salsiccie i bottoni di calzoni, signora." — "Ah! i bottoni di mio marito!" dice la vedova, incominciando a venir meno. "Come!" grida il vecchietto, facendosi pallido come un cencio di bucato. "Ora capisco" dice la vedova; "in un accesso di rabbia e di delirio ei si è lasciato ridurre in salsiccie!" — E proprio così avea fatto, signore, — aggiunse il signor Weller fissando l’inorridito signor Pickwick, — o forse era stato pigliato nella macchina. Comunque stesse la cosa, il vecchietto, che era sempre andato matto per le salsiccie, scappò dalla bottega in uno stato da far compassione, e non se n’ebbero mai più notizie!

La relazione di questo doloroso incidente aveva intanto portato padrone e domestico all’abitazione del signor Perker. Lowten, tenendo la porta semiaperta, discorreva con un uomo dall’aspetto depresso e dal vestito logoro, con le scarpe senza punte e i guanti senza dita. Portava sul viso emaciato le traccie della privazione, del dolore, quasi della disperazione. Avea coscienza della sua povertà, perchè si tirò da parte nell’ombra del pianerottolo, all’avvicinarsi del signor Pickwick.

— È dispiacevole assai, — disse sospirando il pover’uomo.

— Già, — fece Lowten scribacchiando il suo nome sullo stipite della porta e cancellandolo poi con la coda della penna. — Gli volete lasciar detto qualche cosa?

— Quando credete che potrà tornare? — domandò l’altro.

— Non si può sapere, — rispose Lowten, ammiccando al signor Pickwick mentre il forestiero abbassava gli occhi.

— Non credete che io possa aspettarlo? — domandò ancora il forestiero, spingendo uno sguardo ansioso nell’uffizio.

— Oh no, sarebbe tempo perso, — rispose Lowten mettendosi più in mezzo alla porta. — Prima della settimana non torna di certo, e sarà un caso se torna quest’altra settimana, perchè quando Perker arriva ad uscire di città, non ha mai fretta di tornare.

— Fuori di città! — esclamò il signor Pickwick; — vedete un po’ che disappunto!

— Non andate via, signor Pickwick, — disse Lowten, — ho una lettera per voi.

Il forestiero stette un po’ in forse, e guardò di nuovo a terra; mentre il giovane dello studio ammiccò di nuovo al signor Pickwick come per fargli intendere che avrebbe visto uno scherzo sopraffino e che c’era da ridere; benchè quale questo scherzo potesse essere al signor Pickwick non veniva fatto d’indovinare.

— Entrate, signor Pickwick, — disse Lowten. — Sicchè, signor Watty, volete lasciare due parole o tornare voi stesso?

— Pregatelo che mi lasci due righe per farmi sapere che n’è del mio affare, — rispose il pover’uomo; — per amor del cielo, signor Lowten, non ve ne scordate.

— No, no, vi pare, — rispose il giovane. — Entrate, signor Pickwick. Buon giorno, signor Watty; bella giornata per far quattro passi, eh?

E, vedendo che quegli s’indugiava ancora, fece segno a Sam di seguire il padrone, e chiuse la porta sul muso del signor Watty.

— In fede mia, non s’è mai dato da che mondo è mondo un fallito più opprimente di questo! — disse Lowten, gettando la penna sul tavolino col fare di un uomo oltraggiato. — Non sono ancora quattro anni che il suo affare si trova in cancelleria, e voglio essere appiccato s’ei non viene qui a romperci le tasche due volte la settimana. Di qua, signor Pickwick, di qua. Perker c’è, e vi vedrà anche, ne son certo. Un freddo del diavolo, stando su quell’uscio a perdere il tempo con cotesti miserabili vagabondi.

E dopo aver rabbiosamente attizzato un gran fuoco con un piccolo paio di molle, il giovane di studio entrò in camera del principale ed annunziò il signor Pickwick.

— Ah, mio caro signore, — esclamò il piccolo Perker, alzandosi tutto sollecito. — Sicchè mio caro signore, che notizie abbiamo del vostro affare? Nulla di nuovo da parte dei vostri amici di Freeman’s Court? Non se ne sono mica stati a dormire, questo lo so. Ah, sono furbi davvero!

E così dicendo l’ometto annasò un’enfatica presa di tabacco, come un tributo di ammirazione alla furberia dei signori Dodson e Fogg.

— Sono dei furfanti matricolati, — disse il signor Pickwick.

— Già, già, — riprese l’ometto; — affar di opinioni, capite; non facciamo questione di parole, perchè naturalmente non si può pretendere da voi che guardiate questa cosa con l’occhio della professione. Insomma, tutto quel che c’era da fare s’è fatto. Ho preso per noi l’avvocato Snubbin.

— Buono? — domandò il signor Pickwick.

— Buono! — ripetette Perker; — ma Snubbin, benedetto voi, è proprio in cima della sua professione, mio caro signore. Ha tre volte gli affari di qualunque altro della Corte; tutte le cause di questo genere le piglia lui. Non c’è bisogno che lo andiate dicendo per le cantonate; ma noi diciamo — noi altri della professione — che Snubbin mena la Corte pel naso.

L’ometto annasò, facendo questa comunicazione, un’altra presa di tabacco, e fece un cenno misterioso del capo al signor Pickwick.

— Hanno citato i miei tre amici, — disse il signor Pickwick.

— Ah, naturalmente! — rispose Perker. — Testimoni importanti; vi hanno veduto in una delicata posizione.

— Ma ella venne meno per conto suo. Mi si gettò fra le braccia, prima che me ne avvedessi.

— Probabilissimo, mio caro signore, probabilissimo; cosa molto naturale. Nulla di più naturale, questo è certo. Ma chi è che lo prova?

— Hanno citato anche il mio domestico, — disse il signor Pickwick, abbandonando l’altro punto, perchè la domanda del signor Perker l’aveva un po’ sconcertato.

— Sam? — domandò il signor Perker.

Il signor Pickwick rispose affermativamente.

— Naturalmente, mio caro signore, naturalmente. Lo sapevo; ve l’avrei detto un mese fa. Capite, mio caro signore, che se volete trattar da voi stesso i vostri affari dopo averli affidati nelle mani del vostro avvocato, dovete anche soffrirne le conseguenze.

E il signor Perker si rimpettì dignitosamente e con un buffetto si pulì la gala della camicia di qualche granello di tabacco.

— E che cosa mai gli vorranno far provare? — domandò il signor Pickwick dopo due o tre minuti di silenzio.

— Che voi lo mandaste dalla querelante per fare una qualche offerta di accomodamento, suppongo, — rispose Perker. — Del resto poco importa, perchè non credo che tutti i magistrati del mondo siano buoni di cavargli gran che di corpo,

— Non lo credo nemmeno io, — disse il signor Pickwick, sorridendo, a malgrado del suo dispetto, all’idea che Sam dovesse comparire come testimone. — E che sistema terremo?

— Non ne abbiamo che un solo, mio caro signore; far esaminare i testimoni in contradditorio, affidarci all’eloquenza di Snubbin, gettar polvere negli occhi dei giudici e sperare nei giurati.

— E supposto che il verdetto mi sia contrario?

Il signor Perker sorrise, annasò una lunga presa di tabacco, attizzò il fuoco, scrollò le spalle, e si chiuse in un eloquente silenzio.

— Volete dire che in tal caso dovrò pagare i danni?

Perker diè al fuoco un altro colpo assolutamente inutile e rispose:

— Temo di sì.

— Permettetemi dunque di annunziarvi la mia irrevocabile determinazione di non pagar danni di nessuna sorta, — esclamò il signor Pickwick con forza. — Nemmeno una lira, Perker, nemmeno un penny del mio danaro entrerà nelle tasche di Dodson e Fogg. Questa è la mia determinazione ferma ed irrevocabile, ve l’ho detto.

E il signor Pickwick, a conferma di queste parole, diè un gran pugno sulla tavola dell’avvocato.

— Benissimo, mio caro signore, benissimo, — disse Perker. — Naturalmente voi sapete meglio come regolarvi.

— Naturalmente, — rispose con calore il signor Pickwick. — Dove sta di casa Snubbin?

— Old Square, Lincoln’s Inn.

— Vorrei vederlo.

— Vederlo, mio caro signore! vedere Snubbin! Oibò, oibò, è impossibile. Vedere Snubbin! Ma figuratevi, mio caro signore, che una cosa simile non s’è mai intesa, senza aver prima pagato un diritto di consulto e fissato un’udienza. Non è possibile, mio caro signore, non è proprio possibile.

Il signor Pickwick però avea deliberato dentro di sè che non solo la cosa era possibile, ma che si dovea subito porla in atto; in conseguenza di che, dieci minuti dopo l’assicurazione di questa impossibilità, egli era guidato dal suo avvocato nell’ufficio esterno del grande Snubbin.

Era una stanza di giuste dimensioni, senza tappeto, con una massiccia scrivania accanto al fuoco, la cui parte superiore avea da gran tempo perduto la sua tinta verde originale, e con la polvere e con gli anni s’era andata mutando in grigio, meno in quei punti dove ogni traccia del primitivo colore era obliterata da macchie d’inchiostro. Su questa scrivania erano sparsi molti fasci di carte legati con cordicella rossa; e vi sedeva dietro uno scrivano attempato, del quale l’aspetto signorile e la pesante catena d’oro erano indizi evidentissimi della clientela estesa e lucrativa del signor Snubbin.

— È in camera Snubbin, signor Mallard? — domandò Perker, offrendo con la massima cortesia una presa di tabacco.

— C’è sì, ma è occupatissimo, — rispose l’interrogato. — Guardate qua; nessun parere dato ancora sopra alcuno di questi casi; e tutti con diritto già pagato, capite.

Così dicendo, lo scrivano sorrise ed aspirò la presa di tabacco con una voluttà che pareva la risultante di una passione pel tabacco e di un debole particolare pei diritti di consulto.

— Non c’è mica male, eh! — fece Perker.

— Ma! — rispose lo scrivano, porgendo la sua scatola di tabacco ed offrendone una presa con la massima cordialità — E il più bello si è che siccome nessuno al mondo fuori di me può decifrare il carattere di Snubbin, debbono anche aspettare, dopo ch’egli ha dato i suoi pareri, ch’io gli abbia copiati... Ah, ah, ah!

— Il che sappiamo noi a chi fa bene, oltre a Snubbin, e serve a cavare qualche altra cosellina dai clienti, eh? — disse Perker. — Ah, ah, ah!

A questo lo scrivano rise di nuovo; non già un riso clamoroso, ma un gorgoglio contenuto, interno, che dava un po’ sui nervi al signor Pickwick. Quando un uomo sanguina internamente, la cosa è pericolosa per lui; ma quando ride internamente, la cosa è molto pericolosa per gli altri.

— Non m’avreste per caso fatto quella noticina di diritti di cui vi son debitore? — disse Perker.

— No, non ancora.

— Ve ne prego, fatemela tenere al più presto e quitanzatela anche. Ma mi figuro che avrete un gran da fare ad intascar moneta sonante, per poter pensare ai debitori, eh? ah, ah, ah!

Questa scappata stuzzicò mirabilmente il buon umore dello scrivano, il quale se la rise di nuovo da sè a sè.

— Ma, signor Mallard, mio caro amico, — disse Perker, ripigliando di botto la sua gravità e traendo in disparte per un occhiello del soprabito il grand’uomo del grand’uomo, — voi dovete persuadere Snubbin a vedermi, me e il mio cliente qui.

— Via, via, anche questa è bellina, — esclamò lo scrivano — Vedere Snubbin! andiamo, via l’è troppo assurdo cotesto.

Malgrado però l’assurdità della proposta, lo scrivano si lasciò attirare dolcemente fuori dell’udito del signor Pickwick; e dopo una breve conversazione bisbigliata si avviò in punta di piedi per un oscuro corridoio e disparve nel tempio del luminare forense, donde uscì dopo un poco alla stessa maniera, e informò il signor Perker e il signor Pickwick che Snubbin s’era lasciato persuadere, contro tutte le regole e le consuetudini, a riceverli subito.

Era il signor Snubbin un uomo più sui cinquanta che sui quarantacinque, con un viso allampanato e color del sego. Aveva quell’occhio sporgente e stupido che s’incontra così spesso in quegli uomini che, per molti anni, si sono applicati ad un corso di studi laborioso e monotono; un occhio che, anche senza le lenti che gli pendevano sul petto da un largo nastro nero, avrebbe rivelato la sua estrema miopia. I capelli radi e deboli davano a vedere ch’ei non avea mai dedicato molto tempo alla pettinatura e che da ben venticinque anni portava la parrucca forense che riposava sulla scrivania accanto a lui. La polvere attaccata al bavero, e la cravatta bianca gualcita e legata di traverso mostravano chiaro ch’ei non aveva avuto agio, dopo uscito dalla Corte, di mutarsi di vestiti; mentre d’altra parte il carattere sciattato di tutta la persona faceva supporre che se si fosse mutato, l’aspetto di lui non ne avrebbe avuto notevole giovamento. Libri di legge, monti di fogliacci, lettere aperte erano sparsi sulla scrivania senza ordine di sorta. La mobilia della camera era vecchia e tarlata; le vetrate della libreria si sostenevano a mala pena sugli arpioni arrugginiti; la polvere s’alzava ad ogni passo dal tappeto in piccole nuvole; le tende erano ingiallite dagli anni e dal sudiciume; e in somma lo stato di ogni cosa nella camera mostrava palesemente che l’avvocato Snubbin era troppo sprofondato nelle sue occupazioni professionali per poter badare in qualche maniera ai suoi agi personali.

Stava scrivendo quando entrarono i clienti; s’inchinò astrattamente quando gli fu presentato il signor Pickwick; e quindi, accennando loro di sedere, posò accuratamente la penna nel calamaio, mise la gamba sinistra sulla destra, se la cullò fra le mani intrecciate, ed aspettò che gli si volgesse la parola.

— Il signor Pickwick è il convenuto nella causa Bardell e Pickwick, — disse Perker.

— È anche una causa mia, se non erro? — domandò Snubbin.

— Per l’appunto, — rispose Perker.

Snubbin crollò il capo ed aspettò che gli si dicesse qualche altra cosa.

— Il signor Pickwick era ansioso di vedervi, signor Snubbin, — riprese Perker, — per dichiararvi, prima che entraste a trattar la causa, che egli nega esservi alcun fondamento o pretesto all’azione intentatagli, e che se non avesse la certezza di presentarsi con mani più che nette alla Corte e col più coscienzioso convincimento di aver dalla sua buone ragioni per respingere la domanda della querelante, non vi metterebbe mai il piede. Credo di interpretar le vostre idee correttamente, non vi pare, mio caro signore? — domandò l’ometto, volgendosi al signor Pickwick.

— Perfettamente, — rispose questi.

L’avvocato Snubbin aprì le lenti, se le alzò fino agli occhi, e dopo aver osservato con curiosità per pochi secondi il signor Pickwick, si voltò a Perker, e disse con un lieve sorriso:

— È una buona causa questa del signor Pickwick?

Perker scrollò le spalle.

— Vi proponete chiamar dei testimoni?

— No.

Il sorriso sulla faccia di Snubbin si delineò più nettamente; ei si cullò la gamba con maggior violenza; e sdraiandosi nel suo seggiolone tossì in tono dubitativo.

Questi indizi dei presentimenti di Snubbin sull’argomento, per tenui che fossero, non andarono perduti pel signor Pickwick. Si aggiustò più solidamente sul naso gli occhiali attraverso i quali aveva attentamente seguito quelle manifestazioni di sentimento cui l’avvocato s’era lasciato andare; e disse con grande energia e senza dar retta ai segni e ai visacci che gli andava facendo Perker:

— Il mio desiderio di vedervi per una ragione di questo genere, signore, sembrerà certo molto strano ad un uomo come voi che di questi casi ne vede tanti.

L’avvocato Snubbin si studiò di guardare gravemente al fuoco, ma il sorriso tornò di nuovo.

— La gente della vostra professione, o signore, — proseguì il signor Pickwick, — vedono il lato peggiore della natura umana; le contese, le inimicizie, le malvagità vi sorgono davanti a tutti i momenti. Voi sapete per la pratica che avete dei giurati (non intendo mica di offendere nè voi nè loro) quanto importi il far dell’effetto; e naturalmente siete corrivo ad attribuire ad altri un desiderio di adoperare, con fini d’inganno e d’interesse personale, quei medesimi strumenti di cui voi, in buona fede e con mire assolutamente oneste anzi col nobile intento di fare il più che potete pel vostro cliente, conoscete così bene la tempra e il valore per il grande maneggio che ne fate quotidianamente. Io credo veramente che a questo si possa attribuire l’idea volgare sì ma assai comune dell’esser voi, come corpo, sospettosi e diffidenti. Avendo pure la coscienza dello svantaggio di farvi tale dichiarazione, nel caso presente, io son venuto qui, perchè desidero farvi chiaramente intendere, come l’amico Perker vi ha già detto, che io sono innocente di quanto mi si addebita, e benchè apprezzi altamente il valore del vostro appoggio, o signore, voglio aggiungere che, a meno che non mi aggiustiate piena fede, amerei mille volte meglio non giovarmi del valido ausilio del vostro ingegno.

Molto prima della chiusura di questo indirizzo, che pel signor Pickwick, dobbiamo riconoscerlo, aveva un carattere piuttosto prolisso, l’avvocato Snubbin era caduto in uno stato di completa astrazione. Scorsi però alcuni minuti, durante i quali avea ripreso la sua penna, parve accorgersi di nuovo della presenza dei clienti; e allora, alzando la fronte dai suoi fogliacci, disse sbadatamente:

— Chi mi hanno dato in questa causa?

— Il signor Phunky, — rispose Perker.

— Phunky... Phunky... Non l’ho mai inteso nominare. Dev’essere molto giovane.

— Sì, giovanissimo. È stato appunto chiamato l’altro ieri. Vediamo un po’... sicuro, non sono ancora otto anni che bazzica nella Corte.

— Ah, sicuro, me lo figuravo, — disse Snubbin, in quel tono compassionevole con cui si parlerebbe di un povero bambino senza sostegno. — Signor Mallard, mandate da... da...

— Phunky, Holborn Court, Gray’s Inn, — suggerì Perker (Holborn Court, sia detto di passata, si chiama ora Sourt Square), — dal signor Phunky, e ditegli che gli sarei grato se venisse qua un momento.

Il signor Mallard partì per eseguire la sua commissione, e l’avvocato Snubbin si sprofondò di nuovo nella sua astrazione fino a che non fu introdotto il signor Phunky.

Benchè novizio all’arte forense, il signor Phunky era un giovane fatto. Era nervoso nei modi, e parlava con una penosa esitazione, che non pareva tanto un difetto naturale quanto l’effetto di una timidezza motivata dalla coscienza dell’esser tenuto giù per difetto di mezzi, d’interesse, di parentele, d’impudenza, secondo i casi. Era sopraffatto dalla presenza autorevole di Snubbin, ed abbondava di cortesia per l’avvocato.

— È la prima volta che ho il piacere di vedervi, signor Phunky, — disse Snubbin con altera condiscendenza

Il signor Phunky s’inchinò. Egli invece aveva avuto il piacere di vedere l’onorevole Snubbin ed anche d’invidiarlo con tutta l’invidia di un modesto principiante per lo spazio di otto anni ed un quarto.

— Siete con me in questa causa, sento dire? — disse Snubbin.

Se il signor Phunky fosse stato un uomo ricco, avrebbe subito mandato a chiamare il suo scrivano perchè gli ricordasse la cosa; se fosse stato un uomo dotto, avrebbe appuntato l’indice alla fronte sforzandosi di ricordarsi se mai nella molteplicità dei suoi impegni aveva o pur no accettato, anche questo; ma poichè non era nè ricco nè dotto (in questo senso almeno), si fece rosso soltanto e s’inchinò.

— Avete letto le carte, signor Phunky? — domandò Snubbin.

Anche qui il signor Phunky avrebbe dovuto dichiarare di aver tutto dimenticato intorno al merito della causa; ma siccome egli avea letto tutte le carte che gli aveano posto avanti nel corso dell’azione, e non avea pensato ad altro, nella veglia e nel sonno, nei due mesi durante i quali era stato ritenuto come junior dell’avvocato Snubbin, si fece ancora più rosso, e tornò ad inchinarsi.

— Ecco lì il signor Pickwick, — disse Snubbin movendo la penna nella direzione del nostro filosofo.

Il signor Phunky s’inchinò al signor Pickwick con la reverenza che un primo cliente deve sempre destare; e di nuovo chinò il capo verso il suo superiore.

— Non vi dispiacerà forse ricondurre con voi il signor Pickwick, — disse Snubbin, — e... e... udire quel che il signor Pickwick vorrà comunicarvi. Terremo poi un consulto, naturalmente.

Facendo intendere a questo modo di essere stato troppo a lungo interrotto, l’avvocato Snubbin, che sempre più era andato sperdendosi nelle nuvole, fece l’atto di guardare con le lenti, s’inchinò leggermente intorno, e s’immerse di nuovo nel caso giuridico a sè davanti, il quale emergeva da un interminabile processo originato dall’atto di un individuo, defunto un secolo innanzi o giù di lì, il quale avea intercettato un sentiero che menava da un posto dove nessuno era mai venuto ad un posto dove nessuno era mai andato.

Il signor Phunky non volle per nulla al mondo consentire a passar per alcuna porta se prima di lui non fossero passati il signor Pickwick col signor Weller; sicchè ci volle un po’ di tempo per scendere in piazza; e quando vi furono giunti, andarono su e giù, e tennero una lunga conferenza, il cui risultamento fu questo, ch’egli era molto difficile prevedere il verdetto; che nessuno poteva calcolare anticipatamente l’esito di un’azione; che gli era per loro una buona sorte e una garentia di successo l’aver prevenuto la parte avversaria, impegnando il grande Snubbin; ed altri cosiffatti argomenti di dubbio e di conforto, come suole negli affari di questo genere.

Il signor Weller fu allora destato dal suo padrone da un suo sonnellino tranquillo di un’oretta; e, preso che ebbero commiato da Lowten, padrone e domestico ritornarono alla City.